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Il ritorno

RONCOLA (sostantivo femminile, anche RONCOLO): coltello adunco e tagliente, con manico corto per uso dell’agricoltura.

(Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano)

 

Quanti colpi di roncola,
nella sconosciuta microstoria
delle nostre terre.
Strumento umile,
quasi sempre utilizzato per i lavori nei campi,
talora assurto ad arma di orrendi delitti
maturati nell’ignoranza,
nella solitudine morale,
nella miseria.

Gian Domenico Mazzocato, scrive un’altra indimenticabile pagina della sua saga dei “vinti veneti”. Con questo romanzo breve “Il ritorno” ripercorre un dimenticato fatto di cronaca, un delitto ai danni di una povera donna, accaduto nelle campagne trevisane nel 1881. L’omicida, incredibilmente sopravvissuto a trent’anni di lavori forzati, ritorna, nel 1911, in una Treviso che ha dimenticato ogni cosa e vuole rimuovere quell’evento scomodo.

Trent’anni? Non ricordavo bene, mi pareva che fosse ergastolo. Un fantasma, un fantasma che torna.

Una breve di cronaca in prima, non è stato possibile fare altro, il 5 gennaio.

Treviso è un po’ stordita in questa vigilia di povera redodesa. Attorno alla città si sta per appiccare fuoco ai falò, grandi e piccoli. E l’attenzione di tutti è all’inaugurazione dell’Eden, il teatro nuovo, splendido e buono per tutto, in Borgo Cavour, proprio nel quartiere fatto bello da Graziano Appiani. L’Eden ospiterà spettacoli, conferenze, comizi, pattinaggio, balli e cinematografo. Questi sono giorni di trionfo per Appiani. La nostra redazione è in subbuglio per stargli dietro.

Una breve di cronaca. Poi, nei giorni successivi mi sono dato da fare. Ho richiamato alla memoria, sono andato a vedere le mie note di allora, ho ricostruito il processo. Correr Giovanni fu Giosuè, come dimenticare?

Ero un ragazzino, appena arrivato nella redazione del Progresso, il giornale della sinistra trevisana. La redazione a due passi da qua, dal Gazzettino, in Calmaggiore. Mio Dio, quanto tempo è passato. Facevamo le battaglie per le cucine economiche, come le chiamavamo allora, 10 centesimi un litro di minestra, per la gente martoriata dalla pellagra. E la nuova legge elettorale che portava il numero degli elettori a due milioni da 600mila che erano. Bastava saper leggere e scrivere per votare: noi a dire a tutti, a pubblicare ogni giorno che era sufficiente presentarsi davanti a un notaio e dimostrare che si sapeva compilare la richiesta di iscrizione alle liste elettorali. La prova che si sapeva leggere e scrivere, insomma. Una guerra, perché i moderati non volevano mollare su nulla.

E il divorzio. Me ne ricordo bene perché, tra i sostenitori di Cesare Parenzo che aveva presentato il progetto di legge, c’era Domenico Giuriati il difensore di Correr.

Una breve di cronaca, per trent’anni di carcere duro. Il telefono numero 127, qui al civico 12 del Calmaggiore, ha cominciato a suonare tardi. Tutta gente incuriosita, che voleva sapere chi trasportava il furgone cellulare attraverso le vie di Treviso, verso il Duomo. Il mio primo caso, ultimi di gennaio del 1881.

Ho sentito il bisogno, a cose concluse, di mettere in ordine i miei appunti. Trent’anni, una vita.

Correr doveva scontare ancora qualche giorno di carcere, prima della liberazione. Quando è uscito, il 25 gennaio di quest’anno, sono stato a lungo con lui, l’ho intervistato.

Ha un unico desiderio. Vedere il mare di notte.

Sera del 3 gennaio 1911, stazione ferroviaria di Treviso.

La motrice delle 18 e 32 proveniente da Venezia ha fermato i suoi tre vagoni, puntuale al minuto.

È già buio da un pezzo, a Treviso, e freddo.

Il vento tira da est, una bora triestina che porta neve marcia, mista a pioggia. Nel fascio di luce dei fanali corrono velocemente scaglie bianche, di ghiaccio. Sotto le pensiline stazionano pochi viaggiatori intirizziti. Sono avvolti in grandi tabarri neri o affondano il viso nei colletti alti dei loro paltò. Battono i piedi, sbuffano in nuvole di fiato.

C’è qualcosa di strano, di diverso dal solito. E non solo perché il treno è stato, eccezionalmente, fatto arrivare sul primo binario.

