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1909 Delitto a Filò
(Ed. La vita del popolo, 2003)
In copertina: Rachele Tognana, Ritratto di bambino, olio su tela, anni Trenta
Gian Domenico Mazzocato,
con questo
1909/Delitto a filò
ci regala un’altra
straordinaria pagina
della misconosciuta storia veneta.
 
Ancora una tessera
di quella scoperta della
“saga dei vinti veneti”
che scrittori come Fulvio Tomizza
e Luca Desiato hanno indicato
come la caratteristica prima
della narrativa dello
scrittore trevigiano.

 

DELITTO A FILÒ rievoca un fatto veramente accaduto nella campagne venete attorno al Montello nel 1909. Un giovane non ancora maggiorenne uccide durante una riunione serale a filò un amico per futili motivi. Un colpo di coltello che tronca la vita della sua vittima, ma anche la sua.
Il giovane protagonista ha già alle spalle una storia disperata di emigrazione ed alcolismo: una vicenda di grande impatto drammatico ed emotivo. Una storia, anche, di grande attualità.
Gian Domenico Mazzocato, usando gli strumenti espressivi già impiegati per IL DELITTO DELLA CONTESSA ONIGO, ricostruisce in presa diretta e avvalendosi degli atti giudiziari, il processo che fu intentato al giovane assassino.
L’autore indaga con acutezza i motivi che portarono ad una sentenza molto discussa: una sorta di giallo giudiziario all’italiana che riconduce i Veneti e i Trevisani a riscoprire una pagina sconosciuta della propria storia e delle proprio radici.
Una microstoria che la grande storia, quella dei libri ufficiali, ha, come al solito, dimenticato.

6 gennaio 1909, sera.

