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Inferno Canto X

INFERNO

CANTO X

 

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

17 novembre 2004)

IL DRAMMA DI FARINATA

E CAVALCANTE

 

Ora sen va per un secreto calle,

tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.[1]

 

Il secreto calle, il sentiero stretto e anche difficilmente individuabile per chi non sia esperto del luogo. Virgilio lo imbocca e, dietro lui, Dante. Da una parte hanno le mura della città di Dite, dall’altra le arche infocate in cui giacciono gli eretici. La soglia della città dalle possenti, formidabili mura che identifica la parte più bassa dell’inferno, quella in cui vengono puniti i peccati più gravi secondo l’ordinamento morale che Dante espliciterà nel canto successivo, l’undicesimo, è appena stata varcata. Comincia così, con questo esordio in tono minore, uno dei canti più frequentati dell’intero poema, più visitati dalla critica e anche più noti al grande pubblico. È il canto di Farinata e Cavalcante, più in generale è il canto di coloro che ebbero cultura laica e scelte personali conseguenti.
Furono, per quanto in modo non consono alla missione divina che ogni uomo ha nel suo viaggio terreno, spiriti liberi, tesi all’affermazione di quella virtus che esalta l’uomo e le sue migliori qualità. Non un peccato di natura morale, nel senso che in essi non vi fu deviazione rispetto all’ordine naturale delle cose stabilito da Dio, ma una esaltazione del proprio spirito, una ricerca autonoma di una via nel mondo. L’eterno dramma di Ulisse, insomma. Che non ha peccato in senso stretto, ma ha presunto. Anche il contrappasso riflette questa complessità. Le tombe in cui giacciono sono infuocate. Il fuoco ricorda loro lo spirito ardente che male usarono sì da esserne tormentati in eterno. E la tomba. Perché costoro negarono l’immortalità dell’anima e devono stare in un alveo che ricorda il loro eterno morire, la loro eterna separatezza da Dio.

 

«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face».

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».[2]

 

Il canto è solidamente incardinato, come una sorta di rappresentazione teatrale. Un prologo e quattro momenti: il primo colloquio tra Dante e Farinata, l’apparizione di Cavalcante, il secondo colloquio tra Dante e Farinata, la discussione sulla preveggenza dei dannati. Lo scenario è quello che possiamo desumere da tanti quadri e affreschi coevi: una città medievale in cui le torri sono sostituite da tombe, i riflessi del fuoco, le mura che delimitano un territorio privilegiato (un po’ come il limbo: teniamo presente questo dato perché ci tornerà utile).
Se su quelle mura si potesse salire vedremmo i dirupi su cui giace il Minotauro, la landa in cui corrono i centauri, soprattutto le onde rosse e ribollenti di sangue del Flegetonte. Il tutto è molto drammatico, molto alto.
Come nel nobile castello in cui trascorrono gli spiriti magnanimi. Qui è posto di gente discutibile, ma dall’alta tempra morale, dall’indubitabile vigore intellettuale. Qui non ha luogo la melma che ricopre i golosi come Ciacco, qui non è posto per le zuffe volgari che coinvolgono avari e prodighi. E anche le manifestazioni di dolore non sono urlate ma, se si può dire, sottintese.
Appartengono all’anima, non al simulacro materiale che patisce la pena e sconta il peccato. Morte, non violenza; dannazione ma non degrado. Lo spazio è quello utile a proclamare la propria passione politica o l’amore per il proprio figlio. Non triviali urla di affamati o di iracondi.
Abbiamo appena letto il prologo. Dante chiede di sapere. Virgilio dice che lì stanno gli epicurei (definizione erronea ma comune ai tempi di Dante per indicare chi non crede nell’immortalità dell’anima) i quali vedranno le loro tombe sigillarsi dopo il giudizio universale. Qualche schermaglia di buona grana retorica: Virgilio accenna a qualcosa che Dante ancora non gli dice. Ma la sua ritrosia, aggiunge subito lo stesso Dante, nasce dal fatto che proprio Virgilio lo ha già più volte ammonito alla prudenza.
Ed ecco Farinata. Aristocratico e quasi lontano, si adegua al livello alto del discorso che ha appena sentito correre tra i due.

