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Il delitto della contessa Onigo
(Editrice Santi Quaranta, Treviso, 1997)
In copertina: Giulio Ettore Erier (1876-1964), Signora che scende dalla carrozza, 1911, olio su tela, Museo Civico di Treviso

Linda Onigo, contessa trevigiana di religione valdese, viene uccisa l’11 marzo 1903 nel giardino del suo palazzo, dal pisnente Pietro Bianchet.

Il romanzo, intenso e coinvolgente, si allarga dalla sfera individuale a quella storico-sociale; riproponendo in modo originale (e duplicando in un gioco di specchi e di rilanci continui) l’artificio del manoscritto ritrovato, l’autore si avvale di due registri stilistici: uno, realistico, riguarda il delitto storicamente accaduto; l’altro, più psicologico, è dato dal diario del conte Francesco Avogadro degli Azzoni, amico della contessa che rievoca soprattutto il processo a Bianchet, celebrato a Venezia.

In una lingua ora serrata, ora scabra, ora attraversata dall’incanto dei racconti di veglia e dalla memoria dell’oralità contadina, Gian Domenico Mazzocato offre al lettore un suggestivo e pertinente quadro della provincia veneta tra Ottocento e Novecento: Bianchet riassume nel suo gesto tragico il rancore delle plebi contadine affamate e pellagrose, colpite dallo sfruttamento cinico degli agrari locali di cui si fa archetipo -splendido e ingombrante dal punto di vita letterario- la contessa Teodolinda Onigo, resa dall’autore ben al di là della sua condizione sociale con una penetrazione interiore che coglie tutta la disperazione di un’anima provata, chiusa e solitaria.

La bravura narrativa di Mazzocato sta nel delineare, con forti squarci, la tragedia di un mondo e di un’epoca e insieme nel saper scolpire figure indimenticabili che sono, oltre alla contessa, lo stesso Pietro Bianchet riscattato in tal modo dal silenzio inesorabile della cosiddetta grande storia, il maestro Bresolin (maestro “rurale e socialista”) di Trevignano, il maestoso personaggio di Caterina Onigo, madre di Linda.

Il delitto della contessa Onigo è uno di quei rari libri in cui la geografia abissale delle anime si fonde con la storia, con il retaggio ancestrale e favoloso del mondo contadino, con i paesaggi, qui della Pedemontana e del Montello; con le miserie sociali dei potenti.

IL PRIMO CAPITOLO

Nella penombra della cella angusta e umida, Pietro Bianchet avvertiva lo sciabordio di un’acqua lontana. Il rumore non veniva da una direzione precisa, ma era un po’ ovunque, dentro i muri, nelle fessure tra pietra e pietra.

Bianchet bestemmiava piano, litaniando sempre la stessa bestemmia. Putana Venesia, bruta troia putana Venesia.

Poi socchiudeva gli occhi.

Dunque non era vero, come gli aveva detto Samuele, il suo ultimo compagno di cella a Treviso, che per raggiungere Venezia bisognava incontrare una perfida e brutta vecchia sul ponte e baciarle il culo. Quel pedaggio gli era stato risparmiato. Era sceso dal treno e, attraversando una piccola folla di curiosi, aveva raggiunto l’imbarcadero.

Aveva alzato gli occhi e aveva guardato i distratti spettatori del suo breve viaggio in catene, verso la prigione di Venezia.

Alcuni erano ben vestiti, come raramente gli era capitato di vedere. C’erano persino due preti e anche loro sembravano più eleganti e puliti del parroco di Trevignano.

Qualche altro, invece, era cencioso come lui e sembrava in attesa. Gli era parso di intuire un sorriso di amicizia, una complicità.

Corajo, moro gli aveva mormorato qualcuno, mentre usciva dalla ferrovia e si avviava all’imbarcadero. Erano gli ultimi volti che aveva visto, le ultime parole che aveva udito.

Ricordava ogni rumore dal momento in cui aveva lasciato il piccolo molo circondato da lunghe pertiche infisse nell’acqua. Il cigolio sordo delle catene, il rimbombo dei passi sulle assi, il rimbrotto della guardia che non lo aveva mai lasciato un attimo da quando era partito dalla stazione di Treviso.

Quel viaggio sferragliante verso l’ignoto con la strega che lo aspettava sul ponte era stato il più lungo in ventisette anni di vita e quando aveva cercato con gli occhi la vecchia e non l’aveva vista, era rimasto quasi deluso.

Non aveva capito, abbacinato dal sole, di essere ormai entrato nella stazione di Venezia. Il cigolio del freno si era spento con un sussulto della carrozza e la guardia lo aveva strappato dal suo torpore in modo brusco. Era un ragazzo giovane, robusto, dal viso grande e arrossato. Altre guardie si erano subito affiancate e altre ancora lo aspettavano giù dal predellino.

Nella sua testa confusa dal rancore e dalle troppe cose che non conosceva o non comprendeva, si era fatta strada l’idea di una Venezia grande, adulta, smisurata. Il contrario delle poche casupole dal pavimento in terra battuta e dal tetto sconnesso, sparse nella campagna di Trevignano, attorno alla chiesa e al palazzo degli Onigo.