Alcuni uomini in uniforme si dirigono con passo deciso verso l’ultima porta del convoglio. Scendono altri due carabinieri col mantello sulle spalle, tirati in volto. Tra loro un uomo alto, magro, che li sovrasta entrambi. Ha le mani chiuse dai ferri. È tranquillo, sorride quasi. Ha il capo scoperto e così si notano i capelli bianchissimi.

Lo scambio di consegne è rapido, poche parole, giusto quanto serve. Qualche firma, saluti frettolosi e formali.

Un po’ discosto il capostazione osserva la scena, nervoso. I due carabinieri col mantello chiedono dov’è il posto di ristoro. Tra qualche ora passerà il treno che li riporterà in Toscana. Viaggeranno tutta la notte.

Il detenuto viene accompagnato all’esterno della stazione. Sale su un furgone che reca la scritta “Regie Carceri”, color oro su fondo nero, praticamente una carretta con un tetto di tela. Due cavalli a trainare, un carabiniere a cassetta, un altro dietro col detenuto. Uno schiocco di frusta e un incitamento stridulo, quasi un singhiozzo. Le ruote si muovono, cigolano, traballano e pestano sul terreno. Subito prendono velocità. Qualche curioso osserva.

Il furgone passa davanti alla barriera Vittorio Emanuele, poi prende a sinistra verso piazza della Cavallerizza, infine piazza Duomo.

Proprio dalle prigioni in centro di Treviso, trent’anni prima, subito dopo il processo e la condanna, Correr Giovanni, fu Giosuè di anni 57, aveva cominciato il suo ramingare per tutti i penitenziari italiani. Condanna “per omicidio qualificato alla pena dei lavori forzati a vita”, come recitava il codice sardo. Di fatto una pena capitale prolungata nel tempo, una morte consumata giorno dopo giorno. E del resto, al processo, il pubblico ministero, Bartolomeo Favaretti, procuratore generale dell’Appello di Venezia, aveva chiesto espressamente la pena di morte.

Ma Giovanni è incredibilmente sopravvissuto a trent’anni di lavori forzati e nessuno sa niente di quel suo arrivo e dunque nessuno lo attende.

Perfino il cronista del Gazzettino, sempre attentissimo a tutto, viene preso alla sprovvista. Pubblica un breve articolo, in prima pagina, il 5 gennaio. Il titolo, su una colonna, è, a suo modo, un bentornato, quasi un augurio: Verso la libertà, si legge.

Forse, però, è qualcosa di diverso, una sorta di esorcismo. In città si respira un’apprensione diffusa, quasi paura. Treviso si appresta a riscoprire una pagina terribile della sua storia. Una vicenda dimenticata, di miseria e sangue, di povertà morale, accaduta praticamente alle porte della città.

Dimenticata e rimossa.

La misura della rimozione è che nessuno sa proprio nulla di questa vicenda. Si dice che l’ergastolo è stato commutato in trent’anni di prigione per grazia sovrana. Non è vero: l’entrata in vigore del codice italiano che soppiantava il vecchio codice sardo, aboliva la pena di morte e dunque tutte le pene venivano ridotte in proporzione. L’ergastolo diventava condanna a trent’anni anni.

Si dice anche che sia stato processato per aver ucciso con tre colpi di coltello un suo rivale. Nemmeno questo risponde a verità, si viene a sapere presto. Ma bisogna verificare, andare a leggere le carte di allora, sentire dei testimoni o magari qualcuno che ricorda bene.

Poco a poco, in una Treviso vagamente allarmata, affiora qualcosa. Qualche particolare torna alla memoria. Biancade, Biancade di Roncade. Correr, trent’anni fa, si è sbarazzato di un suo rivale in amore. Una coltellata, forse un colpo di pistola, la memoria è offuscata, confusa.

Poi qualcuno va a vedere vecchie carte. No, non è un rivale che ha ammazzato, è una storia molto più torbida, ben più intricata. E non ha usato né coltello, né pistola.

Correr ha ucciso la sua amante con due colpi di mannaia al collo. È fuggito, in preda al panico. Forse non voleva uccidere davvero, forse era convinto di farla franca. Si è sbarazzato dei vestiti lordi di sangue.

Ma la donna non è morta e quando, per caso, accorre il padrone dell’assassino (che di mestiere fa il muratore), negli spasimi dell’atroce agonia, farfuglia il nome del colpevole.

