Cent’anni dal delitto
Onigo
IL PISNENTE E LA CONTESSA
IL SEGRETO DI UNA TOMBA
Nei giorni in cui, esattamente ad un anno di distanza dal delitto, si celebra il processo a Pietro Bianchet, reo di aver ucciso l’11 marzo del 1903 la sua padrona, la contessa Teodolinda Zenobia Onigo, il Gazzettino pubblica a puntate e in prima pagina, un romanzetto d’appendice, Il segreto di una tomba.
L’autore, Emilio Richebourg (1833-1898) è oggi praticamente dimenticato, ma fu ai suoi tempi uno dei più popolari e tradotti autori di feuilleton, che i giornali italiani letteralmente saccheggiarono e continuarono a saccheggiare anche dopo la sua morte. Ancor oggi sono reperibili La capinera del mulino, Le due madri, Il figlio.
Ma questi sono i giorni caldissimi in cui viene attesa una sentenza comunque destinata a spaccare le coscienze. E qui, anche se argomento, protagonisti, luoghi tutto sono fuor che veneti, la scelta di quel testo di Richebourg dimostra tutta l’abilità del quotidiano nello sfruttare una diceria che girava proprio tra la gente trevisana e veneta.
Perché c’è un’altra tomba che serba, forse, un segreto. Proprio la tomba di Linda Onigo.
L’ultima rappresentante della millenaria dinastia degli Onigo è sepolta in un tempietto aperto, sito nel giardino di quello che è ora il palazzo delle Opere Pie di Pederobba. Vi fu inumata il 13 marzo, con un funerale frettoloso, di fatto poco più di 24 ore dopo il delitto, con quella bara scomoda e orrenda che conteneva una testa staccata dal corpo.
Il corteo era partito da Treviso in mezzo ad un gran trambusto. Tirava anzi aria di sommossa da parte di un popolo inferocito contro i grandi agrari e tutto dalla parte dell’assassino. Ci furono momenti di gran parapiglia, soprattutto all’uscita da Treviso che avvenne attraverso Porta Cavour (oggi porta Santi Quaranta): la folla era così eccitata che qualcuno, appena il corteo si mosse, cercò di spingere il feretro nelle acque del Sile.
Al punto che l’abate Luigi Bailo (che pure avrebbe offerto una testimonianza non tenerissima nei riguardi della Onigo, un anno dopo, al processo) tuonò, con un suo sdegnato articolo, contro il parapiglia.
TREVISO IN TUMULTO
A Porta Cavour volarono invettive, insulti, qualche sasso. La sensazione di chi rilegge oggi quei fatti, è che da parte della forza pubblica non si sia fatto tutto il possibile né per prevenire prima né per arginare poi. Ogni disordine era utile per accreditare una tesi molto comoda: Bianchet era pedina di un più vasto complotto, teso a rovesciare il sistema dei grandi agrari, spesso (come nel caso della Onigo) padroni assoluti e dispotici del corpo e dell’anima dei lori contadini. Tesi, con tutta evidenza, inverosimile e perfino ridicola.
Poi, da Porta Cavour, il più velocemente possibile verso Pederobba. Il corteo era formato da due tronconi nettamente divisi tra loro. Subito dietro il feretro c’erano parenti e amici della nobildonna uccisa. Più in là i carretti dei suoi fittavoli, i suoi pisnenti come si diceva allora, combattuti fra l’odio alla padrona e la necessità -dettata dal loro ruolo subalterno- di essere in qualche modo presenti.
Linda Onigo fu sepolta velocemente, senza grandi cerimonie.
Ma al mattino seguente, sulla sua tomba furono trovate tavole e sassi: la gente voleva impedire che la sua anima salisse al cielo, si disse.
Il clima di livore e odio era tanto spesso e pesante che, per evitare oltraggi alle spoglie mortali, fu fatta circolare una voce. Il corpo di Teodolinda Onigo era stato segretamente inumato in una non meglio precisata chiesetta dei dintorni.
Proprio non era destinata a trovare pace, la contessa. Inquieta e diversa. E malata di avarizia, come si disse in tribunale. Destinata, proprio nelle diverse fasi del processo spesso tese ed aspre, ad essere una seconda volta fatta a brandelli, dilaniata. Ma andiamo con ordine.
Pietro Bianchet uccise per motivi personali.
Ma la vicenda li travalica, esce dai suo argini come un fiume in piena, impetuoso e dirompente, invade un territorio immenso. Al giornalista del Gazzettino che si reca ad intervistarlo il giorno dopo il delitto, il parroco di Trevignano dice di Bianchet: “Certo non è uno stinco di santo e in chiesa non si faceva vedere mai. Gli piaceva far baruffa, specie dopo qualche gotto di vino. Ma se non avesse avuto fame non avrebbe ucciso”.
Pietro Bianchet era di Trevignano, allora un paese di poco più di mille anime. Apparteneva tutto alla Onigo: case, uomini animali. Perfino le canalette che portavano l’acqua dalla Piave, la cui manutenzione (per un sottile gioco molto vicino al ricatto) spettava al comune. La Onigo le apriva, a suo piacimento, e le chiudeva, magari con le bestie che, d’estate, urlavano la loro sete nelle stalle.
