PARADISO
CANTO XVII
(Treviso, Casa dei Carraresi
8 febbraio 2001)
Qual venne a Climené per accertarsi
di ciò che avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi
tal era io, e tal era sentito[1]
Dante avverte che la sua condizione è simile a quella di Fetonte, il figlio che Apollo aveva avuto da Climene, il quale per mettere alla prova l’autenticità della sua paternità, chiede al dio di lasciargli guidare il carro del sole. Con gli esiti disastrosi che tutti sanno, per cui da allora in poi i genitori sono scarsi, cioè ci pensano due volte prima di fare concessioni particolari ai loro figli. È la condizione del dubbio propria di chi aspira ad una rivelazione piena della verità. Dante vuole, finalmente, una parola definitiva sul futuro che lo attende.
Con questo esordio di argomento mitologico, solenne e affettuoso insieme, Dante inaugura il canto XVII del Paradiso, terzo della trilogia del suo avo Cacciaguida e perno centrale rispetto ai trentatré canti della cantica.
Nel XV avevamo assistito alla grande coreografia paradisiaca della croce luminosa da cui si era staccato Cacciaguida il quale, dopo essersi presentato, aveva tracciato la genealogia degli Alighieri e, prendendo spunto da questa, aveva messo a confronto la Firenze antica –frugale, pacifica e quindi giusta- con la Firenze moderna dominata dalla gente nuova e dai capitalisti arricchitisi alla svelta e quindi intrinsecamente violenta.
Sì pïa l’ombra di Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.[2]
L’incontro con Cacciaguida è di straordinaria importanza tanto che Dante lo assimila a quello tra Enea e suo padre Anchise nei Campi Elisi. Di questo bisavolo (padre di suo nonno Alighiero I) sappiamo praticamente nulla, se si esclude un documento del 1189, che ne attesta la morte avvenuta alcuni anni prima. Per il resto soltanto le notizie che Dante stesso ci propone in questi tre canti: fiorentino, nato sul finire dell’XI secolo, sposa una donna della famiglia degli Aldichieri, forse ferrarese o padovana, partecipa alla seconda crociata al seguito di Corrado III di Hohenstaufen imperatore tra il 1138 e il 1152, muore presumibilmente attorno al 1148.
Questa assenza di notizie in qualche modo è fonte di poesia. Cacciaguida si accampa nel poema col fascino del mistero e con la forza di una autorevolezza che gli viene riconosciuta proprio dal nipote.
Il canto XVI ha il suo punto alto nella rievocazione delle nobili famiglie fiorentine. Molte di loro, in auge fino a poco tempo prima, ora sono quasi del tutto scomparse e questo, sottolinea Cacciaguida, dovrebbe far riflettere Dante su quanto poco valgano il potere e la gloria terrena. E poi con straordinario trapasso:
E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:[3]
È la Firenze dentro da la cerchia antica[4], che per il volgere degli eventi e del fato ora è lacerata dalle lotte politiche. Straziata, anzi. E davanti a Cacciaguida ecco, con la sua sofferenza, il documento vivo di questo strazio. Lo stesso Dante.
E dunque ecco anche la culminazione di questo canto XVII che attinge forza e vigore poetici dalla complessità del dramma di Dante. Dramma personale e pubblico, psicologico, sociale e politico, morale. Dramma che diventa paradigma della condizione di una intera generazione e perfino di un intero modo politico.
I temi, strettamente connessi l’uno all’altro, sono l’esilio per affrontare il quale Dante sta cercando forza morale e, diremmo noi, sostegno psicologico, e il significato stesso del viaggio oltremondano. Una sorta di riassunto di tutto quanto Dante ha appreso, nel suo procedere, fino a quel momento e soprattutto un rilancio verso il momento ultimo in cui la sua missione potrà dirsi compiuta.
