Ruspa Raspa
Spresiano in versi
(di Fabio Barbon)
Saggio di Giuliano Simionato
Prefazione di
Gian Domenico Mazzocato
Libro davvero non banale questo che ha affidato alle stampe Fabio Barbon, alla sua prima opera edita.
Un paese della provincia veneta (Spresiano, appunto) colto nella sua evoluzione con l’occhio dell’ironia e di una nostalgia sempre critica e sorvegliata, mai fine a se stessa o compiaciuta.
Il libro è illustrato da molte foto per lo più inedite provenienti dall’archivio Simionato e dall’archivio Barbon. Una ricchezza in più per un libro che si raccomanda per dolcezza e rigore insieme.
Fabio Barbon è nato a Spresiano (Treviso) nel 1951. Insegna al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Treviso e si occupa di scrittura da sempre. I suoi primi versi appartengono all’adolescenza. Dal 1994 partecipa a concorsi nazionali e internazionali raccogliendo numerosi riconoscimenti e premi.
Ruspa Raspa è il suo primo volume di liriche.
Certo, sono pessimista.
Come si fa ad essere ottimisti
di questi tempi? Ma continuo
a produrre versi
perchè la poesia è
l’unico modo
per raccontare la vita
rispettandone il ritmo.
Nelo Risi
Come definire la poesia di Fabio Barbon? Leggo questa sua silloge e resto spiazzato. Certo non perchè non conosca la persona e il poeta, cui mi legano da tempo rapporti di affettuosa sodalità.
Piuttosto per questa aura di diversità e novità che si respira nei suoi versi. Quanti poeti legati al tema della nostalgia, del ricordo, della rimembranza conosciamo? Tanti.
Troppi, mi verrebbe da aggiungere sommessamente.
Una schiera pressoché infinita di laudatores temporis acti, di praticanti del luogo comune, dei tracciatori (inutili, talora) di solchi già tracciati più volte da altri.
Barbon no. Ha un piglio tutto suo, una serenità dolente, un punto di osservazione autonomo e silenzioso, una umile solennità, un cono d’ombra che lo rende autorevole perchè può dire ogni cosa senza tema di urtare suscettibilità, di alzare polvere.
Una sorta di verginità intellettuale (ed anche espressiva, come dirò tra poco) che gli è filo d’Arianna nel labirinto difficile della memoria.
Intanto l’atteggiamento del poeta nei riguardi del materiale linguistico impiegato e delle valenze e rapporti che sa istituire tra i vari nuclei di tale materiale. Il lettore se ne accorgerà subito: ci sono versi in dialetto ed altri in italiano, seppur meno numerosi.
Ma non divisi per sezioni, non separati da uno spartiacque. Siamo soliti a pensare a quella lingua che chiamiamo dialetto come espressione di un certo mondo, e alla lingua che chiamiamo italiano come espressione di un altro mondo.
Cioè: nel nostro immaginario linguistico non c’è coincidenza tra ciò che pensiamo in dialetto e ciò che pensiamo in italiano. Il nostro modo di esprimerci dipende da questo. Di volta in volta, a seconda delle situazioni, delle relazioni, dell’inclinare del dialogo in una certa direzione, scegliamo di esprimerci nell’uno o nell’altro modo.
Per marcare in maniera diversa due differenti approcci concettuali. Se parlo in italiano segnalo che voglio tenere le distanze o che voglio delimitare certi concetti. Se parlo in dialetto quelle distanze tendo ad abbreviarle e alluderò a tempi più intimi o temi più quotidiani.
Invece l’intelligenza di questo poeta si muove nella direzione di scardinare tale dualismo e di sovvertirne (e perfino rivoluzionare) la dialettica tra i due territori linguistici. Affronta gli stessi argomenti ora in una lingua ora in un altra. Appiana gli attriti, scioglie i confini. Ne esce un impasto di strumenti espressivi che convince ed emoziona.