SERVI DELLA GLEBA
Anche Pietro Bianchet era sua proprietà: il pisnente coltivava per lei due campi, sempre più poveri e logorati dallo sfruttamento. Una casa dal pavimento di terra e dalle finestre con fogli di carta al posto dei vetri, completavano il piccolo, disperato mondo di Pietro Bianchet. Un mondo minato dai debiti contratti con le banche, con la padrona, con fittavoli più fortunati; un mondo che forniva di che vivere per sei mesi all’anno. Se…
Se andava bene: se non arrivava la tempesta a distruggere tutto, se la filossera non attaccava le viti, se la pellagra non si faceva viva con uno dei suoi terribili attacchi.
Un mondo abitato anche da sua moglie e dalla sua prima figlia. In quei primi giorni del marzo 1903 Pietro Bianchet si era recato a lavorare nel giardino di Linda Onigo, a Treviso. La facciata del palazzo guardava verso quella che è oggi piazzetta sant’Andrea e il parco occupava lo spazio degli attuali giardinetti di Riviera Margherita, digradando fine alle acque del Sile.
Il suo era un incarico, come si diceva, “a opera”. Per un giorno di lavoro percepiva una lira (il suo potere d’acquisto equivaleva sì e no a 10, forse 12 euro attuali) con la quale Bianchet doveva mantenersi, provvedere alla famiglia lontana, procurarsi gli strumenti di lavoro. Uno strozzo, insomma.
Quando parte da Trevignano per raggiungere Treviso, la moglie di Bianchet, Maria Semenzin è prossima al suo secondo parto. E, pochi giorni dopo la sua venuta in città, Bianchet viene raggiunto dalla notizia che è nata una bambina. Chiede di tornare a Trevignano, di avere un sacco di grano per le prime necessità, di ricevere i soldi per prendere la carrozza o il treno perché con un sacco sulle spalle non può certo compiere il tragitto a piedi, come normalmente avveniva.
Passa attraverso Giuseppe Sabbione, amministratore della contessa e suo uomo di fiducia: personaggio enigmatico, proveniente dal Piemonte e con passato misterioso alle spalle. È un buon uomo, che spesso si sobbarca la croce di attutire le sgradevoli e abrasive conseguenze del caratteraccio della sua padrona, segnata da una profonda, inestirpabile tirchieria.
La contessa nega e lui lo deve comunicare a Bianchet. Che non dice nulla, non reagisce.
Il giorno dopo, l’11 marzo, Bianchet pare tranquillo e intento a lavorare alle radici di una delle maestose magnolie che regalano ombra ai viali. Sono le 4 e un quarto del pomeriggio. La Onigo e Sabbione passeggiano nel parco, controllano i lavori.
Per Bianchet un rimprovero: sta lavorando male, gli urla la contessa. Bianchet, che ha in mano una scure, si gira e vibra un colpo che le stacca la testa. I suoi compagni di lavoro sono muti. Si fanno attorno e osservano. Poi, incredibilmente, tornano alle faccende cui erano intenti. Come se l’occhio della contessa appena uccisa fosse ancora lì a controllarli. Tanto era il terrore che essa incuteva.
Bianchet corre a costituirsi. Si consegna ad una guardia in piazza dei Signori. Processato un anno dopo.
UN PROCESSO “DIVERSO”
Un processo stranissimo quello che iniziò il 26 febbraio presso la corte d’assise di Venezia. Un tribunale assediato e letteralmente preso d’assalto dalla gente tutta favorevole all’assassino, in campo della Bella Vienna, in Erbaria, in Pescaria. Corte e giurati avevano il loro ingresso riservato dalla parte della Naranzeria, a sua volta stracolma di popolo urlante.
Il Gazzettino del 26 febbraio 1904 inizia la sua lunga serie di servizi (di estensione assolutamente inusitata per i tempi, con il titolo sempre identico giorno dopo giorno -L’assassinio della contessa Onigo- che campeggia a tutta pagina) sottolineando l’eccezionalità del crimine: pochi processi criminali devono destare tanto interesse…il grado sociale dell’assassinata, la causa impari, il modo feroce, il caso di un rozzo contadino che si ribella e assale la sua nobile padrona e a colpi di mannaia le recide il capo, sono una serie di circostanze che raramente si riscontrano in un delitto.
E dire che vicende e processi in grado di accendere la fantasia popolare non mancavano.
In quegli stessi giorni la cronaca nera registra eventi di grande impatto, capaci di produrre orrore. A Vicenza imperversa una sedicente contessa Villa la quale, millantando titoli nobiliari che non possiede, accumula raggiri, estorsioni e conseguenti procedimenti giudiziari. A Belluno Veronica Paolini D’Onofrio, di 43 anni, getta il figlioletto appena partorito nelle acque del torrente Ardo. Vicino a Verona un possidente noto e stimato, Alessandro Panato, viene rapinato e ucciso: il fatto ha qualche aspetto misterioso e l’inchiesta brancola nel buio.