Se ci volgiamo per un attimo indietro, ci rammentiamo che dell’esilio, con vario accento, hanno già parlato Farinata, Brunetto Latini, Vanni Fucci, Corrado Malaspina, Oderisi da Gubbio[5]. E non possiamo dimenticare gli accenni sparsi nell’opera dantesca, soprattutto quella toccante e dolorante testimonianza che ci è offerta dal Convivio: poi che fu piacere de li cittadini… di gittarmi fuori del suo dolce seno… Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco…[6]
Proprio una delle situazioni appena citate, l’incontro con Brunetto Latini, consente una valutazione complessiva del canto e dell’intero passaggio del poema. Consente, anche, in prosecuzione di quanto dicevamo ieri commentando il canto VIII, di cogliere appieno la specificità del Paradiso e la sua particolare, emozionante carica poetica. Brunetto aveva profetizzato, consigliato, confortato. Aveva alluso, con rudezza perfino, alle strumentalizzazioni di cui Dante sarebbe stato fatto oggetto:
La tua fortuna onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.[7]
È, per quanto affettuoso, il maestro che ammonisce tra i quattro muri di una scuola. La riflessione di Cacciaguida è una meditazione talora pacata talora vibrante: nella luce folgorante del Paradiso; nella tensione affettiva, fervida e dolce insieme, di un padre che parla al figlio; nel clima vibrante costruito attorno alle figure di guerrieri e di crociati, testimoni della fede e talora martiri di essa.
In questo incontro con Cacciaguida tutto diviene più teso e alto, più epico e grandioso: si respira il sentimento profondo che Dante ci vuole comunicare. Che è questo: stiamo sforzandoci di uscire dallo spazio limitato e limitante di una famiglia e di una città murata per entrare in quella città celeste, in quella società perfetta su cui tutte le aggregazioni umane dovrebbero modellarsi.
Il soffrire di Dante, l’angoscia dello sradicamento, l’umiliazione di dover chiedere per sopravvivere non saranno senza senso: questo è lì a testimoniare Cacciaguida.
Dante, terzo viaggiatore nell’oltremondo dopo Enea (fondatore dell’Impero) e dopo Paolo (fondatore della Chiesa), riceve dall’avo, cavaliere e crociato, l’investitura a farsi guerriero della fede e dunque promotore del rinnovamento morale della stessa Chiesa e dello stesso Impero. Questo canto XVII ci riporta nel clima intenso di quella poetica dell’addizione di cui si diceva ieri e ci fa toccare con mano la straordinaria capacità dantesca di risolvere poeticamente complessi nodi religiosi, morali, politici.
Dopo l’esordio di taglio mitologico, Dante precisa che non solo si sentiva pervaso dal desidero di sapere ma che anche gli altri, soprattutto Beatrice e Cacciaguida, avvertivano questa sua tensione.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo desio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».[8]
Dante deve, dunque, dire la sua sete. Ci accorgiamo che il desiderio è assimilato al fuoco che deve uscire in modo coerente e adeguato alla interna stampa, cioè evidenziando l’acutezza del desiderio stesso, recandone insomma il marchio. E proprio l’immagine del fuoco sottolinea, per contrasto, quella della sete. Qui non si tratta solo della consueta situazione in cui le anime dicono a Dante che deve chiedere anche se esse già conoscono, guardando in Dio, le domande che saranno poste dal viaggiatore. No, Dante deve abituarsi, a noi verrebbe da dire allenarsi, a chiedere. L’esilio gli metterà addosso soprattutto sete materiale, sete autentica e dovrà chiedere, non potrà pretendere che gli altri capiscano anticipatamente i suoi desideri.
Il nostro viaggiatore aggredisce qui, su questo versante, il tema dell’esilio: comprendiamo bene che il dolore di lasciare la sua città si combinerà con la mortificazione del dover esternare i propri bisogni, con la situazione di fragilità derivante dal non poter contare su nulla.
Questo è l’esilio di Dante, emblema di ogni altro possibile esilio: angoscia per la contemplazione di una società in sfacelo (quella che condanna all’esilio) e umiliazioni da mettere in preventivo per i luoghi in cui dovrà approdare, senza vela e senza governo, per citare ancora la frase del Convivio. E Dante si rivolge alla sua piota, cioè alla radice su cui è cresciuto l’albero della sua famiglia (il termine vale propriamente pianta del piede, ceppo e anche base). La piota si insusa (cioè si innalza, si sublima) a tali altezze che vede le cose contingenti con la stessa chiarezza con cui una mente umana capisce il teorema secondo il quale in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi.