Su Giavera, piccola frazione del comune di Arcade, scende il vento umido e freddo che viene da oltre il Montello. Qui le ombre della sera calano anche più in fretta, d’inverno. Nell’aria ristagna l’odore aspro dei falò accesi la notte prima. Qualcuno giura di vedere perfino qualche faliva rossa volare nel buio.
La redodesa, la povera befana di queste genti, se l’è perfino dimenticata la strada di Giavera, la pedemontana collinare che conduce da Montebelluna a Nervesa, il primo porto di pianura lungo il corso della Piave. Un’arteria frequentata dunque, e di buon movimento.
Le osterie tengono accesa la loro lanterna fino a tarda ora. La tradizione vuole che i falò incendino la notte dell’epifania per mostrare la strada ai Lorienti, i re Magi della tradizione cristiana. Il vento gelido della notte alza le falive e la direzione che esse prendono dice se sarà una buona annata o se bisogna attendersi ancora stagioni agre, di fame.
I paesani, in questo clima di piccola festa, fanno il giro delle osterie, bevono qualche bicchiere, tornano a casa per la cena. Poi, un po’ qua un po’ là, si ritrovano a filò.
Filò anche a casa di Giuseppe Spinetta, un massariotto di Giavera, che gode di una relativa agiatezza.
Possiede una stalla grande, potrebbero starci fino a trenta capi, e perfino in anni così duri lui riesce ad averne anche una decina.
Il locale è basso, molto lungo, i convenuti a filò stanno ad una estremità, vicino alla porta, nel debole cerchio di luce di una lanterna. Sette, forse otto persone.
Chiacchierano, fumano, giocano a carte. Tutto il resto è immerso nella penombra.
È un buon filò, perfino di prestigio, perché vi partecipa anche quella che viene considerata da tutti la più brava persona del paese. Si chiama Andrea Bianchetti, ha 38 anni e fa il fabbro.
I partecipanti sono arrivati alla spicciolata, poco dopo le otto.
Tra di loro anche i due fratelli Barbisan, Antonio e Abramo, entrambi giovanissimi, 17 anni il primo, 14 il secondo. Antonio fa il falegname, dicono che ha le mani buone.
Anche se, quelle mani, è decisamente troppo svelto a metterle in movimento. Giovane com’è, può già raccontare una brutta storia di emigrazione.
In Germania è andato a lavorare. Si vanta, talora, della sua esperienza tedesca. Biascica anche qualche parola cruca. Lì, in Germania, ha imparato a bere duro, a ubriacarsi alle svelte.
E soprattutto, una rissa dopo l’altra, ha imparato a maneggiare il coltello, che reca sempre in scarsella, pronto a dirimere qualche controversia, facendolo brillare davanti agli occhi di chi non gli va a genio. Qualcuno dice che dalla Germania si sia portato anche una pistola.
Di porto d’arme, neanche parlarne.
In queste zone il coltello è una sorta di appendice naturale. Le risse sono frequenti.
Il brigadiere dei carabinieri Carlo Adami e il milite Federico Cecconello hanno il loro bel da fare a sedare risse e a sequestrare armi da taglio. Coltelli, punteruoli, britole e roncole, va bene tutto.
Antonio Barbisan è piccolo di statura e minuto, mingherlino anzi. Taciturno e chiuso, guarda tutti dal sotto in su. Non si direbbe proprio che sia così facile ad accendersi, a farsi prendere dai fumi dell’ira.
Quella sera di piccola festa, lui ha già fatto il giro delle osterie, una prima di cena, tre dopo. Ha bevuto quello che capitava, in compagnie occasionali, ogni volta diverse. Ha mescolato bianco e nero, senza criterio, e in fretta.
Gli ultimi bicchieri, prima di recarsi a filò, li ha trangugiati lì a due passi, nell’osteria di Vittorio Coletti, quasi un litro. Entra nella luce incerta della stalla di Spinetta. Dietro di lui strascica i piedi suo fratello Abramo. Hanno il passo incerto, destano qualche commento, un po’ di sorriso ironico.
Forse è qui che comincia l’ira sorda di Antonio.
Si siede, un paio di volte scivola dalla sedia. Ma da queste parti bere è un’abitudine e il criterio per decidere se uno è davvero pieno stonfo o no è guardare se si regge decentemente in piedi. Al processo una testimone dirà che Antonio era bevuto sì, “ma imbriago da ‘ndar par tera, no”.
Abramo, il fratello più piccolo, cerca di darsi un contegno e tira fuori una “fuma”.
Chiede al fratello maggiore una presa di tabacco per riempirla e a quel punto Antonio si accorge che la pipa che il fratello stringe in pugno è sua. La rivuole indietro, di dargli il tabacco nemmeno sognarselo.
Antonio, anzi, si butta su Abramo e comincia a picchiarlo, una furia scatenata. Pugni, schiaffi, calci. Un “remenon” in piena regola, insomma.
Poi si ferma, col cuore in bocca, ansima. Si tira indietro e accende un fiammifero, perché, vuole farsela lui una fumatina, con la sua pipa appena recuperata.
Mette in bocca la pipa, morde con rabbia il cannello, alza lo zolfanello che gli illumina il volto. Ha una espressione terribile, stravolta. Sembra che voglia buttarsi di nuovo sul fratello.
È a questo punto che si intromette Andrea Bianchetti, il fabbro benvoluto da tutti.
Non si picchia così un ragazzo, un bambino anzi, gli dice. È alto e robusto, Andrea, le sue braccia allenate alla forgia mettono paura. Ma Antonio ha perso ogni ritegno e butta in faccia all’uomo che lo sovrasta di tutta la testa, il fiammifero acceso. Alzano le mani, un po’ gridano.
Uno spintone, un altro spintone. Si allontanano verso il fondo della stalla, dove ci sono i mucchi di strame per le bestie.
Lì, la luce fievole della lanterna proietta ombre lunghe. I due che si fronteggiano sembrano mostri nel buio. Qualcuno intuisce il dramma che sta per scoppiare. È Giuseppe Spinetta, il padrone della stalla. Si butta avanti per fermare i due.
Troppo tardi.
Quando cerca di dividerli, Antonio ha già fatto un passo indietro. Brandisce il suo coltello, sporco di sangue. Spinetta vede il sangue di Andrea schizzare ovunque, molto è già sparso sul pavimento.
Rantola, il fabbro, e sussurra in uno spasmo “El me ga dà ‘na cortelada”. Ha la mano sinistra sulla ferita, tra la spalla destra e il collo, nel tentativo disperato di fermare il sangue
A morire, ci mette meno di mezzora. Spinetta non sa cosa fare. Ripara dal freddo il moribondo coprendolo di strame.
Qualcuno corre a chiamare il medico condotto, Fabris. Quando arriva, il dottore non può che constatare la morte di Andrea Bianchetti. Lo fa trasportare nella cella mortuaria del cimitero di Giavera. Il giorno dopo eseguirà l’autopsia.
Nessuno bada ad Antonio Barbisan.
Il ragazzo è fuggito, ingoiato dal buio della notte montelliana. Attraversa lo stradone del bosco e la Brentella, imbocca una presa della collina, prende a girovagare per il bosco.
Prima, chissà perché, si è spinto fino a casa sua. Forse vuole entrare, chiedere aiuto al padre. Si libera del coltello. E prende a correre.