 

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.[3]

 

Farinata è il soprannome di Manente degli Uberti, capo dei ghibellini di Firenze dal 1239, autore di due successive cacciate dei guelfi da Firenze nel 1248 e poi (i guelfi avevano ripreso brevemente il sopravvento nel 1258) nel 1260 con la battaglia di Montaperti. Battaglia importante anche da un punto di vista ideologico perché nella coscienza dei Fiorentini essa divenne lo spartiacque tra la vecchia aristocrazia magnatizia e la nuova democrazia borghese del denaro, delle banche, dell’invenzione della lettera di cambio.
Perché a Manente fosse giustapposto l’appellativo derivante da quella certa polenta gialla che si mangia in Toscana, non è dato sapere. Forse per via della sua carnagione, ma serve ricordare che Giovanni Villani ce ne tramanda un ritratto forte e maschio.
Ma, insomma, è questione del tutto irrilevante. A noi interessa vedere come Dante ce lo rappresenta, come svolge il personaggio e a cosa sia funzionale il lavoro del poeta. Che qui è particolarmente fine, straordinariamente saggio, di grandissimo mestiere.
Farinata è, nell’immaginario di Dante e dei suoi contemporanei, un mito. Un monumento. Si sa come sono queste cose: sui miti si lavora, molto spesso inconsapevolmente, per renderli sempre più tali, per enfatizzarli. Farinata è il politico fortemente intriso e penetrato dall’amore di parte. E generoso di sé proprio perché è l’amore di parte a motivarlo. Eppure capace di alzarsi sopra se stesso, riconoscere il valore dell’avversario, privilegiare il senso di patria. Anche tra i nemici ci sono uomini magnanimi e di alto sentire. E la città, prima che teatro delle fazioni, è luogo dei cittadini, di tutti i cittadini.
Ecco il mito, ecco il monumento.

 

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».

Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».[4]

 

Ma il mito deve fare i conti con la storia.
Farinata ci era apparso come una statua nobilmente atteggiata: …Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in sù tutto ’l vedrai. E subito dopo ci pare avere l’inferno a gran dispitto. Con Dante inizia subito un colloquio a base di stoccate date e ricevute, di colpi alti e bassi, di successi ottenuti e di insuccessi rinfacciati. Il mito è impastato di politica, di odio di parte, di memorie di battaglie vinte e perdute, di fughe inflitte e subite, di trame ordite pro e contro. Il mito rientra nel quotidiano, si dimentica ciò che rappresenta per la tradizione popolare, ha l’obbligo di confrontarsi con una memoria ancora calda, con atti militari ed eventi politici che fanno sentire ancor ben vive le conseguenze.

 

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».[5]

 

“Furono cacciati”, dice Dante. “Io li dispersi” aveva detto Farinata.
C’è una grande differenza e il poeta ristabilisce in qualche modo le distanze e i ruoli. Anche la storia. Risponde con fermezza, con durezza ma non con disprezzo. Vuole tenere alta la memoria della propria patria e salvare il patrimonio morale che promana dal suo interlocutore. Così lo separa dai membri della sua stessa fazione. Farinata è tornato a Firenze per morire, i suoi invece non hanno appreso l’arte difficile di riorganizzarsi, di studiare le strategie di ricompattamento prima e di ritorno vero e proprio poi.
Essere cacciati allude ad una violenza subita da cui ci si può riscattare. La dispersione invece è delle cose senza anima. La sabbia o la paglia che un turbine di vento divide e disperde irreparabilmente. Va anche aggiunto, a spiegazione della durezza di Dante, che l’atteggiamento del poeta pellegrino obbedisce ad uno schema culturale tipico ancor oggi delle genti toscane e laziali, tutto basato sul reciproco rinfacciarsi le debolezze delle rispettive famiglie e casate, risalendo di avo in avo, generazione dopo generazione. Il canzoniere di Cecco Angiolieri ci offre esempi godibilissimi. Ma vengono in mente anche tanti stornelli popolari da taverna.

