INFERNO
CANTO XX
(Treviso, Fondazione Cassamarca
Palazzo dell’Umanesimo Latino
27 aprile 2006)
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.[1]
È l’insolito esordio del XX canto dell’Inferno che ci porta nella quarta bolgia del VII cerchio. Qui sono puniti dei fraudolenti molto particolari, gli indovini. Incipit inusitato non solo perché Dante avverte il bisogno di dirci a quale punto della sua opera il lettore sia giunto, ma perché sembra ricorrere ad un espediente da guitti. Un po’ come i menestrelli e i cantastorie che per ravvivare l’attenzione del loro pubblico promettevano cose nuove, mai sentite, racconti mirabolanti, storie oscure e intriganti.
Dante e Virgilio si affacciano sulla nuova bolgia e subito vedono il panorama morale e fisico cui sono abituati, però in forme sempre nuove. I due scorgono una folla che procede piangendo e in silenzio. I dannati hanno il passo lento di chi avanza in processione.
Io ero già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lacrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.[2]
Letane o letanie o litanie, propriamente le suppliche che si recitavano durante le processioni. Come spesso accade Dante usa terminologia e immagini proprie della religiosità popolare per introdurre una visione violentemente stravolta, antitetica e radicalmente in contrasto con la realtà quotidiana, quella che cade sotto i sensi ed è oggetto dell’esperienza comune. Ecco, subito, terribile e inattesa la pena nova che ci ha anticipato.
Come ’l viso mi scese in lor più basso
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
chè dalle reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.[3]
Questi dannati dunque hanno il volto girato all’indietro e devono camminare a ritroso perché non hanno la possibilità di guardare avanti. Dante non lo crede possibile, ma forse sulla terra qualcuno subisce qualcosa del genere a causa di una parlasia, di una paralisi cioè. Avvertiamo anche da questa annotazione un procedere sospeso tra mostruosità e normalità, tra mondo terreno in cui una malattia può stravolgere all’improvviso la persona umana e un aldilà in cui il peccato condanna per sempre ad una situazione orribile e anormale. Contrappasso evidente: costoro hanno preteso di guardare avanti, troppo. Devono ora rivolgere il loro sguardo all’indietro. Dante ce lo dirà in maniera molto scolastica tra qualche istante, come sentiremo, parlando di Anfiarao.
Ma se è semplice il contrappasso, particolarmente complessa e articolata era la colpa. Non si tratta solo dell’arroganza intellettuale dell’uomo che pretende di conoscere il futuro, di condizionare dunque lo svolgersi degli eventi e di mettersi in qualche modo in competizione e contrasto con Dio. C’è qualcosa di più sordidamente sottile, qualcosa di perverso e pervertitore. Spesso indovini, maghi e astrologhi mettono le loro arti al servizio di qualche potente, facendo credere al mondo intero che certe azioni e certi delitti andavano comunque compiuti perché scritti nel libro del futuro. I maghi insomma si prestano a coprire il crimine ascrivendolo al fluire degli eventi necessitato dal destino e dunque dalla volontà di Dio. Dunque violentatori e usurpatori della stessa divinità. Noi sappiamo che questo era un preciso pensiero di Dante che nel 1314, nella sua lettera ai cardinali italiani, lamenterà proprio questa politica affidata al brutale arbitrio dei maghi che la giustificavano fornendo alibi che non potevano essere discussi. Dante insiste.
…la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato ad un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quando è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?[4]
La sensazione di disagio è così forte, dunque, che Dante si mette a piangere, suscitando l’ira di Virgilio che lo riprende aspramente e gli dà dello sciocco, lo mette in crisi chiedendogli come si possa essere tanto sprovveduti. Quel viaggio nell’aldilà per ben altro gli è stato concesso che per provare pietà davanti a dei peccatori. Il problema non è solo di questo luogo e riguarda il più generale tema del coinvolgimento di Dante in quello che vede, sente, percepisce. Ci ricordiamo dell’emozione violenta davanti a Paolo e Francesca? Vale la pena di fermarsi a considerare un po’ perché qui risiede una delle chiavi di lettura dell’intera cantica.