*****

La Germania dei giovani e giovanissimi emigranti italiani cominciava già al qua di delle Alpi.
Questi sono gli anni in cui scrivono la loro tragica, silenziosa, misconosciuta epopea, le “ciode” e i “ciodeti” del feltrino e del bellunese.
Erano ragazzi, talora di neanche 10 anni, che, all’avvicinarsi della buona stagione, si mettevano in cammino per raggiungere la stazione più vicina e, di lì, Trento e il Tirolo.
Trento, piazza del Duomo. Là, sotto il grande tiglio diventato il tristemente famoso punto di riferimento per centinaia e centinaia di bambini, i possidenti locali assoldavano quella manodopera disperata, la mandavano a raccogliere le messi e a svolgere ogni lavoro, anche durissimo, nei campi.
Un crudele gioco al ribasso, cui oggi daremmo il nome di caporalato.
Qualcuno dei possidenti aspettava i bambini già in stazione, per scegliere i più robusti.
Stremati dal viaggio, i bambini bellunesi trascinavano, in fila e passo dopo passo, i loro zoccoli, sotto i quali, prima della partenza, erano stati impiantati chiodi e chiodi, per resistere alla strada.
Le “ciode” e i “ciodeti” suonavano la tragica canzone della fame, della nostalgia e della solitudine, battendo gli zoccoli per terra.
Diventavano, quei bambini, due volte figli di nessuno.
Perché, al loro ritorno, anche la comunità da cui erano partiti faticava ad accettarli di nuovo. Le abitudini di vita contratte a Trento (e magari i compromessi che, soprattutto le bambine, avevano dovuto accettare) li rendevano moralmente pericolosi.
Più spesso, come nel caso del nostro Antonio Barbisan, la manodopera non qualificata trovava lavoro al di là delle Alpi, in Austria, nelle fornaci di Salisburgo o nei cantieri edili della Germania.
In qualche modo dei privilegiati, perché sui giornali apparivano tragiche notizie di chi, per esempio, aveva osato spingersi più lontano, imbarcandosi su qualche vapore e approdando negli Stati Uniti d’America. A più riprese si legge di decine e decine di bianchi venduti nei mercati di New York, veri e propri schiavi.
Proprio nella Merica, gli Italiani venivano indicati con lo sprezzante nomignolo di Dago, per la facilità con cui si accendevano e tiravano fuori il coltello, la daga appunto.
Quanto ai muratori e ai manovali di Germania, proprio nell’autunno di questo 1909 i Segretariati della Emigrazione italiani cercano di far sapere attraverso ogni canale (ma praticamente l’unica via di informazione sono le lettere che le famiglie rimaste in Italia scrivono ai congiunti lontani) che in Italia sono scaduti i contratti nell’edilizia.
E certo si registreranno scioperi e serrate: meglio dunque che i nostri emigranti non tornino in Italia, che restino dove si trovano, cercando di sopravvivere all’inverno.
Nel Veneto, terra di migranti, la situazione, già di per sé drammatica, è peggiorata dall’alcolismo diffuso e dalle malattie.
La cronaca riferisce ogni giorno di incidenti od atti criminosi attribuibili all’abuso di alcol.
Quanto alle malattie, a infierire sulla popolazione è soprattutto la pellagra. Di questo emblema di un’epoca e di un intero popolo, la medicina ufficiale si ostina incredibilmente a non riconoscere la vera natura, ma c’è anche altro.
Proprio a Nervesa si registrano casi di difterite e di febbre tifoidea.
Da queste parti, poi, lungo la pedemontana, il disagio sociale è ancora più acuto. Qui, le genti montelliane hanno vissuto per quasi mezzo millennio, diaspora ed esilio.
Da nemmeno venti anni re Umberto I aveva firmato la cosiddetta legge Bertolini che riapriva il Montello alla sua gente. Era il 1892 ed erano passati 421 anni da quel 27 dicembre 1471 in cui il doge Nicolò Tron aveva bandito per legge il Montello, riservandone gli usi all’Arsenale della Serenissima, bruciando le case di chi abitava la collina, condannando a pene severissime chi osava entrare nel bosco proibito.
E chissà quali ombre e larve hanno fatto compagnia ad Antonio Barbisan nella notte trascorsa tra le forre e i valloni del Montello, la sua ultima notte di libertà. Forse i fantasmi degli eremiti che avevano fondato e fatta grande l’antica Certosa: in gran numero dormivano il sonno eterno sulla collina. Forse la memoria dei disperati che, tra le foreste di roveri, avevano cercato scampo alla caccia dei gendarmi di Giavera.