«O cara piota mia che sì ti insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che le anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».[9]
Le cose contingenti, contrapposte al punto cui tutti li tempi son presenti, cioè a Dio stesso: il termine contingente indicava nel linguaggio filosofico medievale tutto ciò che non presenta carattere di necessità, che è subordinato ad altro. Gli eventi terreni insomma, transeunti, cangevoli, dominati dal caso. In questa dialettica tra le cose contingenti e quel punto è tutto il poema, tutto il senso del viaggiare del poeta.
Un viaggio che rende tetragoni, cioè (traducendo dal linguaggio della geometria solida e pensando a figure come il cubo) che mi fa poggiare su una mia faccia, mi conferisce stabilità. E poi quella freccia che fa meno male se la si vede arrivare: naturalmente è un dato psicologico, non fisico. Dante lo dice con il tono rapido della sapienzialità popolare, del proverbio. A noi viene in mente Petrarca col suo ma piaga antiveduta assai men duole.
Dante ha parlato a Cacciaguida, ha obbedito a Beatrice, ha esternato tutta la sua curiosità.
Si chiude qui la prima sequenza del canto, quella che mette l’accento sul fatto che il viaggio paradisiaco è soprattutto desiderio di conoscenza, bisogno di crescita interiore. Il dettato poetico ha, a questo punto, uno slargo improvviso, una salita di tono: in fondo sta per riprendere la parola Cacciaguida, fonte chiara di ogni notizia utile e di tutta la sapienza. Cacciaguida non parla per enigmi come parlavano gli oracoli antichi prima della compiuta rivelazione derivante dall’incarnazione del Cristo.
Dante trova comunque in qualche modo il sistema per suggerirci che Cacciaguida è una sorta di fonte oracolare. Ma, sia chiaro, illuminata dalla rivelazione.
Né per ambage in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:[10]
Cacciaguida parla latino, anzi preciso latino: difficile dire se si tratti propriamente di lingua latina o magari di volgare arcaico, ma il contesto non lascia dubbi. Qui Dante vuole affermare che il suo avo parla molto chiaro, in maniera diretta e comunque, a dominare, è l’immagine dell’amor paterno, sottolineata dall’ossimoro chiuso e parvente: Cacciaguida fasciato e nascosto dalla sua luce fiammeggiante e, allo stesso tempo, teso a rivelare la sua gioia proprio facendo aumentare l’intensità della propria luce. La risposta dell’ex crociato e guerriero è di largo respiro, di solido impianto e, occorre aggiungere, anche di grande tensione emotiva, di angoscia perfino.
Perché a questo punto non può non entrare in gioco il grande e irrisolto problema del libero arbitrio, quesito centrale della cultura medievale e del poema.
Va detto anzi che il Medioevo non è affatto riuscito a risolvere il nodo duro del dogma che vuole far coesistere la libertà dell’uomo col fatto che Dio conosce in anticipo ogni evento. La libertà vera, ultima, assoluta appartiene soltanto al Creatore mentre l’uomo, col peccato originale, ha rinunciato alla sua. Ciò che Dio decide per l’uomo in che misura è condizionante? E come è definibile la responsabilità dell’uomo? Ha senso per lui parlare di un premio autonomamente conseguito o di un castigo davvero meritato?
Dante, anche in questa occasione, deve cercare di rendere accettabile il dogma e di risolverlo in una immagine. Parlando della contingenza (cioè, come sappiamo, degli eventi umani) afferma che essa:
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.[11]
Lo sguardo che segue il corso di una nave sa bene in che direzione essa andrà, ma non può influire sulla rotta. Soluzione ingegnosa ma, a ben guardare, certamente non soddisfacente. L’uomo che guarda è simile al Dio onnisciente, ma non può certo competere con lui che è anche onnipotente e potrebbe intervenire a cambiare qualsiasi cosa.
Del resto non era riuscito a far di meglio nemmeno san Tommaso, da cui Dante sicuramente attinge l’idea: l’uomo che osserva la strada da un colle, osserva perciò stesso anche coloro che in quel momento transitano per quella strada[12].
