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Purgatorio Canto XXXIII

Canto XXXIII

PURGATORIO

CANTO XXXIII

(Treviso, Casa dei Carraresi

19 gennaio 2000)

 

 

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce;

fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

 

Vedi lo sole che ‘n fronte ti riluce;[1]

 

Per comprendere e riuscire ad offrire una lettura abbastanza trasparente di questo canto XXXIII, così irto di immagini, simboli e allegorie e dunque così denso di significati ulteriori, occorre mettersi su un cammino a ritroso che ci riporti al momento in cui Virgilio si rivolge per l’ultima volta a Dante e questi si accinge a compiere l’ultimo passo che lo separa dal paradiso terrestre.

Le parole che abbiamo appena sentite escono dalla bocca di Virgilio proprio in chiusura del canto XXVII e rilanciano la cantica verso il suo momento altissimo e conclusivo: una esalogia di canti  (dal XXVIII al XXXIII) che abiliteranno definitivamente Dante a spiccare il volo verso il suo fine ultimo.

Questi sei canti formano, anzi, con tutta probabilità il nucleo narrativo e concettuale più compatto ed esteso di tutto il poema. Lo schema è, tra l’altro, facilmente identificabile,  in quello del dramma sacro, scandito in un prologo, tre atti e un epilogo: l’apparizione di Matelda e la definizione del luogo in cui ci si trova; la processione alla fine della quale appare Beatrice; i rimproveri di Beatrice, Dante che si confessa e affronta il rito lustrale. Poi: le traversie della Chiesa visibili nel carro e nelle sue trasformazioni. E infine l’epilogo con la profezia di un sicuro intervento divino cui si connette l’investitura poetico-profetica  di Dante stesso. Lo sviluppo è proprio quello del dramma sacro: l’idillio iniziale, la tragedia dell’uomo colto nel momento del peccato, il trionfo liturgico che narra il cammino provvidenziale della Chiesa e che si conclude con l’immancabile affermazione della redenzione di tutta l’umanità.

Serve aggiungere, a sottolineare l’unità profonda dell’esalogia e la sua valenza anche morale, che proprio in questi sei canti Dante ci offre, in chiave allegorica, il compendio di tutta la sua avventura esistenziale: dal traviamento del peccato alla redenzione, dalle esperienze stilnoviste al loro superamento. E alla fine Dante, recuperata la pienezza e la perfezione umana che fu del primo uomo e della prima donna, si sente in grado di spiccare l’ultimo balzo, investito anche dalla sicura profezia di una redenzione perché, come ben sappiamo, peccato e traviamento del singolo sono profondamente connessi e innervati nel peccato e nel traviamento dell’intera umanità.

Ma andiamo con ordine e torniamo alle parole di Virgilio. Il sole cui allude Virgilio è chiaro simbolo della Grazia. La ragione, che proprio in Virgilio si incarna, ha esaurito il suo compito e sta per subentrare Beatrice che è appunto la Grazia, la verità del tutto svelata e rivelata. Quello che noi lettori dobbiamo capire è che Dante è profondamente mutato. Non è più lo stesso pellegrino che ha faticosamente, perigliosamente, con tanto sacrificio percorso Inferno e la parte bassa del Purgatorio. Prosegue Virgilio:

 

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno;

 

per ch’io sovra te corono e mitrio.[2]

 

Cioè: la tua volontà ormai non è più turbata dalle passioni e sarebbe peccaminoso non assecondarla e non seguirne le indicazioni. E dunque io ti proclamo signore e guida di te stesso. Ecco la novità di Dante, il quale non dimentichiamolo, ha appena attraversato il muro del fuoco, un passaggio in cui sarà da leggere non solo un rituale purificatorio ma anche il segno di una rottura -traumatica quanto si vuole- col passato: finalmente libero da tutte le passioni devianti, finalmente libero dalla zavorra e soprattutto dalle scorie terrene. Appunto: come l’oro che ha conosciuto il fuoco nel crogiolo, si è affinato, ha acquisito di pregio, si presenta pronto all’ultima lavorazione.

E a questo punto superiamo assieme a Dante, uomo finalmente libero e autenticamente padrone di sé, l’ultimo gradino che separa il suo viaggio dal paradiso terrestre. E comprendiamo che siamo ad un punto nodale del viaggio, ad una conclusione e ad una nuova apertura.

Il poeta si trova infatti immerso in una foresta in realtà molto simile ad un giardino che subito ci richiama la selva iniziale, quella dello smarrimento e del pericolo. Questa foresta ci appare palpitante, viva, popolata di uccelli, ricca di alberi, anche di specie sconosciuta. È il luogo fisico in cui si comprende la condizione morale di Dante: non più il disperato e incerto peccatore degli inizi, ma un uomo in stato di grazia, consapevole della giustezza e del valore del suo viaggio.

Il suggerimento al lettore è immediato: stiamo celebrando un ritorno al paradiso terrestre, dopo l’esilio del peccato. Stiamo assistendo alla straordinaria ed esaltante avventura di un uomo che, unico tra i mortali, ha recuperato la condizione di primigenia armonia, di pace, di concordia con Dio. Quella condizione che i due primi abitatori del luogo avevano ripudiato col peccato.