*****

Già la mattina del 7 gennaio 1909 – era un giorno grigio, un venerdì di nebbia – fu effettuata l’autopsia di Andrea Bianchetti.
Sono presenti il dottor Fabris, il medico condotto di Giavera, e il dottor Pateo. Assiste il giudice istruttore, avvocato Bagni, che è affiancato dal cancelliere Giuseppe Pallaro.
Il referto parla di un colpo di arma da taglio, probabilmente una roncola, inflitto dall’alto verso il basso, fra il collo e la spalla destra. Una coltellata devastante che ha reciso “l’arteria subclavicolare destra, causando la morte per dissanguamento”.
In quelle stesse ore, infreddolito e disperato, Antonio Barbisan si è consegnato ai carabinieri di Nervesa, che lo chiudono in camera di sicurezza, in attesa di trasferirlo nelle carceri giudiziarie di Montebelluna.
Ancora non sa che il suo colpo è stato mortale, che ha ucciso.

*****

Il processo si celebra a Treviso, in Corte d’Assise, esattamente quattro mesi dopo il delitto.
Quattro mesi non sono molti, eppure a Giavera, ad Arcade, a Volpago, a Selva, a Sovilla, a Montebelluna e a Nervesa sono stati sufficienti a stemperare l’orrore per un evento così tragico. E anche a far sbollire l’odio.
Nella famiglia della stessa vittima, in primo luogo.
L’atto di Antonio Barbisan appare come il gesto inconsulto di un ragazzo che certo non voleva fare tanto male. C’è la consapevolezza che il giovane falegname di Giavera è, a sua volta, più vittima che carnefice.
E tutti riflettono sul fatto che ha ucciso a 17 anni, che non è ancora maggiorenne. E che non avrebbe molto senso distruggerne la vita irrogandogli una pena molto severa.
La giuria sarà dello stesso avviso? La presiede un illustre avvocato di Vittorio Veneto, Giuseppe Segati. Orlandi è il presidente della Corte, l’avvocato Braida ha il ruolo di Pubblico Ministero. Il legale che difende Barbisan si chiama Dalla Favera.
8 giugno, un martedì afoso, senza una bava d’aria.
Il palazzo austero della Corte d’Assise si affaccia su via Canova. Qui aveva sede, un tempo, il municipio e, fino a qualche anno fa, nell’atrio si potevano ammirare stemmi e lapidi in gran numero. Ora tutto è stato trasferito nel Museo.
Il palazzo ha, davanti, il ponte della Roggia e di lì si può raggiungere la cinta muraria di Treviso, con la sua corona di frondosi ippocastani. A destra, invece, si sale verso piazza Duomo. È minuscola, Treviso, e in pochi minuti la si può attraversare tutta.
Non è un processo qualunque, questo, e il pubblico è più numeroso del solito. Rumoreggia, e l’atmosfera è di grande inquietudine. Si vuole fare in fretta, chiuderla alle svelte questa brutta storia.
Antonio Barbisan entra accompagnato dai carabinieri. La porta della gabbia si chiude dietro di lui. Si sente la chiave cigolare nella serratura alle sue spalle. Per un attimo rimane in piedi, gira lo sguardo.
Chi lo conosce lo trova anche più minuto e magro di prima del delitto. Ha i lineamenti tirati, si guarda attorno, con i suoi occhi piccoli, che sembrano capocchie di spillo.
Ha in mano un fazzoletto rosso. Appena seduto, vi tuffa il viso. Ogni tanto ha un singulto.
I giornali avevano scritto che, nei giorni immediatamente successivi al delitto, aveva tenuto un atteggiamento cinico, assente, sprezzante.