I carabinieri di San Biagio di lì a qualche ora trovano Correr ripulito e rivestito, col suo abito della festa. L’unico altro abito che possiede. Ma che ci fa un povero manovale vestito con l’abito buono, che si mette solo la domenica per andare alla messa, in piena notte?

Gli occhi di Correr tradiscono una inquietudine che non sfugge allo sguardo indagatore dei carabinieri. Le sue mani hanno un tremito accentuato, farfuglia. Sì è lui Giovanni Correr, di Giosuè detto Pin Scarper.

Non devono far gran fatica i carabinieri. Ispezionano le vicinanze della casa del Correr e rinvengono subito altri panni, tutti sporchi di sangue. Glieli fanno indossare, così, già rigidi per le croste indurite. La taglia è giusta, i vestiti potrebbero essere i suoi. Ma non sono una prova.

E a questo punto è lo stesso Correr a dare una mano agli inquirenti. Quando si ritrova addosso i panni luridi del sangue della sua vittima, prende a vomitare. Piange e vomita, si accascia per terra. L’effetto su di lui è terribile. Crolla e confessa.

Nel 1881 i quotidiani limitavano la cronaca a qualche riga, di fatto non esisteva una cronaca cittadina. La nera poi era trattata con estrema circospezione.

A fare notizia in prima pagina, riferiti con dovizie di particolari e seguiti assiduamente ogni giorno, sono i grandi delitti accaduti altrove. Come il processo Faella che si celebra alla corte di Assise di Bologna. Alessandro Faella ha ammazzato un prete e poi lo ha buttato in un pozzo col suo mantellino e il cappello a tricorno. Nei giorni successivi al delitto ha presentato agli eredi due cambiali false per 52mila lire, vantando diritti sui lasciti del prete. Grande scalpore e grande risonanza: tra i periti di parte, figura nientemeno che il celebre Cesare Lombroso. Quando il processo è girato al peggio il Faella si è ammazzato col veleno. Lo hanno trovato nella sua cella con ancora in mano un libro. Stava leggendo Il conte di Montecristo. Un quadro a tinte fosche, una vicenda a suo modo romantica, proprio giusta per essere enfatizzata dai giornali.

Ma nel delitto perpetrato da Giovanni Correr non c’è nulla di romantico.

Soprattutto è un delitto commesso alle porte della città, vicinissimo. Correr non è un uomo colto, un nobile, come il Faella. È un povero manovale semianalfabeta e certamente non trarrà tutti d’impaccio con un comodo suicidio qualche ora prima della condanna. Il suo è un delitto che ha radici nella miseria, nell’ignoranza, nello sfruttamento, forse nell’alcol e in qualche tara ereditaria. Dunque un evento da rimuovere in fretta, possibilmente con una punizione esemplare.

Ma in quella vigilia di befana del 1911, la memoria pubblica e la memoria privata annaspano. Affogano nelle ciacole. Viene riesumata la data della sentenza, il 9 febbraio 1882, un mese e un anno dopo il delitto, e poco altro.

Treviso vorrebbe sapere, è curiosa.

Si recano a far visita a Giovanni Correr i tre figli. L’incontro è commovente e il giornalista che staziona fuori del carcere raccoglie le impressioni dei familiari. È stato un incontro struggente, di lacrime e di braccia al collo. Si è parlato anche di perdono, perché è una colpa essere un padre che non esiste, che manca ai suoi per un numero d’anni lungo quanto una vita. È una colpa segnare i propri figli e tutta la famiglia con il marchio del disonore. Si sono fatti discorsi di speranza.

L’immagine pubblica che si cerca di accreditare del terribile assassino di trent’anni prima, è largamente positiva. Un assassino che torna nella terra che lo ha visto uccidere e nella città che gli ha inflitto una condanna terribile, va esorcizzato, in qualche modo depurato dall’aura malvagia che si porta dietro.

Si dice che parla in modo bonario e tranquillo, che è persona pacata, che durante il suo soggiorno in carcere si è sempre segnalato per buona condotta, che ha fatto il muratore (cioè il suo mestiere) ed anzi è diventato caposquadra. Ha in tasca 330 lire, frutto dei suoi risparmi. “Non molto, dirà nell’intervista fattagli subito dopo la sua liberazione, ma bisogna anche mangiare. E fumare, almeno qualche volta”.

I figli gli hanno regalato un abito nuovo, color cenere. Un abito invernale, pesante.

Il giorno in cui uscirà, il 25 gennaio, Treviso sarà immersa nel sole caldo di una primavera precocissima.