Nel vicino Friuli si scopre, tra le montagne, una zecca clandestina specializzata nella stampa di corone austriache. Un vero e proprio romanzo, un feuilleton assolutamente in piena regola: le macchine litografiche sono nascoste in caverne, si scoprono ben presto complicità eccellenti con arresti altrettanto eccellenti. C’è perfino una torbida storia d’amore tra uno dei falsari e la dipendente di una tipografia e si arriva addirittura al rito liberatorio di bruciare pubblicamente le banconote false.
Ma nessuna di queste vicende riesce a scuotere tanto gli animi, come l’omicidio perpetrato da Pietro Bianchet a danno della sua padrona.
È una sorta di epopea dalle mille emozioni, un grande affresco sociale, un poderoso e intrigante romanzo di appendice dal finale aperto e atteso con ansia e perfino con angoscia. Che sarà del povero pisnente? Come sarà giudicato il suo gesto omicida? Si terrà conto delle radici profonde che lo alimentano con la rabbia dello sfruttamento, della miseria e dell’ignoranza?
Di contro. Sarà data soddisfazione ad una intera classe sociale, ferita, deturpata, offesa e oltraggiata? Sarà, il processo, l’occasione per ridimensionare e comprimere il malumore delle classi subalterne? E sarà restituita dignità alla vittima?
Il processo trasforma giorno dopo giorno, testimonianza dopo testimonianza, Linda Onigo, la vittima, in carnefice. Lei tirchia, avara, sordida, miserabile, gretta: un ritratto certo eccessivamente duro per una donna provata dalla vita e indurita da esperienze terribili. Si capisce che quella morte se l’è voluta, se l’è cercata. È lei la vera condannata, non Bianchet.
Il processo ha radicalmente ribaltato i ruoli.
In qualche modo, magari confuso e ancora indecifrabile, si avverte che quell’11 marzo 1903 ha fatto girare la storia. Che non ci sarà la possibilità di tornare indietro.
UN SECOLO SOTTO CATTIVI AUSPICI
L’UCCISIONE DI UMBERTO I°
Novecento: fu salutato alla sua nascita come il secolo della pace, della ragione, della pacificazione. Il simbolo era la parigina torre Eiffel, costruita nel 1889 per l’esposizione mondiale, destinata a vita effimera e invece mai smontata: doveva in qualche modo essere una saldatura, un ponte tra il passato e il futuro, il segno fisico di una civiltà pacifica, costruita sui nuovi valori positivi che la società capitalistica andava organizzando. Non è un caso che, nei primissimi anni del secolo, proprio a Parigi, Filippo Tommaso Marinetti pubblichi il Manifesto del Futurismo che vuole esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
Perché il capitalismo ha spesso il volto bieco e il passo sinistro dello sfruttamento, del colonialismo e, come aveva ben compreso Marinetti, della competitività e dell’aggressività.
Evidentemente sarebbe stato, a dispetto di tutte le attese, un secolo di guerra e di sangue.
E del resto il Novecento si era aperto sotto foschi presagi.
Il 29 luglio 1900, poco dopo le 10 e 30, un filatore di seta toscano, Gaetano Bresci, balzò sul predellino della carrozza del re Umberto I, intervenuto ad un congresso ginnico a Monza. Non era per stringere la mano al suo re, sulle ali dell’entusiasmo.
Bresci sparò ad Umberto tre colpi con una rivoltella di piccolo calibro, tirata a lucido e rinvenuta, ancor calda, di lì a poco da un pompiere, sul luogo stesso del delitto. Il primo colpo ferì il re al collo, il secondo ad una scapola, il terzo andò a vuoto. Altri tre colpi rimasero in canna. Qualche istante prima di essere aggredito, Umberto aveva detto al generale Ponzio Vaglia che gli sedeva vicino: “Era molto tempo che non assistevo in mezzo al mio popolo ad una dimostrazione di simpatia così cordiale”. Furono le ultime parole che pronunciò.
CROLLA “EL PARE DE TUTI I CAMPANILI”
E un altro minaccioso auspicio aveva segnato, soprattutto per i Veneti, l’esordio del secolo. Accade la mattina del 14 luglio 1902 nel cuore di Venezia, in Piazza san Marco.
Da tempo il campanile fa vedere crepe, fa sentire scricchiolii, di tanto in tanto spande nell’aria uno spolverio di calce e mattoni marci. Alle 9 e 45 una guardia municipale, messa lì a tenere distante la gente, alza il naso e sussurra: Mi digo che no pasa sinque minuti e qua vien so tuto.
Non passarono neanche quei cinque minuti. Come un enorme castello di carte, il campanile si ripiegò su se stesso. Per un lunghissimo istante la cuspide con le campane e l’angelo fluttuò nell’aria, poi il letto di macerie che già si era formato la inghiottì in una apocalittica nuvola di polvere.
L’angelo, portato dal caso ad un rimbalzo strano, andò a rotolare nell’emiciclo della porta principale della basilica.