Basta guardarlo, per capire che non è possibile. Quell’inoffensivo grumo di vestiti, rannicchiato su una panca, dietro a invalicabili sbarre di ferro, non sembra certo parlare il linguaggio dell’arroganza e della sfrontatezza. E il ragazzo, naturalmente, è reo confesso, anche se nella sua prima deposizione non ha voluto in alcun modo ammettere di essere ubriaco.
Ora sillaba con fatica le sue generalità: Barbisan Antonio di Giuseppe, di anni 18.
Su un tavolo, davanti al presidente Orlandi il coltello a serramanico, l’arma del delitto, otto, nove dita buone di lama.
Alle 10 e un quarto la giuria è già costituita. Orlandi legge il capo di imputazione in un silenzio carico di tensione. Poi comincia con l’interrogatorio. Ha un atteggiamento remissivo, di buona accondiscendenza. È chiaro che vuole tranquillizzare tutti, pubblico, testimoni, giurati e lo stesso accusato.
Cerca di scherzare, perfino. Le impacciate risposte di Antonio gliene offrono il destro.
Barbisan risponde a fatica, lentamente. Si capisce che pensa in dialetto e cerca di tradurre in italiano. Ogni tanto si rifugia nei “non ricordo”, più spesso si limita a qualche “sì”, talora nega.
La ricostruzione processuale del pretesto che ha scatenato la tempesta di botte sul fratello Abramo è leggermente diversa da quella fatta dai carabinieri, sulle testimonianze a caldo. Ora sembra che sia stato Antonio Barbisan a chiedere tabacco al fratello e a riceverne un rifiuto.
Il particolare è sicuramente marginale e Orlandi non insiste sulle contraddizioni.
Comincia col “voi”, poi passa subito al “tu”.
- Dunque Barbisan, sentiamo come è stata.
- Quel giorno, credendo che il Bianchetti venisse per darmi, io mi sono alzato dalla panca, ho tirato fuori il coltello e gli ho dato un colpo per non ammazzarlo.
- Ah, voi date i colpi di coltello per non ammazzare.
- Sì.
- Era venuto tuo fratello e gli avevi domandato tabacco?
- Sissignor.
- E lui te ne aveva dato?
- Nossignor. Allora io ho dato un calcio e due o tre pugni.
- A tuo fratello Abramo?
- Sì.
- Perché gli hai dato i pugni?
- Perché non voleva darmi il tabacco.
- Tu volevi anche la pipa?
- Sì.
- Allora che cosa è successo? A queste parole tu avresti gettato contro il Bianchetti un fiammifero acceso?
- Questo non ricordo.
- Dopo aver dato i pugni ti sei seduto o sei rimasto in piedi?
- In piedi.
- E ti sei messo dalla parte opposta a quella dove si entra e dove c’è poco lume?
- Sissignor.
- Il Bianchetti che cosa fece?
- Veniva incontro per di dietro.
- Perché desti quel colpo?
- Credendo che venisse per darmi gli menai un colpo di coltello. In quel momento non sapevo che cosa facessi, ma credevo di non ammazzarlo.
- Per non ammazzare si fa a meno di adoperare il coltello. È tuo questo coltello?
- Sissignor.
- Lo portavi con te?
- Sì.
- Non hai il permesso del porto d’arme?
- Nossignor.
- Il colpo l’hai dato piano o forte?
- Con un pochino di forza.
- Hai sentito cosa hanno detto i periti, cioè che il colpo deve essere stato inferto con forza, tanto che nella lunga ferita penetrò anche un pezzo di manico? Avevi qualche rancore col Bianchetti?
- Nossignor, si era sempre amici.
- Insomma perché facesti questa storia?
- Al momento non sapevo cosa mi facessi. Ero ubriaco.
- È stato dunque il vino e non tu?
- Sissignor.
- E allora quando si va all’osteria si lasciano a casa i coltelli. Poi che cosa hai fatto?
- Sono scappato.
- Perché sei scappato?
- Perché ho sentito Spinetta Amalia dire: guarda quanto sangue!
- Ah dunque sei scappato quando hai sentito parlare di sangue!