E in effetti quella che abbiamo letto è tra le terzine più tormentate del poema con quel verso di apertura che è tra i più controversi e i più variamente interpretati dell’Inferno. Cosa significa che qui vive la pietà quando è ben morta? Certo significa che la pietà, l’amore verso Dio qui vive quando smette di esercitarsi verso chi ha peccato. E i due versi che seguono alluderanno certamente alla scelleratezza, all’iniquità di coloro che pretendono di comportare passione al giudizio di Dio, di renderlo passivo rispetto all’azione umana, sottomettendola ad essa.
È tematica complessa, già esplorata da Dante. Nel Convivio egli distingue una pietà intesa come il dolersi dell’altrui male e un’altra forma di pietà intesa come nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni.[5]
Insomma vi è la pietà dell’uomo di cultura e dell’uomo di esperienza che non può non veder coinvolto nella sofferenza altrui il proprio patrimonio culturale, il proprio vissuto, il suo studiare e il suo percepire il mondo. Che è ben diversa cosa della pietà sciocca di chi si ferma a commiserare un peccatore senza comprendere che la punizione che subisce è giusta perché decisa da colui che è giustizia per definizione. È criterio che evidentemente ci viene utile spesso nella lettura.
Lettura che ora ci propone, attraverso le parole di Virgilio, una galleria straordinaria di personaggi i quali appartengono un po’ a tutta la cultura di Dante: nessuno di loro è un Farinata o un Ugolino, nessuno ha personalità rilevata ed eroica. Sono paradigmi, emblemi anche se poi Dante si accosta a loro non certo come redattore di un testo devozionale ma coinvolgendo in maniera ampia il suo mondo culturale e, a dirla intera, tutta la cultura del suo tempo. Facciamoceli scorrere davanti agli occhi, leggiamo di loro e poi cerchiamo di penetrarne la complessità.
Si comincia con Anfiarao, uno dei sette che assediarono Tebe. A quella guerra lui non voleva partecipare perché sapeva che gli sarebbe costata la vita e infatti fu inghiottito da una voragine aperta da un fulmine di Giove. È condannato per sempre alla pena atroce comminata agli indovini perché ha preteso di sostituire la propria volontà a quella di colui che decide il fluire degli eventi. Dopo di lui Tiresia.
…vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti : “Dove rui,
Anfiarao? Perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira che ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.[6]
Tiresia fu indovino tebano di grande fama. Gli toccò di essere trasformato in donna quando con la sua verga colpì due serpenti che si stavano accoppiando. Solo sette anni dopo, toccando di nuovo quella coppia di serpenti in amore, recuperò, come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi, la condizione maschile. Dopo di lui, in questa tragica processione, si muove Arunte, il mitico indovino etrusco che, come sappiamo dalla Farsalia di Lucano, predisse la vittoria di Cesare. Con grande potenza scultorea, ci viene presentato mentre studia le stelle. E poi Manto, l’indovina errante rappresentata nuda, ma Dante non ne scorge il seno perché essa procede mostrando il dorso.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardare le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi , con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.[7]
A questo punto si ricorda sempre, a puro titolo di curiosità, che il canto XX è famoso per contenere due tra le sviste più gravi in cui Dante è incorso nella redazione del poema. La più clamorosa in assoluto riguarda proprio Manto che troviamo qui tra gli indovini, ma poi nel XXII canto del Purgatorio è elencata tra le anime che si trovano nel limbo[8]. Ci sarebbe anche da aggiungere che nel racconto che ci apprestiamo a leggere Manto ci viene rappresentata come vergine mentre Virgilio diceva a Dante che essa aveva generato un figlio al dio Tiberino. Manto era figlia di Tiresia, quando costui morì essa fuggì e dopo lungo peregrinare approdò in riva al Mincio e fondò Mantova. Vale la pena di seguirla nel suo favoloso viaggio. Dante profonde nella descrizione la sua consumata abilità narrativa e descrittiva, ma serve anche dire che, quando ci avviciniamo al lago di Garda, esibisce un velato elogio alla lì dominante dinastia scaligera. Il viaggio resta bello, arioso, generoso di panorami e di aperture. Leggiamolo.
Poscia che il padre di vita uscío
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, che ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
ne l’acqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese,
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva intorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo Benaco star non può,
e fassi fiume giù per i verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama,
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
nel qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
senza coltura e di abitanti nuda.