Delle cinque campane, solo una, la Marangona (ai suoi rintocchi, i marangoni, cioè la maestranze delle varie arti, cominciavano e finivano il lavoro), emergeva tra le rovine. Come le altre, fu rifusa e il bronzo entrò nel metallo delle campane del ricostruito campanile. L’inaugurazione avvenne nel giorno di san Marco del 1912: le campane fecero tempo a scandire le ore tragiche della guerra.
Il crollo era atteso e non ci fu nessuna vittima, ma il colpo fu terribile soprattutto dal punto di vista morale. Era caduto el paron de casa, el pare de tuti i campanili, come lo chiamava la gente di Venezia.
Venezia sospende ogni festa in calendario, ogni concerto, ogni spettacolo pirotecnico. La stessa festa del Redentore si celebra in sordina. I giornali riempiono pagine e pagine di indagini, liste di sottoscrizioni e contributi, aneddoti.
E curiosità, tante curiosità: il Gazzettino del 19 luglio sostiene che i suicidi dal campanile sono stati 102, l’ultimo nel luglio del 1888, un pompiere, tale Massari.
ARIA DI GUERRA
GRANDI MANOVRE A TREVISO
Ma soprattutto tira aria di guerra. La Germania, che ha al governo Bernhard von Bulow, vara una legge sul riarmo navale che stanzia enormi risorse per la progettazione di nuove tecnologie navali e soprattutto per la costruzione di nuove corazzate. La Francia occupa varie oasi nel Marocco, infuria la guerra anglo-boera, con l’Inghilterra impegnata anche in Nigeria e a controllare le turbolenze delle popolazioni dell’Ashanti. E in Cina infuria la rivolta dei boxers: il 14 agosto 1900 un corpo di spedizione di 16mila uomini (ci sono anche Italiani) entra in Pechino e costringe alla fuga la corte cinese. La Russia coglierà l’occasione per occupare con 100mila uomini la Manciuria.
Il 2 luglio 1900 sale per la prima volta nei cieli un altro simbolo destinato a diventare tragicamente famoso: il conte tedesco Ferdinand von Zeppelin collauda il primo dirigibile a scheletro rigido.
L’Italia, che nell’ultimo decennio del secolo precedente ha vissuto una devastante esperienza coloniale, è inserita nella Triplice. Il nuovo re Vittorio Emanuele è un triplicista convinto (anche se flirta con la Francia per il reciproco riconoscimento dei rispettivi interessi in Tripolitania e Marocco) e anzi rilancia con gli alleati l’egemonia italiana su Adriatico e Mediterraneo.
Il Gazzettino del 4 settembre 1903 riporta con grande evidenza e con un titolo a tre colonne (su cinque: LE GRANDI MANOVRE/ I SUCCESSI DEL PARTITO INVASORE) la notizia delle manovre che l’esercito italiano sta svolgendo nella parte settentrionale della provincia di Treviso.
Il comunicato ufficiale dell’esercito: per oggi è intendimento del comandante del III corpo d’armata (azzurro nazionale) di forzare l’entrata di Quero, agendo sulla stretta del Piave, con la 6° divisione, con la brigata Pisa, sostenute dalle batterie delle truppe suppletive; sulla sinistra del Piave con la brigata Toscana, per monte Perlo su Segusino e col battaglione Feltre e la 14° batteria da montagna da monte Orsere. La divisione di cavalleria ha l’ordine di spingersi sulle retrovie della 10° divisione avversaria; il 12° bersaglieri ed il battaglione Gemona, ritirandosi sulle alture di san Salvatore, devono proteggere i ponti della Priula. D’altra parte è intenzione del comandante del V corpo invasore rosso) di attaccare colla divisione di milizia mobile, colla 9° divisione e col 6° bersaglieri l’avversario per occupare le posizioni di sbocco di val Piave e di procedere con la 10° divisione verso i ponti della Priula collegando le due masse con la brigata di cavalleria.
Vincono i rossi. Sono coinvolte Conegliano, Montebelluna, Cornuda, santa Lucia, Pederobba e Valdobbiadene. Ma l’episodio più clamoroso avviene a Susegana dove gli azzurri difendono a lungo la sede municipale: Si spara sul serio, ovviamente, tanto che il tricolore che sventola dalla finestra principale del Municipio ne risulta tutto “bucherellato”.
Da un casotto del Monfenera, dal quale in tempi normali si spara alle nuvole di grandine, assiste alle manovre re Vittorio Emanuele III, in compagnia dei generali Brusati e Saletta e dell’ammiraglio De Libero. Sulla piana sottostante un intero esercito mostra i muscoli, ma tutti gli obiettivi delle macchine fotografiche sono per lui. L’evento viene gestito con grande senso della risonanza massmediatica. I giornali sguinzagliano inviati e corrispondenti nei vari scenari di operazione. I commenti sono improntati ad entusiasmo e compiacimento di fronte a quella esibizione muscolare. Sembra di sentire certa retorica militarista dei giorni nostri. Di passaggio a Treviso, nelle ore successive, il re si reca a far visita all’istituto Turazza.