Quella del presidente è più una sottolineatura che una domanda. All’avvocato difensore Dalla Favera pare il momento buono per approfondire la questione dell’ebbrezza.
È evidente che Barbisan ha capito (e magari è stato consigliato in questo senso) che gli conviene ammettere ciò di cui si era vergognato al tempo della prima confessione: era ubriaco fradicio. Chiede all’imputato di descrivere il giro delle osterie e di dire quanto avesse bevuto. Antonio ricorda bene, anche la gran bevuta conclusiva nell’osteria di Vittorio Coletti.
Il presidente ha un mezzo sorriso, lo punzecchia:
- Come fai a ricordarti tutte queste cose se eri ubriaco?
Barbisan butta indietro la testa, sospira. Lui sa bene come succede.
Si beve, si beve con furia senza badare a cosa si manda giù. Si è lucidi fino ad un certo momento, poi di colpo è come entrare in una nebbia fitta, ci si sprofonda in un attimo. Tutto gira intorno, e il mondo sembra crollare. Si è proprio soli e disperati in quel territorio nebbioso.
E non c’è ritorno. Non resta che buttarsi da una parte e lasciarsi prendere dal ronfo forte di un sonno impenetrabile.
Oppure scoppia l’ira furibonda di un “simiton”. E magari si arriva a tirare fuori la britolaccia e menare una coltellata. Così ammazzi uno che ti era amico, e con cui parlavi e ridevi e scherzavi fino ad un’ora prima. Che magari, proprio lui, ti offriva un bicchiere quando non avevi un soldo in tasca.
Barbisan non ha parole per dire tutto questo, risponde come sa:
- Ma prima non ero ubriaco fradicio. La sbornia mi è venuta tutta in una volta.
Tutti capiscono che il processo è già finito qui. Il silenzio in aula è assoluto.
Non c’è che da aspettare la sentenza. L’aula ora è strapiena, ogni angolo è occupato, colmo l’atrio, gente anche in via Canova. La testimonianza dell’accusato è durata meno di dieci minuti. Il pubblico scruta in faccia i giurati. Il volto del pubblico ministero è impenetrabile.