Sulle rive di uno dei due fiumicelli che attraversano la foresta, Dante scorge una giovane donna che canta e coglie fiori. È Matelda (ma ne sapremo il nome solo nell’ultimo canto, a dimostrazione che questa tappa del pellegrinaggio è tutta tesa ad una culminazione suprema) in cui qualcuno ha visto il simbolo della vita contemplativa e qualcun altro il simbolo della giustizia. Noi, che siamo tutti presi dal ritmo narrativo e, se si può dire, concettuale della cantica che va ora via via facendosi sempre più serrato, cogliamo in lei soprattutto la letizia calma e serena, l’armonia, la felicità di cui, agli albori dell’umanità, per poche ore hanno goduto Adamo ed Eva. E del suo lieve rispondere a Dante ci resta la descrizione dei due fiumi che non rampollano da una sorgente governata dalle leggi fisiche del mondo. Queste acque hanno una origine provvidenziale: la prima si chiama Letè e chi la beve elimina in sé il ricordo del peccato.

La seconda è l’Eunoè e il suo potere consiste nel restituire il ricordo di ogni bene compiuto, di fare anzi di questo bene la potenza egemone dell’anima. Il canto si chiude sul sorriso di Stazio e Virgilio, che rimangono compiaciuti dalle parole di Matelda la  quale suggerisce che, forse, i poeti antichi che hanno favoleggiato sulla mitica età dell’oro, hanno visto in sogno proprio il luogo in cui si trovano.

Il canto XXIX è occupato, per la sua maggior parte, dalla processione nel rievocare la quale, Dante sente tutta la inadeguatezza della sua parola e, più in generale, degli strumenti espressivi umani. La sua accorata invocazione alle Muse rappresenta di fatto l’inaugurazione di quella poetica dell’ineffabilità, dell’indicibilità, dell’irripetibilità che gli servirà a creare quel clima di tensione emotiva ed espressiva che tanto caratterizzerà il Paradiso.

In realtà Dante riversa nella rappresentazione una pluralità di elementi che inducono il lettore, anche ad un superficiale esame,  a scorgere nella processione e in particolare nel Grifone che è immagine del Cristo e nel carro che è immagine della Chiesa, una sintesi dell’intera storia dell’umanità letta nella chiave della filosofia patristica: tutta la storia culmina nel suo punto centrale che è la Rivelazione. Essa è preparata e profetizzata nel Vecchio Testamento, storicizzata nell’Incarnazione, propagata fino alla consumazione dei secoli dalla predicazione degli apostoli e dei loro successori cui spetta anche l’interpretazione della dottrina e un oculato impiego dei doni della Grazia.

Nella processione troviamo gli affreschi del duomo di Anagni, i mosaici di sant’Apollinare in Classe, le miniature dei codici francescani e gioachimiti. Troviamo la memoria dei trionfi romani e soprattutto le sacre rappresentazioni e le processioni tanto in auge nelle Firenze contemporanea a Dante: proprio questi momenti della vita comunitaria fiorentina rendevano facilmente comprensibili ai lettori della Commedia le simbologie figurali, i colori, la posizione dei personaggi nel corteo, il significato complessivo del corteo stesso.

E allora seguiamola questa processione cercando di decodificarne, per quanto velocemente, i simboli. La prima annotazione visiva di Dante che ha appena finito di invocare le Muse riguarda sette candelabri che, all’occhio che non può ancora discernere, sembrano alberi. Essi rappresentano il settemplice spirito di Dio che si manifesta nei sette doni dello Spirito Santo. I candelabri sono schierati su un fronte di dieci passi che richiamano i dieci comandamenti. Le strisce che essi si lasciano dietro e che sono infinite (perché inesauribile è l’azione dello Spirito Santo) potrebbero essere, appunto, i doni dello Spirito o anche i sette sacramenti. Ecco poi (sullo slancio di una suggestione che veniva a Dante da san Girolamo) ventiquattro vecchi vestiti di bianco cioè del colore della fede: sono simbolo dei libri dell’Antico Testamento. E subito dopo di loro, ecco il carro della Chiesa. Con un uso degli spazi tanto sapiente da richiamare il disegno delle città murate e turrite, Dante ci dice che ai quattro angoli del carro ci sono i quattro animali che tradizionalmente rappresentano gli evangelisti, mentre procedono ai due fianchi del carro sette donne in gruppi di tre e quattro, vale a dire le virtù cardinali e quelle teologali.

A trascinare il carro (e a questo strettamente avvinto) è un Grifone, animale dalla duplice natura, come è duplice la natura del Cristo. Leggiamo infatti in Isidoro di Siviglia: Cristo è leone per la sua forza, aquila perché è salito alle stelle dopo la morte.

Dietro alla coppia Grifone-carro seguono due vecchi caratterizzati dal colore rosso perché questo è il colore della carità: il primo (lo si capisce da come è vestito) è un medico, il secondo è un guerriero. Sono (o meglio, rappresentano) san Luca (cui tradizionalmente viene attribuita la redazione degli Atti degli Apostoli e che dunque è presente una seconda volta) e san Paolo.

