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“Quel colpo grosso di fine Ottocento rievocato il clamoroso furto di una cassaforte del conte Brandolin a Solighetto”

“Quel colpo grosso di fine Ottocento rievocato

il clamoroso furto di una cassaforte

del conte Brandolin a Solighetto”

(Anna Renda, La Tribuna di Treviso, la Nuova Venezia, il Mattino di Padova)

 

Una notte di centoventi anni fa nel palazzotto del conte Guido Brandolin a Solighetto, la banda di Faustino detto “Bicio” mise a segno uno dei colpi più clamorosi del secolo che aveva fruttato ai rapinatori la più imponente refurtiva di cui mai si avesse avuto notizia. Una storia di disperazione maturata nella plurisecolare miseria e ignoranza indotte dal forzato esilio e dal divieto assoluto imposto dalla Serenissima alle genti del Montello di sfruttare l’unica risorsa economica disponibile rappresentata dal legname dei boschi locali. Una vicenda oggi dimenticata. Ma che all’epoca aveva finito per assumere nell’immaginario collettivo i contorni di una leggenda.

I ladri erano riusciti in poche ore a strappare dal muro dov’era incassata una poderosa cassaforte, l’avevano quindi trascinata giù per le scale (800 chili di lamiere) e caricata su un carro traballante per correre a sventrarla qualche paese più in là. Giunti alle porte di Treviso, l’avevano gettata nelle acque di un canale, ignari però che il giorno dopo sarebbe stato svuotato per essere ripulito. E fu così che insieme al forziere era emerso anche qualche indizio che aveva smascherato i responsabili. Nel giro di due anni li avevano presi quasi tutti. Quando nel 1888 si tenne il processo nel tribunale di Treviso, la gente accorse da tutta la provincia.

E’ un vecchio fatto di cronaca che lo scrittore Gian Domenico Mazzocato racconta nel suo nuovo romanzo Banditi del Montello, dove “banditi” è da intendere nella duplice accezione di delinquenti e di esiliati dalla propria terra. Il volume esce per i tipi di Zanetti Editore di Caerano San Marco (Tv) col titolo Veneto oscuro e comprende altre due brevi storie realmente accadute, singolarmente già pubblicate: 1909 Delitto a filò e Il ritorno.

Tre romanzi-inchiesta in cui Mazzocato – come in altri suoi scritti precedenti a partire dal noto Delitto della contessa Onigo (nel 1997 sette ristampe in pochi mesi) – dà voce al mondo dei vinti in un Veneto povero e indigente di appena un secolo fa, o poco più, che rappresenta l’altra faccia di quel Veneto aristocratico e solare e dominatore che la tradizione storico-letteraria veneziana è solita presentare. Due mondi che viaggiano su binari distinti e paralleli ma che talvolta s’incontrano. Mazzocato ci racconta quel punto esatto in cui, per un attimo, si toccano. Quel punto è spesso un crimine. Che rende meno definita e scontata l’immagine che si ha di quei due mondi. E il nobile appare un po’ meno nobile e il reietto acquista una sua qualche dignità.

Così in Banditi del Montello c’è una rapina che non si spiega del tutto e che, udienza dopo udienza, mette in ombra la stessa figura del conte, sospetto di essere il vero mandante di quel furto. Che avrebbe organizzato forse per giustificare un ammanco, lui, Guido, erede di una famiglia ricca e potente, fratello di Annibale proprietario del magnifico Castello di Cison di Valmarino, imparentato con il vescovo di Ceneda e con un altro Brandolin possidente di terre immense e villa a San Cassan di Meschio. Ma prove contro di lui non si cercano neppure. Pagheranno gli altri. Gli elementi emersi durante il processo, nel libro ci sono tutti. Anche le testimonianze rese. E il duro verdetto dei giudici.

E al di là del mero fatto di cronaca è una fetta di storia locale che esce da queste pagine. Che spiega la cattiva fama dei Montelliani, riporta curiosità e dati poco noti sull’emigrazione veneta, descrive come venivano trattati i poveri che si ammalavano di colera o di vaiolo, le terribili condizioni dei galeotti condannati ai lavori forzati, con qualche cenno al colorito gergo della malavita e al ruolo dei confidenti delle forze dell’ordine. Ma si parla anche dei primi segnali di progresso a Treviso, le prime lampadine, il nome dei primi dodici abbonati al neonato servizio telefonico nel 1886, l’anno della rapina.

Nessuno ha mai saputo se nella cassaforte rubata ci fossero davvero tutti quei soldi che si era detto. Né che fine abbiano fatto. Il tesoro di Bicio non è mai stato trovato. E nei paesi del Montello e della pedemontana trevigiana, su fino alle vallate del Cadore, del Comelico e dell’Agordino, c’è ancora chi lo sta cercando.

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