Quegli stessi luoghi, pochi anni più tardi saranno teatro di una immane tragedia.
UN PROCESSO PER PELLAGRA
UN VENETO DEVASTATO
La pellagra era immagine ed emblema dello sfruttamento di cui fu vittima Pietro Bianchet.
Raramente una malattia ha segnato tanto un’epoca, una regione, un popolo. Una malattia che non c’è, verrebbe da dire, a giudicare dal fatto che i pellagrosari (locande sanitarie, come si diceva una volta) aprivano a periodi fissi, variavano semplicemente la dieta dei poveri pellagrosi, li rimettevano in qualche modo in sesto, poi chiudevano i battenti.
Questa piaga sociale era stata studiata per la prima volta nel 1735 da Gaspare Casal e ne aveva osservato i devastanti effetti anche Goethe, scrivendone da Verona il 14 settembre 1786.
Era una sorta di marchio servile che denunciava il suo stato di avanzamento dal grado di desquamazione della pelle. Ma tutti sapevano che la pellagra non si limitava a rendere la pelle dura, squamosa e fragile come la crosta morta di un albero.
Entrava anche nel cervello, modificava la sensibilità, affievoliva i ricordi. Toglieva la voglia di lavorare, dava insonnia, bruciava la lingua. Spesso lo sbocco era il suicidio. Ci si impiccava ad una trave della teda, lontani dagli occhi degli altri, o ci si buttava nel fiume. Il fatto è che nel cibo dei contadini mancavano alcune sostanze organiche (la niacina che è una vitamina e il triptofano, un amminoacido) di cui sono ricche verdure e latte.
E tutti i cereali, meno il granoturco, cioè la base dell’alimentazione dei contadini. Il male della polenta, insomma.
Ma le cause, che erano sotto gli occhi di tutti, non per questo erano anche evidenti.
Una delle spiegazioni addotte era la tossicità del grano una volta che questo avesse subito un deterioramento. Qualcun altro sosteneva che la pellagra era ereditaria.
L’una e l’altra ipotesi tornavano in ogni caso comodissime perché impedivano di dire che sarebbe bastata una alimentazione migliore, più variata e ricca, a far regredire e sparire la malattia. Ma questa spiegazione avrebbe innescato terribili tensioni sociali.
Nel 1905 in Italia si registrano 46.984 casi di pellagra (ovviamente denunciati e dunque senza tenere conto del sommerso). Ben 27.781 sono nel Veneto: quasi il sessanta per cento!.
All’osservatore moderno il processo veneziano a carico di Pietro Bianchet, appare come un vero e proprio processo per pellagra.
MARZARI,
UN GIORNALISTA D’ASSALTO DI 200 ANNI FA
Erano la miseria e la fame che gli agrari veneti imponevano ai propri fittavoli, a fornire il terreno sul quale la malapianta della malattia si riproduceva e cresceva rigogliosa.
Chi denunciava questa realtà era costretto al silenzio con metodi spesso brutali. Treviso, in questo campo, ha una storia da raccontare: una storia accaduta esattamente e incredibilmente un secolo prima del processo.
Treviso, nel 1807, vide nascere, in un contesto culturale illuminato e attento al nuovo, un giornale di buon respiro italiano ed europeo. Si trattava del Monitor e ne era direttore e principale (se non unico) redattore, un battagliero medico e studioso che rispondeva al nome di Gian Battista Marzari.
Nel 1808 Marzari fu privato della direzione e ridotto, dunque, al silenzio. Era stato colpito per aver preso posizione, dalle pagine del suo giornale, sulla pellagra.
Ma se si va a leggere quello che Marzari aveva scritto sulla pellagra, c’è da restare allibiti. Di fatto non aveva scritto nulla che potesse colpire qualcuno o qualcosa.
Però…
Nel 1810 Marzari farà uscire, per i tipi della stamperia veneziana Parolari, il Saggio medico politico sulla pellagra o scorbuto italiano. Nel 1815 ribadirà le tesi di quel Saggio, in un corrosivo libello Della pellagra e della maniera di estirparla in Italia.
Basta scorrerli per capire. Il Saggio era già pronto nel 1806. Ecco perché nel 1807, appena parla di pellagra, gli balzano addosso. Marzari sostiene e dimostra al meglio delle cognizioni mediche e scientifiche dei suoi tempi, che la pellagra è endemica; che è una malattia nuova; che è apparsa da qualche decennio assieme all’abitudine prevalente a nutrirsi di granoturco; che non è ereditaria; che è malattia rustica e non civica; che, infine, non è contagiosa. Tutti colpi inferti a teorie troppo comode sulla genesi del morbo.
Poi incalza: non è vero che ci sono soggetti particolarmente predisposti ad essa, a meno che non si voglia chiamare predisposizione lo sfinimento per miseria. Quanto ai rimedi, l’illuminista Marzari sosteneva che essi dovevano essere principalmente tre: una migliore istruzione dei contadini, una panificazione economica e sorvegliata da esperti, la soppressione della mendicità.