 

Poi vidi quattro in umile paruta

e di retro da tutti un vecchio solo

venir, dormendo, con la faccia arguta.[3]

 

I quattro personaggi dimessi rappresentano le cosiddette Epistole cattoliche di Giacomo, Giovanni, Pietro e Giuda. E il vecchio solo è san Giovanni, colto con gli occhi chiusi perché l’autore dell’Apocalisse viene rappresentato nel rapimento mistico che consente la profezia: dunque è anche arguto perché sa penetrare al di là dell’apparenza sensibile e fisica.

Finalmente ecco apparire Beatrice. Il tono, se possibile, si fa ancora più alto. Profetico, talora perfino apocalittico. Beatrice compendia in sé tutto quello che essa ha rappresentato nella vita di Dante, mantiene il suo tratto di persona reale, storicamente esistita e dato fondamentale della biografia del poeta.  E tuttavia essa è qualcosa di diverso e molto di più.

Dante ce lo dice in molti modi, a cominciare dal linguaggio criptico dei numeri, come bene ha messo in rilievo un critico attento come il Chiarini. Del suo lungo esame varrà la pena di ricordare che, se nella Vita Nuova Beatrice era descritta dal ricorrere e dal sovrapporsi alla vicenda del perfettissimo numero 9, qui, nella Commedia, Beatrice è descritta dal numero 10, secondo diverse occorrenze. Una per tutte, forse la più curiosa: Beatrice dice il proprio nome al verso 73 di un canto che consta di 145 versi: sia 7 più 3 che 1 più 4 più 5 danno 10. Inoltre, sempre per quanto può valere una curiosità del genere, il nome di Beatrice appare qui per la decima volta, dopo le cinque volte in cui appare nell’Inferno e le quattro del Purgatorio. 10, lo ricordiamo, è la forma perfectior  del 9 in quanto unisce la ternarietà all’unità.

Beatrice è scienza teologica, è sapienzialità, è verità rivelata. Se nella Vita Nuova essa era stata un miracolo, qui mantiene la sua dimensione miracolosa ma diventa anche, come osserva Vossler, un’idea ecclesiastica: dei peccati di Dante essa, tra qualche istante, sarà inquisitore e giudice.

Di Dante liberato dal fardello del peccato sarà inoltre guida nei cieli. E dunque ecco il significato sommo della figura di Beatrice: essa è il Cristo. Non il Cristo incarnato che abbiamo già intuito nella doppia natura del Grifone aggiogato al carro, ma il Cristo della parusia, il Cristo il cui ritorno è atteso e che apparirà  il giorno del giudizio. Un tema, quello del ritorno del Cristo, su cui tanto avevano scritto Bernardo e Tommaso e ancora ben vivo ai tempi di Dante. E anche nei versi che seguiranno, come vedremo, se ne sentirà l’eco.

L’apparire di Beatrice coincide con l’eclisse di Virgilio ed è un scivolar via di grande malinconia, perché la scienza pagana è arrivata giusto alle soglie della verità rivelata, ma non è riuscita ad entrarvi. Si è dimostrata insufficiente.

Soprattutto Beatrice inquisisce e giudica. È lei ad esporre agli angeli la situazione peccaminosa di Dante.

 

Alcun tempo il sostenni col mio volto:

mostrando gli occhi giovanetti a lui[4]

 

Tuttavia quando Beatrice passa dalla vita terrena a quella eterna, Dante deviò.

 

questi  si tolse a me e diessi altrui.[5]

 

E incalza

 

fu’io  a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,

imagini di ben seguendo false[6]

 

È fondamentale, vorrei dire per la lettura dell’intero poema, comprendere quale sia la natura del peccato dantesco. Escludiamo che si tratti di qualche peccato in particolare, visto che di ogni possibile deviazione si è confessato salendo le cornici purgatoriali ed escludiamo anche che si tratti di un tradimento carnale della memoria di Beatrice come qualcuno ha pensato sulla scorta di un sonetto di Cavalcanti  e soprattutto della tenzone con Forese Donati.

Pare invece molto più plausibile che qui Dante voglia riassumere tutta la sua complessa vicenda morale con l’offuscarsi della coscienza religiosa soprattutto sulla spinta di suggestioni averroistiche e con l’affiorare di una superbia intellettuale che lo avrebbe portato a privilegiare la filosofia e la speculazione umane a scapito della teologia e della verità rivelata. Vista in quest’ottica la dialettica Virgilio\Beatrice si arricchisce di ulteriori motivi.

Dunque siamo all’autoanalisi e alla  revisione del complesso travaglio ideologico che ha condotto dalla Vita Nuova alla Commedia transitando per il Convivio e il Monarchia. E, in termini generali, la colpa di Dante sarà da riassumere nel cedimento davanti ai beni del mondo, propiziato anche dalla sparizione di Beatrice che gli era guida e punto di riferimento. Incalzato da Beatrice, Dante deve ammettere.

