Ulisse for ever
(Lorenzo Fort, www.vicoacitillo.it, 09 gennaio 2004)
Il mito dell’eroe itacese, forse il più noto, fertile, celebrato tra i numerosissimi che l’antichità grecoromana ci ha donato, ritorna ancora una volta a vivere nelle pagine di Gian Domenico Mazzocato, scrittore e saggista trevigiano, giunto ora alla sua quarta fatica letteraria (per non contare la pièce teatrale, di gran successo, Mato de Guera).
Il nuovo romanzo s’intitola Il caso Pavan (Editrice San Liberale, Treviso 2003), è ambientato nel Settecento veneto e, con coinvolgente affabulazione, presenta le vicende ardue, tristi, se non addirittura drammatiche, di una gran folla di personaggi, umili o potenti, onesti o mariuoli, uomini di legge o ladri, biscazzieri, prostitute. L’attenzione tuttavia, e il racconto, s’incentrano
essenzialmente su Tomaso Pavan, alias Tomà Marchi, tintore di lane, attore, tipografo (ma, secondo il Collegio della Quarantia Criminale di Venezia, «farnetico et furioso», sospettato come «scrittore et estensore di libello diffamatorio in attesa di essere giudicato per detto reato dalli nobilissimi Inquisitori di Stato in nomine et mandato dell’eccellentissimo Consiglio dei Dieci», p. 197).
Originario di un piccolo paese di montagna, Longhere, sui laghi di Revine, Tomaso si reca dapprima nella Serenissima città, poi, in fuga, a Treviso, quindi di nuovo a Venezia (come giardiniere presso il convento dei Gesuati), successivamente in una delle isole del mare greco, Corfù (abitata, nel racconto di Cosma, «nei tempi antichissimi da un popolo felice, quello dei Feaci ed Alcinoo era un re buono e un giudice giusto che sapeva come mettere a posto ogni cosa, dirimere tutte le controversie, far sempre vedere il lato ragionevole delle situazioni», p. 143) inseguendo – e scoprendo infine, tramite la leggenda odissiaca – il significato recondito del tempo, della vita, della sua stessa identità («Capito cos’è il tempo Tomà? Per Odisseo era trascorsa una vita, per la dea non era passato neanche un istante, nemmeno uno sbattere d’occhi. Non si scherza con il tempo, non lo si può prendere in giro. E non lo si può neanche buttare via. Gli dei, forse, lo possono sciupare, ma noi …», p. 153). Lo sfondo, però, è quello da sempre più congeniale al poliedrico autore di Treviso: la terra veneta delle plebi contadine – misere, affamate, cinicamente sfruttate dai signori: un mondo piccolo e grande al medesimo tempo, già protagonista, pur nelle evidenti diversità di situazioni e di motivi, dei precedenti romanzi mazzocatiani: Il delitto della contessa Onigo (1997), Il bosco veneziano (1999), Gli ospiti notturni (2001), tutti usciti presso l’editrice Santi Quaranta e più volte ristampati. La solidarietà dello scrittore, infatti, si spende ancora una volta a tutto favore degli umili – gli ultimi, destinati però (forse) ad essere davvero i primi – in una sorta di ben orchestrata epopea sociale.
Di particolare significanza, ad ogni modo, il ritorno di Odisseo attraverso la memoria e le esperienze dello stralunato Tomaso – pure lui, come il mitico sovrano, incalzato dal destino.
Odisseo, la cui isola, Itaca rocciosa, resta per l’appunto a poche miglia da Corfù; Odisseo, al quale «capitò ogni cosa che ad un uomo possa capitare, conobbe tutto quello che c’era da conoscere, tutto il bene e ogni male possibile» (pp. 144-145); Odisseo, il quale era inviso agli dèi perché «era un uomo libero, quello che voleva faceva. Era intelligente, e persuasivo nel parlare, la sua voce era musica, aveva gesti eloquenti» (p. 145). Alla fine, il vecchio eroe, dopo aver «conosciuto tutto l’odio dell’universo, tutti i casi della vita, amore, mostri, orrore e paura», si era «messo tranquillo, appagato» (p. 147).
In realtà, l’autentica versione della storia è un’altra, con il re itacese che, a un certo punto, parte nuovamente dall’isola alla ricerca della Ninfa Calipso: ma, solo e ormai vecchio, con gli occhi «bruciati dal sole, dall’acqua e dalla salsedine», non riesce a vedere «lo scoglio che ferì profondamente la chiglia della sua nave e gli fece fare naufragio». Ciò non ostante, moribondo sulla battigia, vede «con felicità, da lontano arrivare la dea. Incedeva maestosa sulla spiaggia, le onde si ritiravano al suo passaggio, sembravano obbedirle. Lei avrebbe fatto il miracolo, lo avrebbe raccolto e gli avrebbe restituito forze e giovinezza. Ne era sicuro Odisseo. Avrebbe vissuto una nuova vita». Calipso, però, «si avvicinò, si inginocchiò accanto a lui, bella e splendida come tanto tempo prima, non una ruga, non un filo bianco tra i capelli, nemmeno sfiorata dal correre degli anni.
Gli accarezzò la fronte, gli sorrise con pietà, ma non lo riconobbe nemmeno. Lo lasciò lì, a morire sulla spiaggia perché non poteva, la dea, spendere un miracolo per uno sconosciuto» (p. 152).
Triste e compassionevole, dunque, la fine del grande eroe omerico nella rivisitazione di Mazzocato.
Il suo, del resto, è un Odisseo che assomiglia un po’ anche ad Attila – «il feroce, invincibile condottiero degli Unni. Conosceva bene quella storia, Tomaso, la più misteriosa tra quelle raccontate in Valmarena, ma a sentirla dalla bocca della vecchia contrabbandiera, aveva qualcosa di coinvolgente e oscuro, era nuova, come mai ascoltata … Gli Unni, i bambini della Valmarena se li vedevano perfino in sogno, erano orribili e feroci, belve autentiche, nate dall’accoppiamento del diavolo con tutte le streghe più cattive e malvagie. Anzi, erano in viaggio dalla notte dei tempi, gli Unni, venivano dalle lande sconfinate e lontane dell’Asia, dall’altra parte del mondo, sui loro cavalli, anch’essi figli del demonio. E Attila era il peggiore di tutti, il più determinato, il più instancabile, quello che non conosceva ostacoli e riposo. Aveva attraversato fiumi impetuosi, e così grandi che sembravano il mare, aveva passato catene impervie di monti ed era sceso come un avvoltoio rapace sulle piane furlane, distruggendo ogni villaggio, ogni città, Aquileia, Oderzo. Era invulnerabile, le frecce che gli venivano scoccate contro deviavano come toccate da una mano invisibile, e non c’era fendente che arrivasse a ferirlo. Aveva un segreto, Attila, la spada invincibile che il demonio, suo padre, gli aveva fatto trovare un giorno in riva ad un fiume. Quella spada garantiva vittoria eterna a lui e al suo popolo. Ad ascoltare la Scattona, Tomaso capiva che Attila era proprio uguale ad Odisseo, lo inseguiva il destino, e che la storia non cambia mai» (pp. 178-179).
Grande, insomma, la suggestione del volume di Mazzocato: un’ottima ragione per leggerlo con giusta attenzione e vivo interesse.