Giovanni Correr sembrerà un uomo fuori stagione.

*****

La città chiede di sapere. E presto.

È una città vivace, Treviso. Il giorno della redodesa, il 6 gennaio, è stato inaugurato il teatro Eden, in Borgo Cavour, appena fuori la porta in direzione delle sbarre di San Giuseppe. Una sorta di miracolo, quel teatro costruito e progettato dall’architetto Modonesi e decorato dalla mano abile del pittore Tempesta. Cinquecento metri quadri per i divertimenti della città.

Sono cambiati, i tempi. Non c’è silenzio attorno agli eventi delittuosi come trent’anni prima. Ora la cronaca nera fa notizia, tiene banco. Proprio in queste ore a Miane un contadino uccide il seduttore della moglie. Tuttavia è quell’ergastolano misterioso a mantenere desta l’attenzione di tutti.

Così ai giornalisti del Gazzettino quasi non pare vero quando, nella mattinata del 9 gennaio, qualcuno fa pervenire un plico anonimo nella redazione di via Calmaggiore. Una busta gialla, con pochi fogli scritti a mano. Un pomeriggio febbrile di verifiche: raramente il centralino di Treviso aveva smistato tante telefonate per il numero 127.

La busta contiene copia di un documento che era girato per Roncade poche ore dopo il delitto, il giorno successivo, 25 gennaio 1881. Almeno questa è la data che reca. Appare probabile che sia stato redatto nei giorni successivi e retrodatato. Ecco un primo interrogativo: perché?

È un documento duro. Descrive con asprezza e non lascia spazio all’immaginazione tanto è crudo.

Dipinge l’assassino come un mostro e il delitto come la culminazione di un calvario per la povera donna.

Naturalmente è anonimo. E così dettagliato che pare perfino impossibile che abbia potuto essere stilato in poche ore. Chi aveva interesse a tanto zelo, a tanta rapidità? Chi era in grado di ricostruire così a caldo e in breve tempo eventi tanto terribili? Chi poteva collegare, rimettere in sequenza, esprimere valutazioni e pareri tanto precisi?

Rimane un piccolo mistero che il processo, il quale peraltro stabilì una verità in qualche misura diversa, nemmeno si preoccupò di affrontare. Tuttavia il documento rivela tra le righe che la sua circolazione era destinata ad un ambito ben preciso: tutte le persone citate dovevano essere ben note ai destinatari dello scritto. Doveva distribuire responsabilità e colpe.

Prende le mosse da una sera di fine gennaio, quando l’inserviente dell’orfanotrofio dell’Opera Pia Rossi si presenta, in preda all’angoscia, alla porta di un casale di Biancade. L’orfanotrofio ospita in questo periodo sei bambine alle quali insegna la maestra Enrichetta Mantovani che in qualche modo viene citata nello scritto clandestino e che sarà tra i testi al processo.

Eccone qualche stralcio.

“Era la sera del 24 gennaio 1881 e la solita compagnia si trovava a cena in casa Bianchini, quando tutto ad un tratto si sentì picchiare alla porta della sala. Si aprì e si presentò la serva dell’istituto, tutta tremante dicendo che presto presto si accorresse in aiuto perché un grave delitto era stato commesso nella casa attigua all’istituto, abitata da Adelaide vedova Mazzon.

Senza perder tempo accorsero sul luogo. Vista orribile! La povera Adelaide stava seduta accanto al focolare con a fianco la signora maestra che la assisteva, tutta insanguinata il viso. La cucina sembrava un macello perché pozze di sangue eranvi in ogni canto.

Esaminata la ferita si trovò che la mascella inferiore era del tutto staccata e fratturata, rimaneva sostenuta dal solo labbro inferiore rimasto incolume.

A tal vista Alessandro Bianchini svenne.

La presenza del medico era urgente, perciò Memi Bianchini e Memi Usoni, saliti in carrettina affrontando il freddo ed il ghiaccio, divorando la via si portarono a Roncade e dopo pochi minuti erano di ritorno col dottor Lamprechet.

In questo frattempo Filippo Usoni, assistito dalla maestra, dalla serva dell’istituto e da Schiavinato Girolamo trasportò la povera donna nella sua stanza e la coricò sul letto. Il dottore esaminò accuratamente la ferita. Oltre la principale sopra descritta, ne rinvenne altre due alle mani e alla spalla sinistra e trovò che lo stato era assai grave, da esservi la necessità del prete. Allora i due Memi ed Alessandro Bianchini che aveva recuperato energia e coraggio, a passo di corsa si recarono dal cappellano che prontamente si unì a loro e venne sul luogo. Il dottore intanto, assistito da Filippo e dalla maestra, cucì le ferite.