 

Piangendo dissi: « Le presenti cose

col falso loro piacer volsero i miei passi,

tosto che il vostro viso si nascose».[7]

 

Beatrice è implacabile. Di quegli errori deve far tesoro per la sua vita futura: Dante abbassa gli occhi e, quando li rialza, vede Beatrice ancora più bella tesa, com’è nella contemplazione del Grifone. Proprio tale straordinario spettacolo fa comprendere a Dante quanto colpevole sia stato il suo atteggiamento nel momento in cui ha preso a trascurare la sua donna. L’emozione, il dolore, la tensione del pellegrino sono così forti che egli perde i sensi. Quando si risveglia, è immerso nel Letè e a sorreggerlo è Matelda.

Il canto XXXII  si apre ancora sul movimento del carro, ma questa volta con una novità: a far parte del corteo c’è, oltre a Matelda e a Stazio, lo stesso Dante. È un evento che ci interessa e ci coinvolge in modo particolare: se, in qualche modo, la processione simboleggia l’avanzare della storia in cui si legge il disegno della provvidenzialità, è chiaro che Dante, ritrovata la giusta strada,  vi si è riimmesso a buon diritto.

Ma è chiaro anche che Dante ha proposto il suo traviamento come paradigma della corruzione dell’intera società e dunque dovremo d’ora in poi leggere in questa chiave. Il corteo muove verso un albero altissimo. È l’albero del bene e del male ed è privo di foglie e fiori, simbolo dell’offesa recata alla divina giustizia, offesa che ha privato la storia umana della guida di Cristo. Infatti tutti, nell’atto di circondarlo, mormorano con dolore il nome del primo offensore, Adamo. Poi si alza un grido di lode al Grifone che ripara al danno legando il carro all’albero. Per il timone, naturalmente, che diventa immagine fisica della croce. E subito la linfa vitale riprende a scorrere nelle fibre dell’albero che si ricopre di fiori rossi, ovviamente come il sangue redentore. Le vicende del carro sono dunque centrali e Beatrice rivolge un perentorio invito a Dante.

 

Però, in pro del mondo che mal vive,

al carro tieni or li occhi, e quel  che vedi,

ritornato di là, fa che tu scrive».[8]

 

Un’aquila (trasparente simbolo dell’impero) si avventa sull’albero devastandolo e facendo oscillare paurosamente il carro, senza però riuscire a travolgerlo. È la rievocazione del primo nemico, delle prime persecuzioni inflitte ai cristiani. Poi ecco un altro nemico che aggredisce il carro, l’eresia, che ha le fattezze di una volpe e questa volta è Beatrice, cioè la teologia, a respingere l’attacco. Poi ecco ancora un’aggressione dell’aquila\impero, meno violenta ma non meno devastante. Questa volta il rapace fa cadere alcune piume: stanno a simboleggiare la donazione di Costantino (cioè, di fatto, l’inizio degli interessi temporali della Chiesa) e infatti una voce dal cielo esprime il dolore per i danni che ne verranno.

Se la volpe\eresia è stata facilmente scacciata, discordie e scismi sono sempre in agguato: un serpente (chiara immagine del Maligno) esce da una fenditura del terreno e lacera il fondo del carro. Intanto, le penne che l’aquila ha abbandonato sul carro, proliferano come gramigna perniciosa a ricordare il moltiplicarsi dei beni temporali del clero. È un crescendo terribile e straordinariamente scenografico: il carro subisce una tremenda mutazione e si trasforma in un mostro sul quale appaiono una prostituta e un gigante. Le sette virtù diventano sette orribili teste, come sette sono i peccati capitali. Il gigante abbraccia e bacia la prostituta facendole capire di essere il suo padrone: è la corrotta curia romana di Bonifacio VIII e Clemente V che si prostituisce alla monarchia francese. Ma il meretricio non può portare a lunga concordia e soprattutto ad un rapporto corretto: ecco l’ultima fase della politica curiale romana, la cattività in Avignone e il rapporto altalenante di amicizia e inimicizia col re di Francia, Filippo IV il Bello. La prostituta volge i suoi occhi a Dante, cui ormai è chiaramente demandato il compito di correggere errori, storture, traviamenti e il gigante, geloso e rabbioso prende a frustarla. Poi slega il carro e lo porta nella foresta dove scompare assieme alla donnaccia. Perché questo è il panorama politico ai tempi di Dante: la Chiesa prostituita e padroneggiata dal re francese.

È un quadro drammatico che iscrive questa esalogia a pieno titolo al filone della letteratura apocalittica ben rappresentata anche fuori e lontano dalla tradizione giudaico-cristiana, a cominciare da testi sacri della cultura egiziana a datare dal duemila a. C.: la materia è fornita da rivelazioni che vengono direttamente da Dio o da altri esseri pretermondani, che sono fornite a pellegrini i quali compiono un viaggio o una trasformazione iniziatica e che devono essere riferite a tutti gli altri mortali, al loro ritorno, proprio da questi pellegrini. Tutti elementi presenti, come si vede, nel testo antesco.

