UN INTELLETTUALE DI CAMPAGNA
(Intervista apparsa su Charitas, 2003 numero 2. Rivista della congregazione scuole Cavanis)
Come la devo chiamare, professore, dottore, scrittore, traduttore…
Mi considero un intellettuale (un intellettuale di campagna dato il mondo che racconto nei miei libri), anche se questa parola è diventata ormai impronunciabile. Considero il mio essere scrittore, giornalista, educatore come diversi aspetti della mia testimonianza culturale. Per il resto, per chiamarmi, Gian Domenico va benissimo.
Ho visitato il suo sito che ho trovato molto interessante: le viene facile usare il mezzo informatico? cura lei la “vetrina” nel web? E intervistarla per posta elettronica le fa un certo che?
Dico sempre di essere un disordinato che grazie al computer è riuscito a mettere ordine nella congerie immensa dei suoi interessi. Uno strumento indispensabile, e scrivo i miei libri direttamente alla tastiera: procedo ad una prima stesura, correggo, rifaccio decine di volte, riscrivo perché sono perennemente incontentabile. Il sito è curato da un webmaster che, grande amico, ormai capisce di me più di me stesso. Quanto all’intervista è la prima volta attraverso email, ma trovo la situazione assolutamente nomale. Da coltivare e sviluppare, anzi.
La sua produzione letteraria spazia dal teatro alla recensione, dalla storiografia alla narrativa alla poesia: da cosa derivano interessi così vasti e differenti? cosa la spinge a scrivere?
È vero che ho moltissimi interressi (oltre a quelli da lei citati c’è la musica, poi la fotografia e ci sono i viaggi, di cui puntualmente scrivo) ma, in realtà, avverto la mia opera come profondamente unitaria. La sento complessivamente come testimonianza dei valori in cui credo: la tolleranza, il dialogo, la voglia di pace, la cultura che sconfigge la barbarie. Dico così: ogni riga che scrivo è un tentativo di esplorare l’uomo (ogni uomo- e me per primo- anche il più umile, il più diseredato) e il suo essere persona, portatore di una dignità unica e irripetibile.
Vorrei che ci parlasse di Pietro Bianchet, l’assassino della contessa degli Onigo: la ricerca storica e psicologica che lei ha condotto su questo personaggio e l’analisi sulla squallida situazione delle plebi contadine pellagrose, sfruttate e affamate descrivono uno scenario drammatico di luci e di ombre della nostra storia locale, fatta di disperazione, di sperequazione, di fede, di rancori, di stenti. Il mondo di Pietro è un mondo tragico, e lo sviluppo del romanzo sembra ridimensionare la personale colpevolezza del Bianchet: era davvero questo il clima sociale del Veneto, appena un secolo fa?
Scrittori come Fulvio Tomizza e Luca Desiato hanno scritto che i miei romanzi hanno dato spazio (e anche dignità) ad una figura che mai fino ad ora aveva trovato spazio nella narrativa, quello del “vinto” veneto. E la figura di Bianchet è emblematica, un paradigma. Questo contadino, pellagroso, affamato, ignorante, l’11marzo 1903 uccide con un colpo d’ascia la sua padrona che gli aveva negato il permesso di tornare a casa, da sua moglie, fresca puerpera. Il protagonista di una rivoluzione inconsapevole, di un atto di cui lui mai intuì sostanza e conseguenze. Per quel suo delitto, come dire?, non doveva esserci processo: reo confesso di un atto compiuto davanti a decine di testimoni. Eppure raccolse a attorno a sé consensi (magari inconfessati) e umori, tanto che il processo fu celebrato a Venezia per paura che a Treviso la pressione dell’opinione pubblica, tutta dalla parte di Bianchet, condizionasse i giudici. Errore tragico perché Venezia divenne una cassa di risonanza mondiale e i giudici (tutti della classe sociale della nobile uccisa, si badi bene) si trovarono di fronte ad un bivio: se giudicare Bianchet o indagare anche le terribili condizioni di miseria, sfruttamento e ignoranza in cui il delitto aveva messo le sue radici. Una scelta epocale. E qualche critico ha parlato del mio romanzo come di un sottile giallo psicologico. Definizione che può anche andarmi bene, a condizione che non si dimentichi che il vero protagonista è questo Veneto miserabile sfruttato, tenuto consapevolmente nell’ignoranza, questo Veneto che stipava i transatlantici che varcavano l’Oceano verso l’America. Veneti come bestie, veri e propri extracomunitari di non molti anni fa. Bisognerebbe ricordarlo qualche volta.