 

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.[6]

 

Il verso si rallenta, il ritmo ha una pausa. Il contrasto è evidente. Dopo il gigante che si erge, un condannato che si affaccia dalla tomba solo fino al mento. Sta in ginocchio, giudica Dante. È Cavalcante Cavalcanti, di nobile famiglia e padre del grande Guido, l’amico di Dante che, proprio in quel 1300 in cui è immaginato il viaggio nell’oltretomba, muore durante il suo esilio a Sarzana. Guido aveva sposato proprio una figlia di Farinata.
La cosa era notissima, ma Dante non vi fa cenno, quasi a sottolineare la distanza tra i due, la loro sostanziale estraneità. Accomunati solo dal peccato di eresia. Cavalcante pone al poeta una domanda che chiarisce tutto. Perché lui compie quel viaggio straordinario e suo figlio Guido, la cui altezza d’ingegno era certamente tale da stare alla pari di quella di Alighieri, invece no? Nella domanda ci sono il suo fallimento e la sua condanna. Non bastano le facoltà razionali. Senza la fede queste si trasformano in presunzione. In sostanziale inadeguatezza al progetto divino sugli uomini. Cavalcante guarda Dante e intorno a lui. Quel Dintorno mi guardò crea uno spazio, un vuoto, una assenza. Davvero straordinario.

 

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?».

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».[7]

 

La risposta di Dante è semplice, didascalica, esemplare, diretta. “Io, dice, non sono qui per un qualche privilegio o per mia volontà. Virgilio e Beatrice, cioè la ragione e la grazia, sono il presupposto del mio viaggio. Beatrice fu sdegnata da Guido”.
E il lettore comprende che questa Beatrice non è più il personaggio storico della vicenda esistenziale di Dante, non è più la protagonista della Vita Nuova. Ma è simbolo e immagine di quella grazia che da Dio promana e a Dio conduce. Dante riconosce il suo interlocutore e gli dice che Guido (questa è la più convincente interpretazione di un passaggio difficile e particolarmente tormentato) in vita sua non ha riconosciuto il valore della fede e il magistero della teologia. La religione non è stata dunque guida centrale della sua esistenza.
Ma Dante usa il passato: ebbe. E questo scatena l’angoscia del povero padre. Che parla della morte con tono di elegia, come di assenza di luce. Gli tornano in mente gli occhi del figlio. Dante, come sapremo tra poco, è assalito da un dubbio. Esita, non risponde. Cavalcante prende quel silenzio come una conferma di ciò che gli è parso di intuire, un segnale cioè dell’avvenuta morte del figlio. Ha un sussulto e ricade nella sua tomba. E più non parve fora descrive Dante.
Ed è una sorta di epitaffio per l’eternità. L’angoscia, la paura, la timidezza del padre. Lo strazio e l’abbandono di un uomo afflitto dalla solitudine. Che è di tipo del tutto diverso da quella di Farinata il quale ora si rilancia. Farinata è solo non perché straziato dal dolore, ma perché isolato dalla sua stessa grandezza.

 

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. [8]

 

Farinata non è nemmeno sfiorato dal dramma del padre. Eppure c’è qualcosa che lo lega al consuocero. Nessuno dei due è riuscito a dare compimento positivo ai suoi progetti. Cavalcante nella dimensione privata: un figlio che muore senza aver sviluppato tutte le potenzialità connesse al suo straordinario ingegno. Farinata nella dimensione pubblica: un progetto politico il cui fallimento lo tormenta ancora di più della pena infernale cui è soggetto. O, per meglio dire, la esalta, la rende più crudele e perfida.