Lì per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che intorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.[9]
Dante chiude il racconto che mette in bocca a Virgilio con un forte tratto polemico. Ricorda come la decadenza di Mantova e della sua gente sia legata all’insipienza politica di Alberto da Casalodi che finì per spopolare la città dei suoi elementi migliori consegnandola in mano a Pinamonte della casata dei Buonaccorsi, il quale instaurò un dispotico e crudele regime personale che durò ben trent’anni, dal 1262 al 1291. La polemica, come ben sappiamo dai canti di Cacciaguida in giù, appartiene al Dante ferocemente ostile ai nuovi arricchiti, arrivati al potere attraverso maneggi e delitti. Virgilio ammonisce poi il suo discepolo a farsi persuaso, proprio sulla scorta della vicenda di Manto, che nulla può addolcire la severità di giudizio sugli indovini che restano dei fraudolenti privi dei poteri che sostengono di possedere. Dante si afferma convinto con quel bel verso di intonazione popolaresca così sonoro. I ragionamenti di Virgilio sono così convincenti, dice,
che li altri mi sarien carboni spenti.[10]
Poi Dante chiede se c’è qualche altro degno di essere nominato.
E allora ecco Euripilo la cui barba ricade sulle spalle dato lo stravolgimento cui è sottoposto il suo corpo: egli fu augure nel tempo in cui la Grecia rimase vuota di uomini e in patria restarono solo i bambini. Nella drammatica rappresentazione di una nazione vuota di maschi tutti partiti per la guerra, Euripilo è associato a Calcante: i due indovini congiunti decisero il momento di tagliare gli ormeggi verso Troia.
…«Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu -quando la Grecia fu di maschi vòta
sì ch’a pena rimaser per le cune-
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome , e così ’l canta
l’alta mia tragedía in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.[11]
A dispetto di questa conclamata conoscenza del poema virgiliano questa è la seconda grave svista del canto perché nell’Eneide Virgilio presenta Euripilo non come un augure ma come un semplice messo inviato a consultare un oracolo[12].
Noi ci fermiamo qualche istante, per esaminare il tema sempre così attuale dell’astrologia. Consiglio a tutti la lettura della splendida voce relativa nell’Enciclopedia Dantesca, edita dalla Treccani (a cui mi rifaccio ampiamente nelle brevi considerazioni che seguono), mentre se qualcuno volesse approfondire il tema dell’alchimia e della magia, consiglio di andarsi a leggere l’articolo davvero simpatico e cattivante Scienza e tecnica nell’Occidente cristiano, di Cesare Vasoli.[13]
La pratica astrologica si perde nella notte dei tempi e i suoi due tratti distintivi sono lo studio degli influssi celesti e la determinazione del futuro. Oggi, dopo la rivoluzione galileiana, la pratica astrologica non è mai sufficientemente condannata: un simulacro vuoto, un richiamo per gli allocchi e, di contro, fonte di facile e spregiudicato guadagno per ciarlatani e maghi. Nulla di serio. E del resto a noi non è difficile spiegarne la genesi. Semplificando molto: l’uomo alza gli occhi al cielo e si accorge che studiando il corso del sole può conoscere in anticipo gli equinozi, l’alternarsi delle stagioni, il verificarsi delle eclissi, l’andare e il venire delle maree. Se, ad esempio, le stagioni sono importanti per la lavorazione dei campi, perché gli astri non dovrebbero rivelare ogni altra cosa che riguarda la vita degli umani? Il trapasso è facile. Elementi astrologici noi troviamo nei pitagorici, in Platone, negli stoici.
Ma è soprattutto l’Islam, a partire dal VII secolo, a radunare gli elementi astrologici presenti non solo nella cultura filosofica greca, ma anche in quella indiana e iranica. Nell’ambito del magistero coranico così permeato di determinismo e così attento e proclive alla predestinazione, non era difficile spogliare l’astrologia dei suoi elementi pagani, camuffarla, accoglierla.