Nella mente immagini e ricordi si mescolavano, i tempi si sovrapponevano: il giorno in cui la sua vita si era girata e qualcosa si era spezzato in lui.

Appena era fuggito dal giardino dove aveva ammazzato la parona Onigo, non aveva pensato a nulla, se non a dire a tutti che l’aveva fatto per rabbia. Poi si era acquietato e, nei giorni che erano seguiti, si era chiesto che cosa sarebbe stato di lui. Mai aveva pensato di dover andare a Venezia.

Era un giorno d’estate, quando il secondino gli aveva detto: guarda che ti processano a Venezia.

Lui si era tenuto dentro la voglia di chiedere perché: in fondo intuiva il motivo. I soldi della parona Onigo facevano tanta voglia a molti.

Lui si era sporcate le mani di sangue e gli altri avrebbero goduto dell’eredità.

Guardava Venezia sfilare, sopra le acque quiete appena increspate dai movimenti delle barche che andavano in direzione opposta.

Non era solo grande, senza confine. Era soprattutto ricca, incredibilmente ricca, aveva uomini eleganti e case magnifiche.

I due vogatori stavano in piedi, uno davanti e l’altro dietro, e non sembravano avere incertezze sulla strada da seguire. Una svolta, ancora un varco sulla destra invisibile fino ad un attimo prima, poi uno slargo a sinistra, poi un giro prolungato che lambiva una piazza ampia e frequentata.

Poi di nuovo sotto ponti stretti e tra case vicine.

Quando alzava gli occhi Bianchet guardava con stupore le finestre che si aprivano sulle facciate dei palazzi: tante, spesso l’una vicina all’altra, su più file.

Era accoccolato al centro della barca, le ginocchia tra le braccia, la testa tra le ginocchia. Meglio chiuderli gli occhi, pensare di essere su un ramo esile e mosso dal vento, di poter scendere a terra tra un istante.

Ma Venezia era là e gli stava addosso con tutta la sua suggestione, palazzo dopo palazzo.

Dunque era là che finiva tutto il suo lavoro, la fatica dei miserabili come lui. Maledetta Venezia, se per capire queste cose aveva dovuto ammazzare una parona avara e farsi chiudere in prigione.

L’acqua sotto la chiglia aveva un movimento ritmato e un rumore dolce. Venezia era, agli occhi di Bianchet, una donna bella che si offriva a tutti.

Era strano e non riusciva a capire. Aveva ammazzato una donna bella e altera, non vedeva sua moglie dai giorni del delitto (quanti mesi erano passati? undici…quasi un anno, signore santo, quasi un anno), non aveva mai visto sua figlia (dunque anche lei ha quasi un anno), ma quella che lo sovrastava dai palazzi, lo spiava dalle finestre e dai ponti, si rendeva invisibile dietro le svolte dei canali, era un’altra donna. Diversa, vicina e ugualmente irraggiungibile.

Una donna che esisteva molto prima che lui nascesse e che sarebbe continuata dopo di lui. Eternamente bella, eternamente estranea alla fatica di vivere.

Bianchet si era guardato le mani che spuntavano dalla rozza giacca di tessuto grossolano e sbrindellato. Ancora una volta aveva visto sul loro dorso, i segni dolorosi della pellagra. Quasi delle piaghe disseccate.

Aveva pensato ai gelsi vicino a casa sua, alle foglie ruvide come le sue mani e che ancora non erano spuntate.

Poi aveva capito, Bianchet. La strega cui baciare il culo era la stessa bella donna che gli stava addosso e che contemporaneamente gli sfuggiva.

Aveva pianto un poco dai suoi occhi piccoli e cisposi da pellagroso, ma nessuno se n’era accorto.

Quando lo avevano strattonato, per farlo scendere al pontile d’approdo non aveva opposto alcuna resistenza. Si sentiva vuoto.

Lo avevano fatto sedere in uno stanzone senza finestre e illuminato solo da alcune lampade a petrolio che davano un fumo acre. Il tempo era fermo e inutile. Lo avevano chiamato dopo qualche ora. Dal trambusto e dai rumori di gente che accorreva e si affrettava, aveva capito che era arrivata una persona importante.

Un uomo severo, dai grandi baffi grigi, gli aveva fatto alcune domande. Pietro aveva capito che rispondere o non rispondere era la stessa cosa. Non pronunciò neanche il suo nome, e nemmeno alzò gli occhi.

Le gambe erano pesanti. Non mangiava da molte ore e nella gola avvertiva una sete ruvida. Tuttavia non reagì agli spintoni che ricevette; alla fine di interminabili scalini e corridoi fu fatto entrare nella sua cella.

Solo il cigolio della chiave nella serratura gli era penetrato un poco nell’anima e lo aveva scosso. Non aveva guardato il suo compagno di cella.

Si era steso sul pagliericcio e aveva atteso che gli portassero qualcosa da mangiare.

 

 

copertina dono catterina

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