Insomma Marzari aveva compreso ogni cosa. Sosteneva che due sola ova giornalmente mangiate basterebbero a impedire la pellagra.
Ma il Saggio del dottor Marzari doveva rimanere per sempre sepolto negli archivi e nelle biblioteche. La condanna all’oblio l’aveva decretata l’autore stesso quando, con rabbia malcelata, aveva gridato, nella premessa del suo studio: io non ho mai veduto che il parroco, l’agente, il notabile che vivono in campagna con i pellagrosi, che bevono la stess’acqua, che respirano la stess’aria e calcano la stessa terra, l’abbiano avuta…
PISNENTE, BISNENTE
Non si sente più, questa parola, in uso dalle nostre parti almeno fino al primo dopoguerra (cioè fino agli anni Venti e Trenta). Giuseppe Boerio, nel suo Dizionario del Dialetto Veneziano, rinvia al termine masenente e spiega così: voce agraria, bracciante o povero giornaliero, cioè quel villico che va a guadagnarsi il pane lavorando a giornata. Fu detto “masenente” perché tali contadini erano obbligati a pagare il macinato. In altri luoghi di queste provincie dicesi “bracente”, “pisnente” e “coletabile”. I dizionari moderni (Bellò, Pianca) ribadiscono che i termine vale “miserabile”, “nullatenente”. Sull’etimo non si pronuncia nemmeno il Dizionario etimologico Durante/Turato.
Personalmente concordo con l’etimo suggerito da Ulderico Bernardi (Abecedario dei Villani): pisnente è il corrispondente dialettale di “pigionante”. In particolare è colui che ha in affitto un pezzo di terreno così piccolo che non lo può sfamare. Il pisnente deve dunque andare a giornata, mendicare e trovare qualche fonte di reddito integrativa. Un miserabile, davvero.
Ma, ad essere infallibile, è soprattutto l’orecchio popolare che spiega così: pisnente vale “peggio che niente”. E là ove si pronuncia bisnente, con la iniziale sonora, equivale a “due volte niente”.
CAMMINANDO PER TREVISO
CON ANTONIO SANTALENA
….Il palazzo d’Onigo come sorgente sopra una collinetta, che digrada al fiume, tutta piantata a magnolie, conifere, mimose. È questa la parte della città più allegra ed amena, passeggiata bellissima che molte maggiori città invidiano a Treviso.
La Treviso degli ultimi anni dell’Ottocento ci è descritta in una deliziosa, puntigliosa e ricchissima Guida di Treviso, scritta per colmare una lacuna particolarmente avvertita in città, visto che la precedente Guida di Treviso era di mano dell’abate Luigi Bailo e risaliva al 1872.
Il volumetto esce nel 1894 e sarà a lungo ripubblicata. Lo studioso trevigiano (che muore nel 1911) dedica tutta la seconda parte del suo libro ad una serie di passeggiate attraverso la città.
Come si legge, passando in Riviera Margherita, davanti a quello che sarà il luogo del delitto Onigo-Bianchet, Santalena fa prevalere, come in poche altre parti della sua Guida, i toni idilliaci e, ci verrebbe da dire, gli stereotipi di questa città, calmo e tranquillo paradigma della vita in provincia. Ovviamente nessun presagio del fosco dramma di qualche anno più tardi.
Così ci viene voglia di passeggiare con l’autore. Che immagina, nella sua prima passeggiata, di partire dalla stazione e raggiungere Piazza dei Signori.
Appena usciti dalla stazione l’impressione che deve provare il viaggiatore è certamente gradevolissima. Nessuna grandiosità di fabbricati, ma strade larghe e pulite e viali fiancheggiati da magnifici ippocastani. A destra i giardini pubblici lambiti da un ramo del Sile, non vasti ma ben disegnati e convenientemente tenuti con belle macchie di alberi sempreverdi e di fiori nella bella stagione. Nel piazzaletto principale vi è un busto di Garibaldi, dello scultore Carlini. A sinistra il fossato della vetusta mura è pur ridotto a giardino e annosi alberi quasi tutto ricoprono il bastione dell’antico castello sul quale frondeggia un boschetto.
…Si arriva così alla Barriera Vittorio Emanuele opera dell’architetto municipale Bomben, dopo la quale si infila a sinistra il borgo omonimo. A destra la vecchia porta Altinia in rovina….
Piazza dei Signori, o Maggiore che è il centro della città. La sua forma è irregolare, ma la maestà e la grandiosità di taluni edifici le danno un aspetto singolare e piacevole. Subito a destra l’edificio detto della Gran Guardia, ora sede del civico corpo dei pompieri; sotto il governo austriaco corpo di guardia militare e corpo di guardia della milizia nazionale nei primi anni dell’unione di Treviso al Regno d’Italia. Venne eretto nel 1826. Le colonne dell’atrio erano nel palazzo Lezze, opera del Longhena a Rovaré.