E da un certo punto in poi, proprio per il tramite della cultura islamica, troviamo aperta la discussione anche in ambito cristiano. Nel XII secolo Ugo di San Vittore la considera una scienza in parte naturale in parte superstiziosa[14]. Insomma l’astrologia non è ancora astronomia, ma vorrebbe diventarlo, si potrebbe in qualche modo dire. È giusto studiare il corso degli astri, è da riprovare la superstizione che ne nasce. In termini cristiani la presunzione che il destino umano sia scritto nelle stelle distrugge il libero arbitrio. Tesi analoghe sostiene e sviluppa autorevolmente Domenico Gundisalvi, il filosofo che ebbe a lungo la responsabilità del centro di traduzioni di Toledo e al quale tanto deve la cultura neolatina, autentico anello di congiungimento con quella araba[15]. Ne discutono Alberto Magno e Tommaso d’Aquino il quale arriva ad ammettere la possibilità di divinazione. Le stelle esercitano effettivamente un potere con i loro movimenti e col loro reciproco relazionarsi ma ciò non comporta che il mondo degli umani ne sia necessitato. Il libero arbitrio deve essere fatto salvo: posizione che è per grandi linee quella di Dante.
Ai suoi tempi “nessuna persona colta dubitava degli influssi degli astri; ma la determinazione del futuro, che contrastava fra l’altro con i dettami della religione, doveva essere giudicata illecita… mentre l’astrologia veniva a far parte della concezione cosmologica corrente, per cui gli influssi astrali rappresentavano un sistema di forze che governavano i cieli e tramite essi la realtà terrena, l’astrologo che pretendeva di determinare il futuro con mezzi razionali, doveva essere considerato un falso profeta, oppure un perverso ipocrita, che mascherava con i suoi calcoli un ricorso ad arti diaboliche”.[16]
È questo il motivo per cui in questo canto XX troviamo astrologi accomunati a maghi e streghe. E per noi è il momento di passare, nella rassegna dantesca, agli indovini moderni.
Il primo è Michele Scotto, lo Scozzese cioè, magrissimo nella rappresentazione dantesca. Personaggio non certo volgare e di bassa lega. Ai suoi tempi ebbe altissima fama di scienziato, astronomo e alchimista. Fu colui che tradusse dall’arabo gran parte dell’opera di Aristotile. Alla corte di Federico II i suoi pareri avevano il carattere di rigorosa inappellabilità. E ai banchetti da lui preparati, secondo la fama corrente, si potevano gustare cibi preparati dagli spiriti. Poi Guido Bonatti, astrologo affermato alla corte a noi vicina di Ezzelino III da Romano, poi in auge anche presso Guido da Montefeltro: si diceva che avesse letto nelle stelle e apertamente annunciato la vittoria ghibellina a Montaperti.
La tradizione ci tramanda che egli, prima di ogni spedizione militare del suo signore, saliva sul campanile di San Mercuriale a spiare il cielo, e dava lui stesso, dall’alto, il segnale di partenza all’esercito. Il suo signore dunque, accettava, un ordine che gli veniva dalla cieca e assoluta fede che il suo astrologo stesse cogliendo il momento astrale più favorevole alla partenza e soprattutto parlasse in assoluta e totale buonafede. Un peccato nefando, agli occhi di Dante che pure credeva all’astrologia come tale, perché è chiaro che un astrologo senza scrupoli avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avendo in mano tanto potere.
A questo punto sono debitore di una piccola spiegazione. Come e in che misura Dante dava una valutazione positiva dell’astrologia? Diciamo che era sostanzialmente sulle posizioni di Alberto Magno, secondo il quale, Dio, motore e causa prima, si serve delle intelligenze motrici e dei cieli come suoi strumenti nella determinazione degli eventi naturali.[17]
Dopo Guido, ecco Asdente, soprannome di maestro Benvenuto, calzolaio di Parma cui Dante rimprovera di aver lasciato cuoio e spago, la materia prima del suo mestiere e che nonostante tale drastico giudizio era il consulente astrologico del vescovo della sua città.
Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.[18]
Segue la processione delle fattucchiere, colpevoli di aver tramato con erbe e con imago, cioè esercitando i loro sortilegi agendo su statuette in cera che raffiguravano il destinatario del malocchio, testimonianza non da poco, perché veniamo a sapere così che ai tempi di Dante era già molto praticato il voodoo. Ma se gli uomini che pescavano nel magico erano quotati e apprezzati, queste miserabili manovali della magia finivano molto spesso sul rogo.