Questo quadro chiude con accenti pessimistici il canto XXXII e lascia spazio all’ottimismo (da intendere nei termini  che si vedranno) dell’ultima sezione della cantica. La quale è certamente irta di difficoltà connesse soprattutto all’oscurità talora insoluta di molti luoghi, ma il cui significato complessivo è chiarissimo.

Dopo la dolorosa ferita apertasi nella storia dell’umanità (che coincide e di fatto è la storia delle due massime istituzioni universali, la Chiesa e l’Impero) con la donazione di Costantino che proprio delle due istituzioni ha causato il progressivo degrado, il tempo della cupidigia, dello stravolgimento di valori, della superbia e dell’invidia sta per concludersi. E sono maturi i tempi per la venuta di un grande riformatore la cui opera sarà coronata, non può esservi alcun dubbio, da successo.

Il canto XXXIII si apre con le parole del salmo LXXVIII, in cui il cantore biblico esprime tutto il suo dolore per la sconfitta e l’asservimento degli Ebrei da parte dei Babilonesi che hanno distrutto anche il centro stesso del popolo di Dio, il tempio di Gerusalemme.

 

‘Deus, venerunt gentes’, alternando

or tre or quattro dolce salmodia,

le donne incominciaro, e lacrimando;[9]

 

Le donne, distinte in un coro di tre e in uno di quattro, sono le virtù teologali e le virtù cardinali che sappiamo procedere accanto al carro. E il termine gentes, sta per gentili, pagani: nell’esilio di Israele, Dante riconosceva l’esilio morale della Chiesa, economicamente e politicamente soggetta al re di Francia. E nuovi pagani non saranno solo i Francesi, ma le stesse gerarchie ecclesiastiche che hanno trasformato la Chiesa in una cloaca, come dirà nel canto XXVII del Paradiso, san Pietro[10].

Beatrice impallidisce, così come doveva essere pallida Maria ai piedi della croce, con una similitudine che Dante trae da dall’iconografia gotica in auge tra Duecento e Trecento. Poi però diviene colore del fuoco, avvampa di sdegno e risponde, sempre in latino, con le parole con cui Cristo annuncia agli apostoli, durante l’ultima cena, la morte ormai vicina e la successiva resurrezione[11].

 

‘Modicum, et non videbitis me;

et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me’.[12]

 

Dunque, a breve, ci saranno una morte e una resurrezione, il circolo vizioso in cui è smarrita la Chiesa si spezzerà e ci sarà, dopo tante traversie, un riallineamento alle leggi divine. Ma il luogo è controverso, perché Dante non chiarisce se stia alludendo a fatti precisi. Nel 1309 la curia romana si era trasferita ad Avignone e certamente Dante non può nemmeno intuire la fine di quella che è passata alla storia come la cattività avignonese. Ma vale la pena di aggiungere che, contrariamente a quanto comunemente si crede, né il poeta fiorentino né tanti intellettuali a lui contemporanei avvertirono quell’evento come particolarmente doloroso e traumatico. Quella che preme è la necessità di una riforma non dottrinaria, ma morale e quindi l‘ubicazione delle sede papale è certamente secondaria rispetto ad una rifondazione etica.

Beatrice, autentica regina e sacerdotessa del luogo e della situazione, riordina la processione e le imprime nuovo slancio.

 

Così sen giva;  e non credo che fosse

lo decimo suo passo a terra posto,

quando con gli occhi suoi mi percosse.[13]

 

Per noi appena il tempo, alla luce di quanto dicevamo sui numeri un istante fa, di sottolineare questo ristare, da parte di Beatrice, proprio tra il nono e il decimo passo. Inizia tra Dante e la sua donna un dialogo serrato, in cui a condurre e a comandare è Beatrice, in questo canto descritta con straordinaria finezza psicologica in una vasta gamma sentimentale: dal dolore allo sdegno, dalla gioia serena e rasserenante al fascino donnescamente invitante. Sempre, peraltro, in un ruolo e in una posizione marcatamente differenziati rispetto a quelli di Dante come si intuisce anche dai minimi indizi, come l’uso dei pronomi. Dante da sempre del ‘voi’ a Beatrice la quale risponde col ‘tu’, anche se occorre aggiungere che questo appartiene a tutta la tradizione della lirica cortese dalla scuola provenzale in poi.

Tuttavia ci accorgiamo che, pur nella insistita differenziazioni dei ruoli, la donna chiama ad un certo punto Dante ‘fratello’, sottolineando il procedere del poeta accanto a lei e invitandolo a porle delle domande.

 

«Frate, perché non t’attenti

a domandarmi omai venendo meco?»[14]

 

Dante avverte di aver compiuto un salto di qualità, di essere salito allo stesso livello di Beatrice. E quando tornerà tra la gente del mondo potrà farlo con un’autorevolezza diversa, potrà sentirsi forte della stessa dignità morale e religiosa di Beatrice, che è, ricordiamolo ancora, teologia e verità rivelata. Il dialogo è serrato, come raramente accade: cinque (ma la prima è spezzata in due) battute Beatrice e quattro battute Dante: ancora un ritorno numerale che oscilla tra 9 e 10.