 

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa:

e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».[9]

 

Ed ecco la profezia. Non passeranno cinquanta mesi lunari (cioè quattro anni e due mesi) e anche tu apprenderai il dolore dell’esilio e le difficoltà del ritorno. La perifrasi con cui Dante indica il lasso di tempo allude a Proserpina, rapita da Plutone e portata negli Inferi di cui divenne regina. Era la luna, la dea dei mondi notturni. È questa la prima profezia che Dante riceve circa il suo esilio. La data che qui si indica (facendo base sulla settimana santa del 1300) è il giugno del 1304. In quei giorni Dante si staccò definitivamente dal partito bianco e accettò come irreversibile la propria condizione di esule.
Dopo la profezia la domanda, introdotta da quel se tu … regge, se torni, con valore augurale, come nelle regole della captatio benevolentiae, ecco la domanda terribile: perché tanto odio dei Fiorentini contro di me e i miei? In effetti odio grande fu davvero. Gli Uberti nel 1268 videro il tracollo della loro fortuna. Pochi rimasero in città, umiliati e vessati. Ma ben 26 famiglie della loro consorteria presero la via dell’esilio. Le loro case furono distrutte, i sepolcri delle tombe di famiglia devastati e profanati, i resti mortali gettati in Arno. E per anni nessuno rimosse le macerie di tanto furore a monito eterno per tutti. Perché tanto odio?

 

Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».[10]

 

La battaglia di Montaperti del 1260 che si combatté tra l’Arbia e un suo affluente, il Malena.
Si scontrarono Fiorentini e ghibellini di Toscana, sostenuti da re Manfredi. Il peggior scacco mai subito da Firenze. Un massacro. I cronisti, ed è il particolare che ricorda Dante, parlano di fiumi rossi di sangue. E qualche valutazione arriva a contare diecimila morti. Una enormità per i tempi. Per Firenze, come ho già detto, fu la fine della vecchia aristocrazia, quella cui andava la simpatia di Dante. La Firenze semplice di Cacciaguida, per intenderci.
I ghibellini si radunarono poi ad Empoli per decidere come gestire la vittoria. La tesi prevalente era quella di distruggere Firenze. Vi si oppose Farinata, solo lui contro tutti. Ed ecco il monumento di magnanimità che ragiona fuori degli schemi contingenti, in termini di profondità universale. Nel momento supremo, Farinata va oltre gli interessi di parte, si sublima nella difesa di una patria che fino a quel momento ha combattuto. Superiore a tutti, perfino a quel capopopolo fazioso che è stato lui stesso.

 

«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.[11]

 

Nel dolore e nel ricordo di Farinata, il canto supera il suo momento di più alta tensione e si avvia al congedo. Il dubbio di Dante, quello che lo ha trattenuto dal rispondere prontamente a Cavalcante. Come fanno le anime dell’Inferno a conoscere il futuro e a non conoscere il presente? Difficile dire se questa condizione sia particolare del canto o generale della cantica e anche del Purgatorio. Alla poesia non si deve chiedere eccessiva coerenza. Fatto è che le anime dimenticano il futuro mano a mano che questo diventa presente. Dante non dimentica di lasciar per Cavalcante un chiarimento dell’equivoco. E poi chiede a Farinata chi altro sia punito insieme a lui.

 

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».

«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto;

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto».

E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.[12]

 

Farinata cita Federico II di Svevia e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, entrambi in fama di epicureismo.

 

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio.
«E ora attendi qui», e drizzò ‘l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,

che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.[13]

 

Dante e Virgilio tornano al loro cammino, di nuovo soli.
Dante è turbato e il suo compagno gliene chiede il motivo. L’esilio, la dura, terribile condizione dell’esilio. Virgilio gli dice semplicemente di conservare ciò che ha appreso nella sua memoria e di completarlo con quanto gli dirà Beatrice. In realtà sarà Cacciaguida a completare il panorama del futuro di solitudine che lo attende. A noi resta questo incontro/scontro tra due titani come Dante e Farinata. Nemici e accomunati dall’amor di patria. Stretti nel legame di chi sa che deve vivere la sua vita nel dolore. Farinata viene da una esperienza terribile. Dante comincia ad apprendere ora che la sua sorte non sarà migliore.


 

[1]If X 1-3
[2]If X 4-21
[3]If X 22-36
[4]If X 37-48
[5]If X 49-51
[6]If X 52-54
[7]If X 55-63
[8]If X 64-72
[9]If X 73-84
[10]If X 85-93
[11]If X 94-96
[12]If X 97-117
[13]If X 118-136

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