Allora ecco, sottotraccia se si vuole, il percorso di ricerca di una possibile chiave di lettura della poesia di Barbon.
Che si lega, con commovente evidenza, ad una coralità di popolo che il lettore avverte e sente come profondamente sua, radicalmente partecipata.
C’è una forte (dominate anzi) componente autobiografica: implicita, del resto, nel fatto che ogni itinerario della memoria è un muoversi attorno a se stessi, uno scandagliare la propria anima, un sollecitare l’attenzione comune attorno al ricordo.
La parola poetica di Barbon rilancia continuamente in questa direzione: sollecita la fantasia a più voci, chiama alla memoria comunitaria.
Barbon è aedo e rapsodo di una poetica e piccola (nel senso dei confini geografici) odissea paesana. Su cui domina, povero e solitario Ulisse di campagna, il metronotte. La sua Itaca è la luce dell’alba. Il metronotte è il papà del poeta. All’uomo che ha per compagni il vento, la pioggia, la neve spetta l’emblema di aprire la galleria di personaggi.
Eccolo dunque il poeta che rifiuta il tipo (è tutto ciò che con tipo si compone: stereotipo, archetipo) e invece racconta storie.
Che bella ed emozionate questa sua poesia/narrativa. Ha momenti di sorriso (mai di riso sguaiato; il sorriso, invece, allude sempre alla profondità del riflettere) e momenti di accorato raccoglimento. Di profondità pensosa. Mi sarà difficile dimenticare (e rimpiangere di non aver conosciuto) l’umile Toni che aveva poche parole in scarsea. Che ha scelto di lasciarsi annegare nel canale dei ricordi, perchè pensava ai suoi amici ed era stufo de esser restà l’unico a spetarli.
E la cronaca quotidiana. Ci vuole un poeta per trasformarla in storia, sia pure la microstoria (amatissima microstoria) di una realtà paesana. Anche lo scherzo, anche la gita, perfino la società di atletica.
Il maestro che sapeva orchestrare / paure, timidezze, silenzi.
Esemplare questa lirica dedicata ad una figura centrale: Barbon parla di giovani la cui vita lievita. Straordinaria immagine per dire del crescere del corpo e dell’anima insieme. Sotto un buon maestro naturalmente.
E perchè no il meccanico dalle mani d’oro, autentico dotor dee rode? E perchè no l’Angelo (un nome, una vita) Burei, affettuoso arbitro e imperiale taumaturgo dei mali di pancia altrui? E naturalmente don Piero che xe stà un prete de sostansa. E poi Giuliano Simionato, l’intellettuale famoso che ricalca il topos del profeta che non riesce a parlare a casa sua e che dunque par l’amministrassion xe un citadin fora man.
E così all’infinito (o quasi) in questa silloge. Il lettore scoprirà da sè, in variegato e multiforme catalogo.
Che ovviamente è anche inventario di luoghi e geografie. Il vecchio cinema, taverne e locande, fossi e campagne, la farmacia, la piazza del paese, il fiume.
Ma di fronte a queste cose non ci si può commuovere, non si può spendere la sterile lacrima della nostalgia. E Barbon reagisce con un’altra freccia che reca -robusta, diritta, affilata, sempre pronta all’uso- nella sua faretra.
L’ironia. Ironia robusta e talora sferzante. Di chi non ama fare sconti a nessuno e possiede autonomia intellettuale sufficiente per farlo. Come parla amaro, Barbon, della Pontebbana, illuminata da luci che proprio luci del tutto non sono. E come sublima il suo dire nella abrasiva filastrocca del sasso e del mattone. Dei due non si sa chi sia più padrone.
Un mondo che avanza e travolge: una condizione che non garba al poeta il quale si fa testimone e custode del mondo travolto. L’infanzia diventa mito, la storia personale incarna la storia di una comunità.
Quanto a lui, al poeta, resta lo spazio di uno slancio e di una confessione. Perchè sempre mio è rimasto / l’ansimato abbraccio al cielo.
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
(agosto 2007)