“MAL MORTA, MA BEN COPADA”
TUTTO UN POPOLO DALLA PARTE DELL’ASSASSINO
Il processo Onigo vide un compatto, inatteso consenso di popolo attorno alla figura dell’assassino Pietro Bianchet, avvertito dalla sensibilità diffusa tra la gente come il protagonista (peraltro del tutto inconsapevole) di una sorta di piccola rivoluzione. Tale era la pressione popolare che il processo venne spostato dalla sua sede naturale che era Treviso, a Venezia.
Fu probabilmente, nella logica dell’aristocrazia e del padronato agrario, l’errore più grossolano che si potesse commettere: Venezia divenne una cassa di risonanza internazionale. Il Tempo, quotidiano nazionale della sinistra, innalzò la bandiera della lotta di classe e fece di Bianchet un eroe popolare. Giornali da tutto il mondo mandarono un loro inviato o sollecitarono corrispondenze dal processo.
La gente di Venezia affollava con barchini di ogni specie i canali attigui alla Corte d’Assise, tra Rialto e Naranzeria. Tumultuavano e, al passaggio del barcotto chiuso che trasportava Bianchet in ceppi alle udienze, gli urlavano di farsi coraggio, che la gente era tutta con lui. Addirittura volavano minacce e insolenze rivolte ai gendarmi che lo custodivano.
Gli eventi, naturalmente, spinsero tutti a giocare i numeri suggeriti dalla cabala al lotto, con fila e ressa davanti ai botteghini.
E gli umori della gente trovarono una sintesi assoluta nella battuta di un sensale di cavalli che, bevendo un’ombra al Caffè della Stella, poche ore dopo il delitto, in una Treviso sotto choc, ebbe a dire di Teodolinda Onigo: “Mal morta, ma ben copada”.
IL DELITTO E LE OPERE PIE DI ONIGO
La mamma di Linda, Caterina Jaquillard Onigo, sopravvisse, malata e cieca com’era, pochi mesi alla figlia. Era nata in Svizzera, ad Yverdon, dove aveva conosciuto Guglielmo Onigo, che l’aveva sposata legittimando Linda e alimentando dicerie sulla effettiva paternità della bambina.
A Caterina venne detto dell’«incidente», ma le furono taciuti i particolari. Un duro colpo per la vecchia, la quale raccomandò a tutti che al processo doveva essere fatta giustizia fino in fondo, che non si poteva lesinare sulle spese.
Tuttavia la vecchia signora dovette intuire quanto male e quanto dolore fossero celati nella vicenda che aveva condotto alla morte della figlia. Volle riparare, in qualche modo.
Così, giovedì 14 luglio 1904 (dunque a processo concluso: non è dato sapere quanto le fosse stato riferito delle fasi del dibattimento e della sentenza), alle ore tre e cinquanta del pomeriggio convoca nel palazzo Onigo di Pederobba il notaio Roberto Chiavacci di Grespano per annullare tutte le disposizioni testamentarie date fino a quel giorno e, in buona sostanza, per redigere un testamento del tutto nuovo.
Testimoni sono un piccolo imprenditore, Giovanni Bardin, un mugnaio, Luigi Trinca, un impiegato dei telegrafi, Giovanni Tovena (tutti e tre di Pederobba) e un “regio pensionato” di Bottrighe, Giuseppe Cappati.
Il testamento che la Onigo detta è di fatto l’atto costitutivo delle Opere Pie di Onigo. Infatti istituisce a eredi universali due istituti di beneficenza “che intendo fondare e istituire con questo mio testamento: 1) un ospitale per i poveri infermi dell’intero comune amministrativo di Pederobba; 2) un asilo infantile. Questi due istituti avranno il nome generico di Opere Pie di Onigo”.
L’ospedale sorgerà, secondo le disposizioni testamentarie, nella località detta il Mass (vicino alla tomba della figlia e del marito, cui sarà intitolato). L’asilo invece troverà ospitalità nella palazzina presso la chiesa di san Giovanni in Onigo. Caterina Jaquillard Onigo stabilisce che sia intitolato a lei stessa.
Caterina non firma “in causa di una malattia agli occhi che non mi consente di vedere quanto all’uopo è necessario”.
Il testamento contiene una curiosità. Alle Opere Pie “non si faranno distinzioni di religione e vi saranno ammessi sia cattolici che i non cattolici”. La precisazione, dall’aria innocua, appare invece particolarmente importante se si pensa che gli Onigo erano di religione valdese. Anzi, come è dimostrato da carteggi epistolari tuttora inediti, i valdesi veneziani e della casa madre di Torre Pellice avevano puntato molto sul patrimonio di Caterina e sulla loro presenza presso le Opere Pie.
Furono scontentati anche loro, come rimasero a bocca asciutta tutti i parenti che videro confluire il patrimonio nei due istituti.
TERRA DI EMIGRAZIONE
Gli anni a cavallo del secolo sono segnati da un vero e proprio esodo verso il continente americano.
Il Gazzettino dell’8 marzo 1904 (proprio i giorni del processo veneziano) pubblica in cronaca di Belluno, una lettera proveniente da Le Havre e datata 4 marzo.