E tuttavia bisogna dire che, anche in virtù di questa potente immagine conclusiva della bolgia infernale, Dante ha costruito un canto di straordinaria efficacia. Ripensiamolo: il poeta poteva percorrere la strada dei facili effetti, presentare una lunga teoria di imbroglioni, di preparatori di filtri e intrugli, di truffatori senza scrupoli. E invece no, li isola e conferisce loro in certo qual modo dignità: furono apprezzati e ascoltati, da loro dipesero decisioni di enorme portata storica, comunque li si giudichi sono stati protagonisti. Li rivediamo, isolati e solitari, portatori di una dignità: l’indovino che vaga tra le balze scoscese della Lunigiana e le immense cave di marmo di Carrara; l’altro che si imbatte nella magia unica di due serpenti aggrovigliati nell’atto sessuale; l’altro ancora che domina funereo e tragico su una Grecia vuota di uomini e pronta ad una guerra che tanti lutti arrecherà. Su tutti Manto, immaginata nelle solitudini alpine e poi nelle solitudini della pianura padana. La forza evocativa è immensa, la suggestione che ne deriva è soggiogante e maliarda. L’indovino vive in orizzonti dilatati, solo sotto la volta del cielo.
Ma Dante, con felicissimo movimento poetico, fa di questa solitudine l’emblema della loro arroganza, l’immagine stessa dell’isolamento cui si vota chi pretende di stravolgere il correre degli eventi. Hanno voluto per così dire intromettersi nell’armonia dell’universo rovinandola e ora ne recano traccia perfino nella orribile condizione del loro corpo.
E se ci mettiamo a guardare con gli occhi dei dannati, quel loro stare soli sotto la volta del firmamento acuisce la sensazione di angustia che deriva ora dal piccolo, limitato panorama cui sono costretti. Praticamente vedono solo l’anima/corpo che li precede. Stravolta a loro stessa immagine e somiglianza. Con Manto poi il tema della solitudine si arricchisce di un ulteriore significato.
Dante riflette, grazie alla vicenda della figlia di Tiresia, sul cammino che porta la belva umana ad uscire dallo stadio di ferinità per entrare nella fase di civiltà alta che si concreta, in maniera visibile, nella edificazione della città. Pensiamo un attimo a quel verso che abbiamo appena letto: ristette con suoi servi a far sue arti. Quando non ci sono più servi, ma uomini, ecco formarsi il consorzio civile, gli uomini uniti dal legame di società in opposizione alle disgreganti forze diaboliche. In Manto si incarna il significato più alto e profondo del canto: nella città della nascente borghesia italiana, positiva, intelligente, pragmatica, aperta al nuovo, l’armonia dell’universo si materializza nell’armonia sociale. Indovini e auguri sono peccatori senza possibilità di redenzione.
Però è già tempo di andare oltre perché la luna tiene il confine dei due emisferi e sta avviandosi al tramonto sotto Siviglia. Tradotto significa che sono appena passate le sei. E già ieri notte la luna piena ha marcato l’equinozio primaverile. “Ricordatene bene, dice Virgilio a Dante, perché essa ti è già stata utile quando eri nella selva”. La luna qui è indicato con la figura di un grande peccatore, Caino, che trascina un fascio di spine, causa, per l’uomo del Medioevo, delle macchie lunari.
Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sibilia Caino con le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.[19]
Però a noi resta da annotare che di quell’aiuto della luna, nel primo canto non è proprio cenno. Dante chiude così un canto di notevole bellezza in cui però si è concesso qualche distrazione di troppo. Deve essere preoccupato e nervoso perché nella bolgia che segue lo aspettano i barattieri, coloro che hanno commesso la colpa per cui lui è stato mandato in esilio. È coinvolto, come forse in nessun altro canto. Sta per parlare di se stesso.
[1] If XX 1-3
[2] If XX 4-9
[3] If XX 10-18
[4] If XX 22-30
[5] Convivio II, X, 6
[6] If XX 33- 45
[7] If XX 46-57
[8] Pg XXII, 113
[9] If XX 58-93
[10] If XX 102
[11] If XX 106-114
[12] Virgilio, Eneide II, 114 e seguenti
[13] Cesare Vasoli, Scienza e tecnica nell’Occidente cristiano, in Nuove questioni di storia medievale, Marzorati, 1964
[14] Ugo di San Vittore, Didascalicon P.L. 176, 756
[15] Domenico Gundisalvi, De divisione philosophiae, de astrologia, ed. L. Baur 115, 118
[16] Enciclopedia Dantesca, voce Astrologia
[17] Alberto Magno, De Meteoris XI II 12 e De natura et origine animae I 5
[18] If XX 115-120
[19] If XX 124-130