*****

Il presidente, in ogni caso, continua l’escussione dei testi.
Ora è la volta del fratello dell’ucciso, Augusto Bianchetti. Ha 29 anni e non è in grado di chiarire in alcun modo le circostanze del delitto perché si trovava altrove al momento del fattaccio. Ma la sua deposizione lascia il segno ugualmente, e non certo favorevole all’imputato.
Racconta di aver incrociato Antonio Barbisan quando era uscito di corsa, come una furia, dalla stalla. Aveva appena ucciso e a vedere Augusto aveva rallentato il passo. È proprio Bianchetti a tirar fuori il discorso della pistola, altra arma che potrebbe essere in possesso dell’assassino.
Il fatto è che lui è stato suo compagno di lavoro e di emigrazione in Germania, e sa quanto Antonio sia facile ai fumi dell’ira. Magari per un punto alle bocce o giocando a carte, dice.
Riferisce come ha saputo del fratello moribondo, subito dopo aver incrociato Barbisan che fuggiva. Qualcuno dei suoi compagni lo ha chiamato e gli ha detto: “Va’ a vedere tuo fratello”. Lui era entrato e aveva visto a terra Andrea, con gli occhi ribaltati, già in agonia. Vicino aveva il padrone di casa, Giuseppe Spinetta che era riuscito a separare, ma troppo tardi, omicida e vittima.
“Me toca morir par ‘na britolada”, erano state le ultime parole di Andrea tra le braccia del fratello che probabilmente neanche aveva riconosciuto.
Augusto finisce di parlare in un sussurro. Guarda Barbisan, immobile nella gabbia, il capo reclinato tra le mani. Senza odio, Augusto scuote la testa.
Tutto il processo adesso si gioca su come verrà valutata l’ubriachezza di Barbisan, le condizioni di solitudine morale in cui ha maturato la sua assuefazione all’alcol.
Sale sul banchetto dei testimoni Amalia Gasparetti, moglie di Spinetta, la padrona di casa, dunque. È una donna alta, vestita di scuro, con i capelli raccolti in crocchia, fili neri e fili grigi. Il presidente la guarda con simpatia. Da lei si aspetta parole di buon senso, l’occhio critico della madre di famiglia, qualcosa di definitivo sui cui decidere.
Anche Amalia si trova più a suo agio a dire le cose in dialetto. Ha una voce secca, metallica.
- Avete visto il Barbisan prima del fatto? Com’era? Era bevuto?
- Qualche cosa sì, ma imbriago da ‘ndar par tera, no.
- Avete visto o sentito ciò che è avvenuto?
- I fratelli Barbisan erano insieme. Intanto che “lui” parlava, Abramo tirò fuori “una fuma”; l’altro la voleva, accese un fiammifero. Lo gettò contro il Bianchetti. Il fratello del Barbisan disse all’accusato: “Tasi che te si cioco”. Allora quest’ultimo gli diede due schiaffi. Il Bianchetti lo rimproverò perché bastonava il fratello. Mio cognato intervenne perché non voleva che succedessero baruffe nelle stalle. Io ero a metà della sala e non sentii altro che una voce proveniente dalla parte scura della stalla dove si erano recato il Barbisan e il Bianchetti. Go sentìo: oh Dio, go ciapà ‘na britolada. Dopo il colpo, Barbisan stette fermo nella stalla, mentre noi alla vista del sangue siamo scappati fuori tutti. Il Barbisan passò nel cortile e scappò in strada.
Dopo la Amalia Gasparetti, depone Fortunato Cesconi. Ha 24 anni ed è stato compagno di scorribande in quel giorno di Befana di Antonio Barbisan. Conferma che hanno bevuto molto, quasi due litri a testa, bianco e nero insieme.
Giuseppe Spinetta è un uomo tarchiato, basso di statura. Ha alcune rughe profonde sulla fronte e occhi piccoli e azzurri. Lui è il padrone della stalla, quello che ha cercato inutilmente di soccorrere il Bianchetti. Non dice nulla di nuovo.
Tra interrogatori e lettura dei verbali la mattinata passa velocemente. La difesa fa parlare alcuni testimoni che raccontano che Antonio Barbisan non è una cattiva persona. Non sembrano influenzare positivamente la giuria.
Chi invece viene ascoltato con molto interesse da tutti, è il maresciallo dei carabinieri Angelo Iberni. È stato lui a raccogliere le prime informazioni, a interrogare Barbisan subito dopo che si era costituito, a fare il sopralluogo. Parla con marcato accento meridionale.
Il coltello lo ha trovato per terra, buttato via dal Barbisan vicino a casa sua. Una mano nelle ricerche gliel’hanno data i fratelli Barbisan. Ha parlato anche col padre che ha definito irascibile e violento il carattere del figlio.
Ma il maresciallo Iberni, quando il presidente gli chiede del carattere dell’assassino, approfitta per dire una cosa che evidentemente gli sta molto a cuore. In poche parole riferisce gli umori a Giavera su quel delitto.
Scandisce le parole. Dice:
- In paese dapprima si provò una grave impressione contro il Barbisan; in seguito però tale opinione si mitigò favorevolmente verso l’accusato che non si riteneva capace di uccidere. Egli si era dato soverchiamente a bere.
È una brava persona, il maresciallo Iberni. Si capisce bene quello che non esprime direttamente: se questa gente non bevesse, non fosse in qualche modo costretta a bere, certi reati, perfino certi delitti non ci sarebbero.
Finisce, il buon carabiniere, posando il suo sguardo su Antonio Barbisan, sempre immobile dietro alle sbarre del gabbiotto, sempre con la faccia tra le mani, nascosta dentro il suo fazzoletto.
Aggiunge:
- Il Barbisan era un buon lavoratore e tutto quello che guadagnava lo passava alla famiglia.
Un mormorio di consenso corre attraverso la gente. Non c’è odio, non c’è rancore nell’aula del tribunale trevigiano.
Fa caldo, le donne si sventolano, il maresciallo Iberni torna al suo posto accompagnato da un mezzo applauso, è rosso in volto, emozionato, commosso. Il presidente chiama il silenzio.
Poi estrae l’orologio dal taschino e aggiorna la seduta per il pomeriggio. Toccherà ai periti, e quindi a sera, quella sera stessa, ci sarà la sentenza. I Trevisani sciamano in fretta, discutono. Sono divisi. Ci sono quelli di città che hanno assistito per curiosità. Loro non andrebbero tanto per il sottile con quel ragazzaccio pronto a tirar fuori il coltello per un niente.
I albari storti, mejo drissarli subito, dice a mezza voce un ciabattino che ha negozio proprio davanti al tribunale, vicino al tempietto del Beato Erico. Qualcuno gli dà ragione. Molti scuotono la testa.
Quelli invece che sono venuti fin da Giavera, da Sovilla e da Nervesa, da Bavaria, da Arcade, da Cusignana e da Povegliano tacciono.
Si avviano, strascicando i piedi. Gli zoccoli destano echi sotto le ampie volte dell’atrio. Vanno a cercare un po’ di ombra sotto gli alberi delle Mura, aprono i fagotti, mangiano qualcosa. Le cose più giuste le ha dette il maresciallo, sussurrano.
Ma chi può entrare nelle teste dei giurati? E chissà se il pubblico ministero si metterà una mano sulla coscienza. Se parte lui a chiedere una pena mite…
Quanto ai periti, cosa potrebbero aggiungere?