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.[13]
Dalla mente divina Cacciaguida percepisce il futuro con la stessa limpidezza con cui l’orecchio umano sente l’armonia proveniente da un organo. Per capire serve ricordare che l’organo, già noto ai Greci e in auge presso i Bizantini, era, nella sua versione medievale, strumento molto più semplice dell’attuale e svolgeva il compito di accompagnare e, in qualche caso, di sostituire la voce umana. Per la cronaca proprio da Costantinopoli arrivò in Occidente il primo organo; era il 757 e si trattava di un dono al re francese Pipino.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca ,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.[14]
Ancora una similitudine tratta dalla mitologia greca: Cacciaguida accosta il dramma di Dante a quello di Ippolito, di cui si innamora la matrigna Fedra. Entrambi (Dante e Ippolito) innocenti: il primo delle accuse di baratteria, il secondo di aver tentato di tradire il padre Teseo seducendone la giovane moglie. Entrambi lasciano le loro città con un carico di infamia, frutto di una macchinazione tesa a ricoprirli di disonore.
Quella di cui è vittima Dante è stata progettata a Roma, dal papa che ha trasformato la Roma cristiana in un mercato: è il simoniaco Bonifacio VIII, della cui dannazione eterna già sappiamo dal canto XIX dell’Inferno. Più in generale, come ben sappiamo e come compiutamente ci riferisce Dino Compagni[15], Bonifacio è il responsabile della chiamata di Carlo di Valois, della cacciata dei Bianchi da Firenze, del sopravvento dei Neri e, nel giudizio di Dante, del sovvertimento di valori che è seguito.
Il quadro di riferimento generale è importante perché l’esilio di Dante non deriva da un atto di ingiustizia per quanto grande pur sempre commessa ai danni di un singolo. È piuttosto la sconfitta della parte buona della società fiorentina, dell’onestà, di tutti quei cittadini che operavano per il bene comune.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.[16]
Eh già, accade sempre così. Chi vince fa ricadere la colpa dei lutti e delle malversazioni sugli sconfitti. Ma Dante non ha, né potrebbe avere, dubbi: la vera giustizia, quella divina, distribuirà i castighi con ben diverso senso dell’equità.
Intanto però dovrà lasciare ogni cosa diletta più caramente[17]: questa è la prima conseguenza dell’esilio, il tragico riflesso a livello personale, la premessa ad una solitudine estrema, alla fragilità, alla provvisorietà. Ecco i versi famosi che condensano tutto l’amaro dell’esilio, con essenzialità assoluta e lontana da ogni possibile autocommiserazione, nella durezza del pane richiesto, nella difficoltà della strada da percorrere:
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle
lo scendere e’l salir per l’altrui scale.[18]
Dante non vuole essere duro con chi lo ospita. Il dramma è oggettivamente all’interno della sua condizione di esule; è intrinseco al non avere più una patria. Poi chi gli apre le porte di casa sua può essere ospite buono o meno buono.
Non possiamo tuttavia a questo punto non citare una curiosa (e famosa) sottolineatura che Dante ci propone nel Convivio, a proposito di certi signori: sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che senza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che ‘l servo si muova a fare quello ch’è mestiere, se nol comandano.[19]
A dire quanto l’esilio sia intrinsecamente duro Dante sottolinea la sua condizione: costretto a convivere con una compagnia che egli definisce con ben cinque aggettivi negativi: malvagia, scempia, ingrata, matta, empia. Questa compagnia gli graverà le spalle[20], gli diventerà nemica, finirà con l’averne rossa la tempia[21], cioè concluderà i suoi tentativi di rientro in un bagno di sangue.
È chiara la critica negativa che il poeta conduce sui fuoriusciti Bianchi che dovettero rivelarsi malvagi e interessati. È anche probabile che qui vi sia cenno ad un episodio preciso, vale a dire a quella battaglia della Lastra (dal nome di una località vicina a Firenze) che vide contrapporti Neri e Bianchi con un terribile scacco subito dai secondi. I Bianchi dovettero in quell’occasione rinunciare definitivamente ai loro progetti di rientro.
Tuttavia dobbiamo pensare soprattutto alla diversità di atteggiamento: i fuoriusciti compagni di Dante cercarono di scendere a patti, di trovare compromessi, di comperare (magari mascherando l’operazione con delle ammende pecuniarie) il loro rientro.
Ma non è una strada che porta lontano e Dante scoprirà il piacere (peraltro amarissimo) di essersi isolato da loro e dai loro squallidi tentativi.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì che a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.[22]
Chiude qui la seconda sequenza del canto e si apre l’excursus sulle vicende dell’esilio vero e proprio.
Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n sulla scala porta il santo uccello.[23]
Il Gran Lombardo è con ogni probabilità Bartolomeo della Scala, signore di Verona, morto nel 1304. Noi sappiamo che proprio nei primi mesi di quell’anno Dante fu nella città scaligera.
Non può non venirci in mente come gli Scaligeri siano stati liquidati con un giudizio molto severo nel canto XVIII del Purgatorio, un canto (e forse la coincidenza non è casuale) in cui pure si affronta il tema del libero arbitrio. Nel contesto dell’episodio dell’Abate di san Zeno, Dante riprova aspramente il comportamento di Alberto, figlio illegittimo di Alberto della Scala. In questo cambio di atteggiamento avrà certo influito non tanto il rapporto con Bartolomeo, cioè quello cui si fa cenno qui, quanto quello successivo con il generoso e intelligente Cangrande.
Tra Bartolomeo e Dante ci sarà tanta cortesia che il signore cercherà di prevenire ogni desiderio del poeta. Ed ecco subito, sovrastante e solenne, la memoria di Cangrande, che di Bartolomeo è il fratello minore.
Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.[24]
Dunque, in questo suo soggiorno veronese, Dante conoscerà Cangrande che, al suo nascere, ha ricevuto un forte influsso dalla stella di Marte e sarà dunque destinato a rilevanti successi militari. Cangrande ha, nel 1300, nove anni e Dante, infatti, sottolinea:
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età[25]
Di lui, signore di Verona per venti anni fino alla morte avvenuta nel 1329, Dante racconta gli esordi politici. Nel 1311 Cangrande era stato associato dal fratello Alboino, per il talento dimostrato nelle arti del governo, nel reggimento di Verona. Esattamente un anno dopo, con uno stridente confronto politico e morale insieme, il papa Clemente V aveva chiamato in Italia Arrigo VII e poi lo aveva boicottato minando alla radice qualsiasi progetto di restaurazione dell’impero universale.
L’uno vicino all’altro, dunque, due provvedimenti politici: il primo lungimirante e positivo, il secondo miope e dominato dalla malafede.
Cangrande no, profetizza Cacciaguida. Di lui
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.[26]
Disinteresse, generosità personale, soprattutto la forza di una ideologia e di una azione politica tesa al rafforzamento della dignità imperiale: sono i tratti con cui Dante consacra la grandezza di questo personaggio.
Cangrande rappresenta il punto di arrivo e il punto più alto di tutta una linea di personaggi, modellati sul Veltro oggetto della profezia del primo canto dell’Inferno, i quali hanno il loro tratto peculiare nel disprezzo delle ricchezze terrene. Il Veltro, si ricorderà, non ciberà terra né peltro[27]. E Marco Lombardo, nel canto XVI del Purgatorio (ancora un canto il cui tema centrale è il libero arbitrio) analizza le motivazioni del disordine universale:
ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;[28]
È la stessa linea tematica su cui troviamo, nel canto XIV del Purgatorio, Guido del Duca che rimpiange la società cortese, i suoi valori. E si chiede perché la gente umana ponga il suo cuore solo nella cura dei beni terreni. Più in generale Cangrande è il paradigma estremo della convinzione dantesca secondo la quale l’uomo non può realizzare se stesso solo nella dimensione individuale. La dimensione autentica è quella della comunità civile. E va da sé che la corretta comunità civile è quella edificata all’interno dell’istituto imperiale.
Tali saranno la generosità e la magnanimità di Cangrande che anche i suoi nemici dovranno riconoscerla. Dante dovrà affidarsi a lui, capace di trasformare i ricchi in poveri e i poveri in ricchi. Che vorrà dire come Cangrande saprà controllare i mutamenti sociali e ristabilire il corretto ordine. Cacciaguida chiude le lodi di Cangrande dicendo di lui cose
incredibili a quei che fier presenti.[29]
Il ritratto dello scaligero si connota dunque del senso dell’attesa, dei progetti che l’intera umanità può fare su di lui. E si completa anche il significato autentico di questa trilogia di canti. Una sorta di trittico pittorico di argomento laico. Nel quadro centrale vediamo la Firenze ideale e nei due quadri laterali lo stesso Cacciaguida immagine del cittadino ideale e Cangrande immagine del signore ideale.
