Treviso in serie A
(dall’inserto speciale del Gazzettino, 10 settembre 2005)
AMARCORD VECCHIO, CARO TENNI
Parlava di uomini e di cose, mai di tattiche e strategie, di classifiche o di risultati. Il raboso ruspio di mio zio Lamberto gli scioglieva la lingua burbera. Raccontava che suo padre Giusto era macellaio e suo nonno Ludwig faceva il cambiavalute, giunto da Vienna dopo mille avventure. Di cognome faceva Rock, ma nel ’25 per lavorare nel porto di Trieste era necessario avere una italianissima tessera fascista. Il paron Rocco mi metteva giù dalle ginocchia, si lisciava la piega dei pantaloni che gli avevo barbaramente stropicciato e si metteva a ridere, lui che era sempre trasandato nel vestire. “Pensar, diceva, che Rock in todesco vol dir bel vestito”. Si metteva il cappello e aggiungeva “Deso ‘ndemo far do pasi”.
I miei zii, Gigetta e Lamberto, avevano casa in piazza Rinaldi. La meta dei do pasi era vicinissima: le mura e, poco più in là, il Comunale. Lo stadio, non il teatro. L’intitolazione al grande campione della motocicletta Omobono Tenni era di là da venire. A me pareva immenso e bellissimo.
In realtà era piccolo e provinciale, forse fatiscente già allora. Dietro le due porte nemmeno un accenno di tribuna ma solo un terreno usato durante allenamenti e riscaldamenti per non rovinare lo spazio riservato al gioco. Quando, di questi tempi, sento dire che il vecchio Tenni non ha futuro penso al grande Nereo, che a Treviso allenò per tre stagioni nei primissimi anni Cinquanta.
È giusto, le esigenze di una squadra di serie A al giorno d’oggi sono altre. Serve, dicono in molti, ben più che un impianto ormai stritolato dal tessuto urbano con un parcheggio che scoppia e una concezione costruttiva ormai superata. Sarà, ci credo.
Io, su quegli spalti, ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza squattrinate. Amavo così tanto la squadra di capitan Sperotto e poi degli Agnoletto, dei Fava, dei Taffarello e di tanti altri, che quando sapevo di non avere i soldi per la domenica andavo a vedermi gli allenamenti. Catturavo, con gli occhi, gesti tecnici che mi sembravano sublimi, con la stessa dedizione assoluta con cui collezionavo le figurine dei giocatori di serie A, quelli più famosi. Ma mi pareva impossibile che potessero essere più bravi. E anche oggi le immagini si accavallano, persistono.
Quando, la domenica, contavo le poche lire che mi giravano in tasca e vedevo che non raggiungevano neanche da lontano il prezzo del biglietto, suonavo al campanello del mio amico Carlo che aveva casa proprio sopra lo stadio. Dalla sua terrazza si vedeva il terreno di gioco.
Non tutto, diciamo due terzi. Alla mattina, dopo la comunione, pregavo che il Treviso tirasse, nel secondo tempo, contro la porta che riuscivo a vedere. E quando l’azione si svolgeva fuori dal mio campo visivo, mi facevo attento: ho imparato a decifrare i rumori della folla. Gioia, delusione, speranza, attesa. Perfino quando toccava il pallone questo o quel beniamino della gente.
E gli anni in cui la serie C poteva diventare una bellissima serie B. Campionati di testa, a suon di gol e con favolose difese, più impenetrabili di una diga. Treviso alè alè, la B aspetta te, urlava un cartello all’ingresso dei popolari, con metrica decisamente non stilnovista. Un po’ rozza anzi, ma infiammava i cuori.
E Toni Barba, capo riconosciuto e carismatico della tifoseria, arrivava (cosa succederebbe oggi?) con un grande e pesante sacco pieno di tavolette di legno. Le distribuiva a coppie, dopo averti guardato negli occhi per vedere se eri “buono”, se poteva fidarsi. Una tavoletta nella destra e l’altra nella sinistra: scandivano un tifo generoso, viscerale, senza riserve. E pulitissimo, un tifo gioioso e sereno anche nella sconfitta.
Perché naturalmente la B non arrivava proprio. Le leggende metropolitane sussurravano che la società voleva un campionato di vertice fino alla fine per vendere bene i giocatori, ma che le spese di una serie superiore erano inarrivabili.
Tuttavia le partite della speranza erano memorabili. Ne ricordo una col Monza (ahimè, non l’anno) che era una sorta di finale, di spareggio. Nel prepartita, sulla pista (di carbonella, se rammento bene, l’unica pista di atletica della Treviso di allora) passò una Topolino scoperta con un Toni Barba trionfante. A pochi minuti dalla fine, un tiro di Fava si schiantò (rombo di tuono in uno stadio col cuore sospeso) alla base del palo monzese. Il bunker lombardo, tetragono fino quell’istante, tremò ma non cedette. Finì zero a zero e si dileguarono le speranze di salto di categoria. Piansi. Buttai le tavolette nel grande sacco di Toni Barba. Nero e profondo: nemmeno la bocca degli Inferi omerici poteva esserlo tanto.
Il Comunale/Tenni era il luogo dello sport. Lo sport e basta. Un terreno, ferito e dolorante che doveva sopportare di tutto. Nel 1960 Treviso ospitò un Italia-Francia di rugby. Al Comunale non c’erano alternative. E una delle immagini che tornano alla mente, rimanda tragicomici postpartita del Treviso in serie C. Quelli del pallone ovale ritracciavano le righe sul terreno. Perché qualche minuto dopo il calcio, su quello stesso campo, andava in scena il rugby. Qualcuno stava attento che i tifosi del pallone tondo uscissero tutti, che nessuno si imboscasse. Poi venivano riaperte le porte e accolti i tifosi del rugby.
Quei tracciatori di linee mi hanno segnato e convertito. Il mio primo torneo di rugby, con le magliette del liceo Canova, lo giocai proprio nel vecchio Comunale.
Ma non ho mai tradito il vecchio, caro Tenni. È, nel mio cuore, un monumento più duraturo del bronzo, per dirla col poeta. Quando andrà in pensione o magari le ruspe cominceranno a farne strage, ci sarà una lacrima. Come quel giorno, mentre il sacco di Toni Barba ingoiava le tavolette di un popolo di tifosi, disperato.