Il senso del dire è chiarito in modo perentorio dalla donna.

 

Ed ella a me: «Da tema e da vergogna  

voglio che ormai ti disviluppe

sì che non parli più  com’om che sogna.[15]

 

Dante, dunque, è ormai potenzialmente in grado di disvilupparsi, di sciogliersi dal groviglio dell’errore, di uscire dall’atteggiamento di un uomo sognante o, se si preferisce, tramortito e farneticante. E Beatrice, che lo coglie in questo stato di grazia acquisita, gli diventa sacerdotessa, oracolo, profetessa. Gli preannuncia un radicale cambio di direzione nella storia, vicino, imminente anzi. Leggo alcune terzine e poi parafraso.

 

Sappi che il vaso che il serpente ruppe,

fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda

che vendetta di Dio non teme suppe.

 

Non sarà tutto tempo senza reda

l’aguglia che lasciò le penne al carro

per che divenne mostro e poscia preda;

 

ch’io veggio certamente, e però il narro,

a darne tempo già stelle propinque,

secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,

 

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque.[16]

 

Facendo sue le parole dell’Apocalisse[17], Beatrice dice a Dante che il fondo del carro (cioè la Chiesa) una volta era fedele ai principi cristiani e ora non lo è più, ma i colpevoli devono star ben certi che il castigo di Dio non teme prescrizioni. Se il senso generale è chiaro, crea problemi quel suppe, da collegare probabilmente alla superstizione fiorentina, ricordata dai commentatori antichi, secondo la quale se un assassino riusciva a mangiare per nove giorni consecutivi la zuppa sulla tomba della sua vittima, si metteva al riparo dalla vendetta dei parenti del morto.

Prosegue Beatrice: l’aquila che ha lasciato sul carro le sue penne, a causa delle quali esso è diventato mostro e poi preda, non rimarrà senza eredi. Con la certezza che mi deriva dal vedere il futuro in Dio, io ti rivelo che sono vicine le congiunzioni astrali che, finalmente libere da intoppi e impedimenti, recheranno il tempo in cui un inviato da Dio ucciderà la prostituta (propriamente fuia vuol dire ladra) e quel gigante che commette ingiustizia assieme a lei. Il nome di questo messo divino risulta da un cinquecento, da un dieci e da un cinque

Come è noto, siamo ad uno dei luoghi più tormentati ed indagati del poema, un luogo che si pone proprio negli ultimi istanti che separano Dante dal suo volo verso Dio e che dunque si carica, nella sua enigmaticità, di un pathos particolarissimo. Non creano problemi i numeri in sé: 500, 10 e 5: trascritti in cifre romane e opportunamente anagrammati danno DUX cioè guida, condottiero. Già, ma chi è questo dux? E in che rapporti si pone col veltro del primo canto? È la stessa entità o questo messo dovrà precorrere il veltro?  O è il contrario?

Ciò che sappiamo con certezza è molto poco: che non si tratta di un ecclesiastico perché dux non può alludervi e che Dante considera vacante il soglio imperiale dal 1250, anno in cui è morto, senza eredi legittimi, Federico II. Niente altro.

Ecco allora la ridda delle ipotesi. Un buon candidato potrebbe essere Arrigo VI, sceso in Italia proprio per farsi incoronare. Ma Arrigo entra in Roma nel 1312 e muore  pochi mesi dopo, nel 1313, vale a dire prima del periodo in cui si pensano stesi questi canti e, naturalmente, tutto il resto del poema. Come dire che Dante scrive questi versi quando il fallimento del tentativo di Arrigo è, con tutta evidenza, irreversibile. C’è chi ha proposto Cangrande della Scala, chi ha proposto una soluzione, per così dire, intermedia tra area religiosa e area laica nella figura, dell’arcangelo Michele,  e chi, come Giorgio Barberi Squarotti, ha ipotizzato la figura del Cristo. Di tanto in tanto questa soluzione squisitamente teologica ritrova credito e assertori ed evidentemente costringe a riesaminare in luce nuova la simbologia cristologica (cioè il Grifone e la stessa Beatrice) dei versi precedenti. Infine bisogna dire che c’è anche chi legge in modo diverso le lettere D, X e V.

Tuttavia credo si possa dire che l’abitudine a leggere Dante insegna che l’autore informa il suo lettore sempre nei limiti che egli ritiene più opportuni. Voglio dire che non gli suggerisce mai niente di più di quanto gli pare utile ai fini generali del poema: e qui non vi è dubbio che Dante vuole affermare l’immancabile castigo divino, e nello stesso tempo la fiducia assoluta che la stagione delle penne aquiline, cioè la lunga epoca di corruzione e di simonia, troverà la sua conclusione in modo chiaro e netto.

Dante, aggiunge Beatrice,  deve ricordare bene quanto gli è appena stato detto e riferire ai mortali, a coloro che partecipano della vita terrena che altro non è se non un correre verso la morte.