La lettera è firmata da 16 emigranti cadorini, bloccati nel porto di Le Havre da una usuale, drammatica storia di burocrazia. I 16 dicono di scrivere a nome di altri 300 bloccati nel porto francese. Tutta gente che ha stipulato il contratto di viaggio in Francia, invece che direttamente in Italia.
Facile immaginare storie di clandestinità e di disperazione dietro a questa decisione di acquistare il biglietto direttamente nello stato da cui si parte.
E infatti gli emigranti devono subire visite mediche, non meglio precisate vaccinazioni, meticolose e pignole verifiche dei documenti. Col risultato che altri passano davanti a loro, tutti i posti di terza classe vengono occupati e alla fine, se vogliono salire a bordo, devono pagare un supplemento di 100 lire per occupare un posto di seconda.
Scrivono al giornale: Le condizioni in cui versa l’emigrante respinto per mancanza di posti all’Havre non è di quelle più lusinghiere certo, per lo più senza conoscenza della lingua francese egli è obbligato a ricorrere agli strozzini connazionali o che parlano la lingua italiana, i quali poi per pelarlo non hanno bisogno di aiutanti e così il disgraziato emigrante si vede il già scarso peculio diminuirsi di non poco e quando arriverà a Nuova York si vedrà forse respinto per insufficienza di mezzi di sussistenza.
Ce lo vediamo questo popolo impotente, costretto all’inerzia, in balia di una lingua che non conoscono e degli strozzini, autentici predoni e grassatori.
Interpellano il console italiano il quale allarga le braccia: non può farci nulla. Bisogna aspettare il transatlantico che parte tra una settimana. Sperando (ma non è detto) che le cose vadano meglio. Sperando di sopravvivere. Chiudono così la loro lettera: Intanto qui sono 300 emigranti respinti e altrettanti rimarranno di quelli che con noi dovrebbero partir domani e così ogni otto giorni si ripete la medesima cosa.
IN QUEL 1903 GIOLITTI , PAPA SARTO,
IL TOUR DE FRANCE E IL PRIMO VOLO
Il 20 luglio muore papa Leone XIII. Gli succede, col nome di Pio X, il trevigiano Giuseppe Melchiorre Sarto. È il 4 agosto.
In ottobre crisi di governo. Cade Zanardelli e prende il suo posto Giovanni Giolitti. Comincia quella che è denominata l’età giolittiana: il politico di Mondovì rimarrà al potere, quasi ininterrottamente, fino al 1913.
In Francia su iniziativa di un avvocato parigino poco incline a praticare le aule giudiziarie, Henri Desgrange, si corre il primo Tour de France. Una bicicletta da corsa costa ancora una enormità (una Raleigh sulle 100 lire, una Bianchi sulle 150) ma l’entusiasmo è alle stelle soprattutto perché questo sport offre a persone di bassissimo rango la possibilità di emergere. Ma, con raro spirito profetico, Cesare Lombroso (come apprendiamo dalla Gazzetta dello Sport del 18 aprile 1903) proclama che la passione per il pedalare trascina al furto, alla truffa, alla grassazione.
Altra “prima” di Francia: viene assegnato per la prima volta il premio Goncourt, oggi forse il più prestigioso premio letterario europeo.
Tra Londra e Bruxelles tiene il suo congresso il Partito Socialdemocratico russo: si spacca in due tronconi con i bolscevichi di Lenin da una parte e i menscevichi di Aksel’rod, Martov e Plechanov dall’altra.
Jack London pubblica uno dei più bei romanzi del Novecento, un romanzo che ha fatto sognare intere generazioni: The call of the wild (Il richiamo della foresta). Zanna Bianca sarà pubblicato tre anni dopo. In quello stesso anno 1903 il Congresso degli Stati Uniti, davanti al massiccio sfruttamento delle miniere d’oro del Klondike, approva una legge per la concessione di terre in Alaska.
Nasce il cinema di azione e di avventura: la primogenitura spetta a The Great Train Robbery che racconta l’assalto ad un treno e la successiva caccia ai banditi. Il film , che fissa i fortunati archetipi del genere western, è girato dal regista Edwin S. Porter che lavora su un brevetto del grande inventore Thomas Alva Edison.
Il matematico svedese Erik Ivar Fredholm formula la teoria delle equazioni integrali.
Il 17 dicembre i fratelli statunitensi Orville e Wilbur Wright compiono il primo volo. Il biplano impiegato resta in aria pochi metri e l’elica è mossa da un motore a benzina a quattro cilindri.
1903, anno delle riviste culturali: Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini fondano a Firenze una delle più importanti riviste letterarie del nostro Novecento, Il Leonardo. Durerà fino al 1907. Sempre in questo 1903 Benedetto Croce, con la collaborazione di Giovanni Gentile, fonda un’altra prestigiosa rivista letteraria, La Critica. E ancora: un’altra rivista importante, Il Regno, voce dell’estremismo nazionalista, viene fondata a Firenze da Enrico Corradini.