Comprendiamo che Cacciaguida sta esaurendo il suo compito e anche noi ci avviamo alla conclusione. L’avo raccomanda a Dante di non covare propositi di vendetta contro i suoi concittadini, ora che sa quanto male essi gli stiano apprestando: il suo nome sopravviverà a quegli eventi.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che si infutura la tua vita
via più là che ‘l punir di loro perfidie».[30]
Rimane aperto un discorso, un problema di fondo. Come deve comportarsi l’intellettuale fuoriuscito? Se deve sopravvivere dovrà accettare i compromessi, dovrà accettare di tacere su cose che magari lo muovono a sdegno. Il problema è eterno: dove sta il confine tra l’onestà e il rigore morale che vorrebbero che non si tacesse davanti all’ingiustizia e la necessità di trovare i mezzi di sussistenza? Dove finisce l’obbligo di esprimere il proprio dissenso e quale prezzo si può arrivare a pagare per tacere o parlare? Appunto un problema di ogni società. Dante ricapitola il suo viaggio: se volge la testa indietro, attraversando Inferno, Purgatorio e Paradiso
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».[31]
Ecco il dilemma: sopravvivo ora nel mio corpo e nella mia carne o faccio in modo di non morire nella memoria dei posteri? Per Dante il problema è radicale e acquista una ruvidità assoluta nel confronto (implicito da quanto è appena emerso dal suo colloquio con Cacciaguida) con Cangrande, il signore ideale. La classe dirigente con cui deve fare i conti è spesso infingarda, incapace di pensare in termini politici corretti, gretta, rivolta alla mera conservazione della sua condizione particolare: come tacere?
La risposta di Cacciaguida ha la prontezza e la luminosità di un lampo. La sua luce
si fé prima corusca
quale a raggio di sole specchio d’oro;[32]
Non possono esserci dubbi. Colui che ha la coscienza offuscata dalla colpa propria o dalla colpa dei suoi parenti non potrà non risentirsi delle tue parole brusche, dice Cacciaguida a Dante: pur sentirà la tua parola brusca.[33] E allora?
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.[34]
Durissima questa nota immagine e tagliata su misura per una società in cui la scabbia era malattia frequentissima. Chi ha motivo di lamentarsi si lamenti pure. Dante non potrà tacere: anzi dovrà farsi un dovere di alzare la voce. Altrimenti verrà meno alla sua stessa funzione poetica. Il poeta (e qui non possiamo non riandare ancora alla figura di Brunetto Latini) è soprattutto maestro di vita morale, colui che è in dialogo con Dio, colui che, in casi estremi, può essere chiamato a compiere il viaggio che proprio Dante sta compiendo.
Insomma l’invito di Cacciaguida a non tacere si può intendere addirittura come un invito a non tradire il senso stesso della sua presenza lì, in quel momento, davanti a lui, alla vigilia del balzo ultimo. È dall’esperienza stessa, ormai a un passo dal suo compimento, che Dante deve trarre l’imperio duro a non tacere. Ha attraversato, conosciuto, parlato, appreso per poter riferire.
Prima abbiamo parlato del Veltro: forse nessuno in particolare, forse nemmeno una profezia precisa. Forse un po’ tutti i personaggi ideali da Cangrande in giù. Ma il primo Veltro, il primo riformatore, il primo chiamato alla ricostruzione politica e morale del mondo è proprio lui, Dante.
Che senso avrebbe tacere?
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime percuote;
e ciò non fia d’onor poco argomento.[35]
Grido era nel linguaggio politico e giuridico ai tempi di Dante il grido di accusa, anzi la stessa pubblica accusa proclamata da un banditore. Questo è il ruolo del poeta: urlare ad alta voce e proclamare pubblicamente i delitti compiuti contro l’edificazione di una società politicamente ed eticamente corretta.
Però ti son mostrate in queste ruote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma piede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».[36]
La cultura medievale è una cultura dell’exemplum: per dare valore ad un discorso, per scolpirne la validità nella mente del destinatario si coinvolge un personaggio o un episodio che dimostrano la verità dell’assunto. È un modo di organizzare il discorso che si imporrà fino a Machiavelli e che solo Guicciardini demolirà svelandone l’inconsistenza. La prima raccolta di novelle italiane, Il Novellino, nasce come una raccolta di exempla e lo stesso Milione di Marco Polo fu a lungo sentito come un enorme, mirabolante serbatoio di exempla.