Anche Memi Bianchini non poté più resistere. Si fece accompagnare a casa più morto che vivo e non passò molto tempo che anche esso rinvenne e ritornò sul campo di battaglia. La povera donna intanto aveva confessato che aveva conosciuto il suo assassino e che era Giovanni Correr, conosciutissimo col nome di Pin Scaper di Ca’ Morelli, muratore.

Questo nome destò le meraviglie di tutti poiché nessuno avrebbe dubitato che l’assassino fosse un giovinotto che fino ad ora non ebbe precedenti rimarchevoli e tanto più essendo di famiglia abbastanza buona.

Dopo qualche minuto di discussione sul fatto e sulle cause, il dottore disse che bisognava portarsi subito dal sindaco per le opportune indagini; difatti, saliti in una vettura si portarono a Roncade, trovarono il sindaco al caffè; il segretario comunale sopraggiunse dopo pochi istanti, e raccolte le notizie compilarono un telegramma al procuratore del re.

Intanto veniva chiamato un fratello della povera Adelaide ed informato in parte del fatto lo si inviò presso la sorella.

Accompagnato il dottore a casa gli altri ritornarono a Biancade e trovarono l’ammalata abbastanza tranquilla.

Filippo ebbe l’incarico di far la guardia in cortile fino a che arrivava il fratello della vedova per predisporlo e tranquillizzarlo onde evitare altre scene.

Dopo una buona mezzora il povero diavolo giunse ed allora, accompagnato dai due fratelli Bianchini che si erano uniti a Memi Usoni, entrò nella stanza. Scambiate poche parole sullo stato del mal, se ne partì tranquillo conoscendo che l’inferma era assistita da persone di cuore ed esperte nel curare ferite.

Erano le dodici e mezza di notte quando i fratelli Bianchini, Memi Usoni e Memi Schiavinato, rientrarono in cucina. Fu stabilito il servizio notturno: Filippo e la serva dell’istituto presso l’ammalata; gli altri in letto pronti ad ogni chiamata.

Era appena spuntato il giorno che tutti gli individui summentovati si trovarono al loro posto, Alessandro Bianchini per soddisfare al desiderio della povera ferita si assunse l’incarico di accompagnargliela in camera e ciò avvenne intanto che Memi e Momi, accompagnati dal povero Tonon, si posero a camminare intorno alla casa per rinvenire se vi fossero tracce che indicassero la via di provenienza e di partenza dell’assassino.

Tale indagine non riuscì infruttuosa poiché appena oltrepassata la siepe di cinta di detta casa trovarono la traccia sulla neve di un uomo che corse precipitosamente perché la differenza da un’orma ad un’altra era di circa metri 1, 20: per di più le prime orme erano lorde di sangue e persuasero i tre perlustatori che non si erano ingannati. Appena fatta tale scoperta, ritornarono nel cortile ed unitisi ad un carabiniere, al cursore Mantellato e a Bianchini Alessandro e Memi Bianchini ritornarono sulla traccia dell’assassino che, attraversando i campi, li condusse fino sulla strada che dà a Ca’ Morelli e precisamente di rimpetto all’ingresso della chiusura tenuta da Bredariolo.

Bisogna avvertire che l’assassino per cura del sindaco di Roncade era già fin dalle tre antimeridiane nella mani della giustizia e condotto alla stazione dei carabinieri di san Biagio.

Alle sette circa il dottor Lamprechet tornò a visitare l’ammalata e trovolla nel medesimo stato della sera precedente. Dichiarò essere in stato di poterla trasportare all’ospedale di Treviso, ciò che avvenne a mezzogiorno essendo anche in questo frattempo venuti in sopralluogo un delegato di P.S. e due guardie.

Il colpevole per ben due volte cercò di fuggire ai carabinieri. Non si poté scoprire l’arma colla quale si è servito per ferire, ma ritiensi poterla trovare nel pozzo dell’istituto avendo trovato delle gocce di sangue lungo il sentiero che dalla casa conduce al detto pozzo.

Ora poi corre voce che il colpevole abbia già confessato la sua colpa: cioè di essersi recato in casa della vedova Mazzon per recuperare del denaro da molto tempo datole a prestito ed aver invece da essa ricevuto un colpo di forbice nella mano, la qual cosa lo obbligò a difendersi non credendo però di recarle male sì grande.