 

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a’ vivi

del vivere ch’è un correre a la morte.

 

E aggi a mente, quando tu le scrivi,

di non celar qual hai vista la pianta

ch’è or due volte dirubata quivi.[18]

 

La pianta, due volte dirubata, è ancora l’albero di Adamo, cioè l’albero del bene e del male, cui è stata fatta violenza due volte: la prima, quando cala su di lei con picchiata devastante l’aquila, la seconda quando il gigante scioglie il carro e lo nasconde nella selva.

Per aver morso il frutto di quella pianta, proprio il primo uomo, Adamo, ha dovuto attendere nel Limbo più di cinquemila anni, secondo una notizia che Dante desume dalla Cronaca di uno scrittore greco, Eusebio. L’opera gli è nota grazie alla traduzione latina di san Girolamo. Adamo ha vissuto, annota Dante, nella stessa condizione dei limbali, in pena e in disio[19], nel dolore e nell’assenza eterna di Dio. Beatrice, comunque, vede bene qual è il problema di Dante: la sua intelligenza dorme[20], non gli consente di comprendere il motivo per cui quella pianta è stata creata tanto alta e soprattutto sembra contraddire le regole vigenti sulla terra. La sua chioma infatti non si restringe con l’altezza, anzi si allarga sempre più.

Qui l’allegoria si fa densa e verrà da Dante risolta in un giro turbinoso di immagini e citazioni per dirci della centralità delle sue parole. Spieghiamo intanto che l’altezza dell’albero sta ad indicare l’infinitezza della giustizia divina e la sua strana chioma capovolta probabilmente allude alla sua irraggiungibile e incomprensibile lontananza. Per inciso: non deve stupire, qui come in moltissimi altri luoghi danteschi, la presenza di figurazioni strane e deformate. Esse rispondono invece, come bene annota Tommaso Di Salvo[21], al gusto tipicamente gotico in cui la voluta deformazione degli elementi o dati naturalistici obbedisce non solo ad una ricerca sperimentale di inediti e fantastici accostamenti ma anche alla mentalità mistica che induce a vedere in ogni cosa una sintesi di dati reali e di dati soprannaturali.

Beatrice esprime con fermezza la sua volontà, anzi la ribadisce. Quello che ha appreso, Dante dovrà proprio riferirlo, anche se a lei pare che abbia compreso poco.

 

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,

che ‘l te ne porti dentro a te per quello

che si reca il bordon di palma cinto».[22]

 

Dunque, come il pellegrino che reca la palma sul bastone per provare a tutti il suo viaggio in Terrasanta. E il messaggio, se non proprio scritto dovrà essere almeno dipinto, un po’ come succedeva a quei miniatori che trascrivevano lettere latine, magari capendo poco, ma copiando materialmente, pari pari, la forma stessa delle lettere. Tuttavia l’angoscia di Dante è evidente. Sente tutto il dislivello tra il finito e l’infinito, tra relativo ed assoluto, tra la scienza che tutto abbraccia e la miseria degli strumenti umani. In pratica come può Dante, tanto per usare una immagine a lui cara e spesso ripresa, fidarsi della navicella su cui è imbarcato, con quali remi e con quale vela la farà avanzare?

Il canto si avvia alla conclusione che è anche la conclusione della cantica e affronta l’ultimo dei suoi punti nodali. Ma perché questo avviene? Ha Beatrice una risposta in grado, se non proprio di tranquillizzare Dante, almeno di rincuorarlo in previsione della parte più ardua del viaggio che è ancora tutta da affrontare?

È questo uno dei temi fondamentali della cantica ventura, il Paradiso, che proprio in quest’ottica di ansiosa ed epica acquisizione di conoscenza, appare ai lettori moderni come la cantica più alta dell’intero poema, dopo le esegesi condotte da lettori (da Auerbach a Getto che enucleerà la tematica dell’epos della Grazia) intelligenti e sgombri di pregiudizi.

Beatrice risponde, anche se le sue parole suonano drammatiche, una vera e propria frustrazione per le aspirazioni del poeta.

 

e vegghi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina».[23]

 

Dunque la via degli uomini è distante da quella divina quanto la terra dal cielo che compie più velocemente il suo giro, cioè il Primo Mobile, il cielo più lontano. La distanza è incommensurabile. Di più: è incolmabile. E come se non bastasse le parole di Beatrice contengono anche un oscuro e pesante rimprovero a Dante, che riporta ai termini del suo traviamento. Dalla durezza delle parole di Beatrice qui si potrebbe arguire che davvero Dante è stato vicino a posizioni ereticali, con atteggiamenti razionalistici esplicitamente fuori dal sistema filosofico e teologico della Chiesa.

Pentirsi sarebbe troppo poco. Con grande intuizione umana e poetica Dante preferisce insistere sul suo smarrimento, sulla sua angoscia, sulla sua fragilità davanti all’ortodossia trascurata e violata. È pronto a riconoscere che solo l’incontro con la teologia e la rivelazione nella figura prima storica e ora celeste di Beatrice, gli consente di stare dentro alla verità. Anche se la verità, come in questo caso, presenta lati oscuri. Il rimettersi in discussione di Dante, il suo revisionare atteggiamenti trascorsi hanno qui una tensione culturale e morale altissima.