Noi possiamo concludere che questo canto, anzi questa trilogia di canti, la figura stessa di Cacciaguida, possiedono un altissimo valore esemplare.
La sentenza di condanna in contumacia per baratteria che fu pronunciata in Firenze dal podestà Cante dei Gabrielli da Gubbio il 27 gennaio 1302 accomunava nel bando dalla città, Dante Alighieri del sesto di san Pietro Maggiore, Palmiero Altoviti del sesto di Burgo, Lippo di Becca del sesto di Oltrarno, Orlanduccio Orlandi del sesto di Porta Domus.
Questi momenti di passaggio, successivi alla vittoria di un partito su un altro, erano terribili. Pensiamo alla sfiorata Fiore di Guittone d’Arezzo. Pensiamo all’odio mai sopito di Farinata.
Il dramma di una intera generazione che arrivava a coinvolgere famiglie, figli, nipoti, spesso tutta una discendenza. Jacques Heers nel suo bellissimo Partiti e vita politica nell’Occidente medievale, scrive:
Questo esilio costituisce una frattura brutale nella vita di un uomo, comporta la rottura di molti legami sociali e delle abitudini quotidiane. L’esule diviene un estraneo e, lontano dalla sua città, ne conserva il tenero ricordo, ha una viva nostalgia del passato e del quartiere dove e è nato e vissuto. Questo è testimoniato da tutta una letteratura dell’esilio. La figura altera, dura e al tempo stesso sensibile dell’esiliato, i suoi sentimenti e i suoi rimpianti, il suo orgoglio e il suo isolamento talvolta struggente, il suo implacabile odio per il partito al potere e la sua insaziabile sete di vendetta dominano e animano un considerevole numero di opere letterarie di ogni genere.[37]
E così se andiamo ad indagare nel modo variopinto dell’esilio, al capo opposto di Dante troviamo un altro profugo fiorentino, Pieraccio Tebaldi. A Faenza, dove approdò, egli si trovò molto bene tanto da poter proclamare:
Bel vesto e calzo, e ben empio la pancia
e ben ho de’ contanti, a mia piacenza.
Ma poco oltre deve ammettere:
Vorrei partir ormai d’esta campagna
e ritornare nel dilettoso spazio
de la nobil città gioiosa e magna.
Avrebbe sottoscritto anche Dante.
[1] Pd. XVII, 1-4
[2] Pd. XV, 25-27
[3]Pd. XVI, 82-84
[4]Pd. XV, 97
[5]Rispettivamente: If. X, 79-81; If. XV, 61-72; If, XXIV, 140-151; Pg. VIII, 183-189; Pg. XI, 139-141
[6] Convivio I, III, 4-5
[7] Pg. XV, 70-72
[8] Pd. XVII, 7-12
[9] Pd. XVII, 13-26
[10] Pd. XVII, 31-36
[11] Pd. XVII, 40-42
[12] Summa, I, XIV, 13
[13] Pd. XVII, 43-45
[14] Pd. XVII, 46-51
[15] Cronica II, 11
[16] Pd. XVII, 51-54
[17] Pd. XVII, 54-55
[18] Pd. XVII, 58-60
[19] Convivio I, VI, 3
[20] Pd. XVII, 61
[21] Pd. XVII, 66
[22] Pd. XVII, 67-69
[23] Pd. XVII, 70-72
[24] Pd. XVII, 76-78
[25] Pd. XVII, 79-80
[26] Pd. XVII, 83-84
[27] If. I, 103
[28] Pg. XVI, 109-111
[29] Pd. XVII, 93
[30] Pd. XVII, 97-99
[31] Pd. XVII, 116-120
[32] Pd. XVII, 122-123
[33] Pd. XVII, 126
[34] Pd. XVII, 127-129
[35] Pd. XVII, 132-135
[36] Pd. XVII, 136-142
[37] Jacques Heers, Partiti e vita politica nell’Occidente medievale, Mondadori, Milano 1983