Mazzocato, lei è trevigiano di origine e non ci vuol tanto a capire che di questa terra trevigiana lei non solo è uno studioso attento e sensibile ma prima di tutto è innamorato, lo si capisce dai romanzi storici della contesso degli Onigo e dell’epopea dell’emigrazione nel Bosco veneziano… Esiste per lei la “trevigianità”, intesa come peculiare civiltà e cultura della Marca Trevigiana? E se sì, quali ne sono i caratteri specifici?
Non credo esista una trevigianità, in senso che potremmo chiamare cromosomico, una trevigianità di DNA. Lo dico con forza perché su questi argomenti gli equivoci sono facili e strumentali: non esiste una razza Piave, ad esempio. Esiste invece una cultura veneta, con la sua storia, estremamente ricca e frastagliata, che si incarna in mille diverse realtà locali e si esprime in tanti modi differenti. Dal volontariato alla fantasia e capacità imprenditoriali. Posso spiegarmi con un esempio, un po’ fuori schema? Io amo moltissimo lo sport e il rugby in particolare (ho scritto anche qualche libro dedicato a questa disciplina). Ebbene, il rugby mi pare una splendida metafora della nostra gente: molti uomini (quasi 25 tra il XV in campo e la panchina) in cui ognuno ha un ruolo ed è necessario a tutti gli altri. Non serve essere né geni né supermen: basta avere onestà, coraggio, voglia di non tirarsi indietro, senso del gruppo, generosità. Questa è l’immagine della gente veneta.
E’ vero, secondo lei, che gli scrittori veneti non hanno una grande notorietà nel panorama letterario nazionale, rispetto ad altri autori italiani? E se sì, perché?
Non lo, forse qualcuno considera la mia una situazione di privilegio nel senso che i miei libri girano ovunque e tirano migliaia di copie. Ma voglio dire che si tratta di scegliere: qualcuno frequenta i talk show televisivi consapevole del fatto che oggi o si è in TV o non si esiste. Qualcun altro, come me, per precisa scelta valoriale, preferisce moltiplicare i suoi incontri con lettori e pubblico (parlando anche di teatro): tra una cosa e l’altra (teatro compreso, appunto) incontro la gente almeno un centinaio di volte l’anno. Nel Veneto e fuori del Veneto. Preferisco così: mi faccio conoscere, ma salvo la mia zona d’ombra e riservatezza che considero indispensabile.
A scuola i suoi libri vengono letti? Come è stata accolta dal pubblico giovanile la sua produzione letteraria?
Sì, molte scuole adottano i miei libri come testo di narrativa. Qualche volta succede che vedano le mie cose a teatro e si indirizzino ai miei libri, qualche volta il contrario. Poi mi rintracciano nel mio sito o mi telefonano e io vado a parlare con loro, confrontandomi. Una grande ricchezza, qualcuno si innamora di un personaggio, qualcuno di un altro. Con molta umiltà: io penso che quello dello scrittore sia un mestiere, che si può fare con dignità e tenendo di mira determinati valori, oppure tenendo d’occhio solo le classifiche e il gusto corrente. È una scelta di fondo: chi sceglie di “stare comunque sul mercato”, come si dice, spesso produce ciarpame che non vale la carta su cui è stampato. Io, per il mio mestiere, rivendico una dimensione diversa.
GIANCARLO CUNIAL