Ancora una scelta poeticamente vincente. Dante obietta di non aver memoria di un suo essere stato lontano, di un suo essere stato fuori. E Beatrice sorride.

 

«E se tu ricordar non te ne puoi»,

sorridendo rispuose, « or ti rammenta

come bevesti di Letè ancoi;[24]

 

Per forza Dante non può ricordare. Ha appena bevuto le acque del Letè. Il dramma del mistero, dell’uomo al di qua della conoscenza, vanamente proteso a superare i limiti oggettivi della sua stessa umanità si stemperano nel sorriso e nell’affetto.

Questo è pur sempre l’incontro tra due che si sono già conosciuti in un altro dove e in altro tempo. Che hanno significato molto l’uno per l’altro. Si ritrovano dopo tanto tempo con uno scopo in fondo comune, e dopo aver compiuto esperienze tanto diverse. Diviene conciliante Beatrice.

 

Veramente oramai saranno nude

le mie parole, quanto converrassi

quelle a scovrire a la tua vista rude».[25]

 

Beatrice parlerà meno astruso, tanto da essere comprensibile all’intelligenza rude, cioè rozza di Dante. Qui bisognerebbe mettere in evidenza un dato che di solito si trascura. Non sarà, in verità, Beatrice a parlare più semplicemente, ma le facoltà percettive ed intellettuali di Dante a crescere come insegnerà il Paradiso.

La cantica è alla fine. Dante ora si immerge anche nell’Eunoè, bevendo dalle sue acque. Nella memoria biblica, Letè ed Eunoè, stessa sorgente e corsi divergenti, gli ricordano il Tigri e l’Eufrate. Torna ad essere primaria e dominante, nell’anima di Dante, la memoria del bene compiuto. E Beatrice prende per mano Dante e si mette di nuovo in movimento facendo cenno a lui e Stazio di fare altrettanto. Lo fa, come dice Dante, donnescamente, che sarà da intendere, con grande femminilità, ma anche da donna, cioè da domina, da padrona.

 

così , poi che da essa preso fui,

la bella donna mossesi , e a Stazio

donnescamente disse: «Vien con lui».[26]

 

Dante vorrebbe dire molto di più, ma lo fren de l’arte[27] (che nei termini della retorica medievale intenderemo come rispetto delle norme, delle simmetrie e delle proporzioni) glielo impedisce.

 

Se io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i’ pur canter’ in parte

lo dolce ber che mai non m’avria sazio;[28]

 

Ora Dante, si rivolge al suo lettore sia per comunicargli la gioia sconvolgente della riscoperta del bene (non staremo certo qui a ricordare tutti i significati simbolici dell’acqua lustrale appena bevuta dall’Eunoè) sia per dirgli dei limiti che si è posto e che non può valicare.

Ma un’aggiunta le deve proprio fare, per dire di sé ormai pronto a spiccare il volo. Per dire la sua consapevolezza di aver recuperato la purezza originaria, la primavera aurorale del suo spirito, la tersa trasparenza del suo primo incontrare, ancora fanciullo, Beatrice e la tensione emotiva che da lei promanava.

La similitudine si genera spontanea da questa condizione di nuova primavera e ruota attorno a tre parole tutte collegate ad una stessa radice, tutte connesse all’idea di novità: novelle, rinovellata, novella. La novità è la condizione per sentirsi puro e disposto a salire alle stelle.

Come tutti sappiamo stelle è la parola che chiude ognuna delle tre cantiche. E naturalmente ciò ha il suo significato. Il destino degli umani è naturalmente teso all’alto. In alto, nei cieli si trovano il riferimento esistenziale e il punto d’arrivo.

 

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinovellate di novella fronda

puro e disposto a salire le stelle.[29]


 


 

[1] Pg XXVII 130-133

[2] Pg XXVII 139-142

[3] Pg XXVIII 142-144

[4] Pg XXX 121-122

[5] Pg XXX 126

[6] Pg XXX 129-131

[7] Pg XXXI 34-36

[8] Pg XXXII 103-105

[9] Pg XXXIII 1-3

[10] Pd XXVII 25

[11] Joan. XVI, 16

[12] Pg XXXIII 10-12

[13] Pg XXXIII 16-18

[14] Pg XXXIII 23-24

[15] Pg XXXIII 31-33

[16] Pg XXXIII 34-45

[17] Apoc. XVII, 8

[18] Pg XXXIII 52-57

[19] Pg XXXIII 61

[20] Pg XXXIII 64

[21] T. Di Salvo, La Divina Commedia, commento a, Bologna 1987, pag. 592

[22] Pg XXXIII 76-78

[23] Pg XXXIII 88-90

[24] Pg XXXIII 94-96

[25] Pg XXXIII 100-102

[26] Pg XXXIII 133-135

[27] Pg XXXIII 141

[28] Pg XXXIII 136-138

[29] Pg XXXIII 142-145

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