*****

I primi a parlare sono i periti fiscali, quelli che hanno eseguito l’autopsia. Uno di loro è il medico condotto Fabris che, dopo aver visitato la famiglia dell’accusato, può dire di non avervi trovato nulla di anormale.
Dice proprio così:
- Non ho ravvisato alcunché di anormale.
Il presidente e il pubblico ministero, perfino il difensore sembrano accontentarsi di quelle parole. Chissà cosa vuole dire il dottor Fabris? Che non ci sono situazioni di particolare povertà? Che non trova sintomi di tare ereditarie? Il fatto che la seduta scivoli via veloce senza fermarsi molto ad approfondire dovrebbe essere un buon segno, favorevole all’imputato cioè.
La sala va riempiendosi. In un angolo il giornalista del Gazzettino stenografa le battute, nervoso. Lotta contro il tempo perché vorrebbe dare già nell’edizione del giorno dopo il resoconto completo. La gente è, in prevalenza, dalla parte dell’imputato.
El xé un fiol, in fondo el gà xà patio tanto, vardelo là, dice un signora ingioiellata ad una amica. Parla piano, ma nel silenzio tutti sentono benissimo. Il presidente richiama il pubblico. Ora la difesa gioca la sua carta migliore. Parlerà il professor dottor Luigi Zanon, perito di parte.
Zanon è il direttore del manicomio. Ha una voce grossa, tuonante.
Fa un discorso tirato, alto, pieno di parole scientifiche. Traccia il profilo psicofisico dell’accusato, citando le più recenti, a suo dire, teorie sull’argomento. Parla a lungo, fa anche qualche cifra, riferisce alcune statistiche. Conclude in crescendo, con la sua voce baritonale. Di tanto in tanto si accarezza la barba, tormenta il pomello del bastone da passeggio che tiene sulle ginocchia.
Nel momento in cui il Barbisan alzò la mano, conclude, era totalmente irresponsabile.
Sembra aver finito, fa per alzarsi. Poi ci ripensa. L’occasione è troppo ghiotta, con il giornalista del Gazzettino a due passi che annota ogni sua parola, si risiede. Tuona contro l’alcolismo che “arma tante mani per delitti orribili”. Guarda il presidente, mette il bastone a terra. Questa volta ha proprio finito. È l’ora delle arringhe.
Ma non è una gran carta quella che ha giocato la difesa. Zanon ha detto cose giustissime, sì, ma il suo intervento, paradossalmente, è sembrato il più lontano dal caso, il meno attento alla sua dimensione umana. Zanon ha parlato di un caso clinico, di una patologia diffusa.
Ma lì, dentro la gabbia, c’è un ragazzo di nemmeno 18 anni, già logorato dall’abuso dell’alcol e con una storia violenta e dura di emigrazione alle spalle. Non un numero, una statistica.
La tensione sale, palpabilmente. Che sarà di Barbisan? Non sono certo chiamati ad una decisione facile, i giurati.
Comincia Braida, il pubblico ministero.
E comincia alto, con un volo pindarico sul carattere degli italiani e sulla fama che essi hanno nel mondo: l’italiano è colui che più di ogni altro ha la reputazione di discutere con la punta del suo coltello. Poi torna ad occuparsi del caso Barbisan. Sembra ben disposto.
Domenico Braida è furlano, di Udine. È alto, massiccio, ha occhiaie fonde, scavate. Parla a voce bassa, ma potente, e intanto si liscia i baffoni spioventi. È stimato da tutti, un uomo equilibrato, di grande esperienza, molto fiero dei titoli onorifici che gli sono stati conferiti, cavaliere della Corona d’Italia, cavaliere dei santi Maurizio e Lazzaro. Tra poco andrà in pensione e lo faranno Grande Ufficiale della Corona. Una brava persona.
Non pare disponibile a riconoscere la totale irresponsabilità dell’imputato ma chiede ai giurati di affermare due reati: l’omicidio preterintenzionale, per cui introduce l’attenuante della seminfermità mentale, e il mancato possesso del porto d’arme.
Dalla Favera chiede la completa infermità di mente. Se non sarà ravvisata, in via subordinata, chiede ai giurati di riconoscere la completa infermità di mente per ubriachezza volontaria.
I giurati ascoltano, tesi.
Poi si ritirano a deliberare. Non molto tempo, una mezzora. Rientrano in aula accolti dal silenzio più assoluto. Il presidente Segati risponde visibilmente emozionato alle domande formulate.

*****

La giuria che deve decidere sul destino di Antonio Barbisan assomiglia a tante giurie chiamate in questi anni a pronunciarsi su delitti che hanno radici nella fame, nello sfruttamento, nell’ignoranza. Un bivio vero e proprio: da una parte la necessità di affermare una legalità algida, lontana, basata sulla lettera della legge, dall’altra la dimensione umana di miseria e angoscia in cui certi delitti maturano. Una scelta difficile, senza criteri preordinati.
Allora si fa meglio che si può, decidendo di volta in volta, caso per caso.

*****

La giuria del caso Barbisan ebbe la strada spianata dall’atteggiamento accondiscendente del pubblico ministero.
Riconobbe che si trattava di delitto preterintenzionale, riconobbe il reato di mancato possesso di porto d’arme. Riconobbe la seminfermità di mente. Accordò le circostanze attenuanti.
Quando Segati finì di riferire le decisioni della giuria, Braida, il pubblico ministero, si alzò lentamente.
Girò lo sguardo sulla folla, poi guardò il collega della difesa, poi Antonio Barbisan. Il ragazzo, per la prima volta dopo l’interrogatorio, aveva alzato la testa dal suo fazzoletto. Occhi spauriti, da coniglio preso alla tagliola.
Braida parlò prima lentamente, poi con foga crescente. Chiese, tenuto conto della minore età, dieci mesi di reclusione più qualche giorno (non precisò quanti) per il mancato porto d’arme. Il minimo della pena. Braida fece una pausa, riprese fiato.
Chiese, sempre per via della minore età, l’applicazione della legge del perdono. Della Favera lo guardò riconoscente, plaudendo e associandosi.
Un lungo applauso accolse la sentenza.
Antonio Barbisan prese i dieci mesi cui il presidente aggiunse sei giorni per il porto d’arme, applicando contestualmente la legge del perdono.
Parlò in fretta, il presidente Orlandi, alzando di tanto in tanto gli occhi sull’imputato. Gli fece una paternale ricordandogli che della clemenza non si deve abusare.
Il ragazzo faceva di sì con la testa, senza capire cosa avevano deciso per lui.
Antonio Barbisan fu ricondotto in carcere per le pratiche del caso e poi rilasciato.

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