Invece la verità sarebbe che la sua comparsa in quella casa era tutt’altro che per fini onesti, che avendo colle minacce e poi colla forza soddisfatto i suoi malvagi desideri, per tema di essere perciò palesato, cercò di privare della vita colei che prima fu il suo strumento di piacere, poscia la sua vittima”.

Il Gazzettino pubblica il documento il 10 gennaio, con buon rilievo.

Nessuno si pone il problema di ricostruire le motivazioni di un documento simile. Voleva coprire qualcuno? Doveva, Correr, apparire un folle isolato? Qualcuno doveva scaricare la coscienza per non aver visto o non aver voluto vedere qualcosa che si trascinava da molto tempo? Forse il delitto maturava lì, sotto gli occhi di tutti e nessuno aveva fatto niente per far ragionare il Correr prima che commettesse uno sproposito? Ancora: fu così grande il disagio nella piccola comunità di Roncade da far iniziare già poche ore dopo il delitto il processo di rimozione?

Probabilmente un po’ tutto questo.

A suggerirlo ci sono due precisi indizi.

Il primo. Il documento ad un certo punto si preoccupa di spiegare perché “in questa avventura” non compare il nome Antonio Tonon, persona che non appare nell’inchiesta né in quel momento né in seguito. E motiva dettagliatamente quell’assenza.

“Al primo invito di aiuto tutti accorsero sul luogo e anche Antonio Tonon vi si era diretto. Ma appena entrato nel cortile dell’istituto, incontratosi col servo di Bianchini che gli descrisse il fatto spaventevole ritornò dove era partito dicendo: Ciò, che mi ghe vado altro”.

Il documento riporta proprio questa frase, abbastanza incomprensibile, insensata. Perché preoccuparsi di questo Antonio Tonon?

Ma c’è anche un altro indizio preciso: della difesa era stato incaricato il noto avvocato roncadese Giovanni Battista Radaelli, che qualche anno dopo sarebbe diventato anche deputato nelle file degli zanardelliani, il quale preferì chiamarsi fuori. Il Radaelli ha un fratello, Carlo, a sua volta brillante avvocato e futuro sindaco di Roncade. Dunque ha un consolidato prestigio da difendere e tuttavia prega un ancor più illustre collega, il grande Domenico Giuriati, di assumersi il patrocinio del Correr. Impresa disperata perché, a norma del codice sardo in vigore, il delitto sembra destinato a portare sulla forca il reo.

E c’è anche un altro elemento che salta agli occhi. A dispetto dei mille particolari riferiti che documentano una conoscenza dell’evento nei minimi dettagli, il documento propone una realtà sostanzialmente diversa da quella che emergerà dal dibattimento in tribunale. Anzi, un’altra realtà.

Serve proprio fare un salto indietro di trent’anni e andare a riaprire le carte del processo.

*****

Treviso, Corte di Assise, 7 febbraio 1882, 379 giorni dopo il delitto.

Un giorno di mercato, dunque di folla e di curiosi.

In via Canova, dietro a piazza Duomo è un giro continuo, un avvicendarsi senza sosta, fino alla sera. La gente chiede, si informa, si trattiene un poco, poi va. Quelli che sono lì dalle prime ore del mattino e sono intenzionati a restare fino a tardo pomeriggio vengono quasi tutti da Biancade e Roncade.

Anche da Spercenigo perché questo è un mondo piccolo e Biancade fino a non molti anni fa apparteneva proprio al comune di Spercenigo, poi sparito come ente territoriale per le endemiche baruffe che agitavano il consiglio comunale e immobilizzavano qualsiasi attività amministrativa.

L’usciere del tribunale si chiama Eugenio De Prat ed è mingherlino, basso di statura. Quasi non si vede, dietro il muro di teste. Ma ha una voce tagliente, dura e secca. In aula e fuori, perfino in strada si fa subito silenzio quando chiama la causa “in confronto di Correr Giovanni, detto Pin Scarper, del vivente Giosuè, di anni 27, coniugato con quattro figli, muratore, detenuto, incensurato”.

L’attesa è grande, palpabile. L’istruttoria, condotta a ritmo serrato, è stata affidata ad un magistrato molto apprezzato, destinato a diventare consigliere di Cassazione, Ferdinando Munari.

La corte è composta dal presidente Carlo Lombardini, da Bortolo Fontebasso, da Angelo Dal Colle Bontempi. La pubblica accusa è affidata ad un sostituto procuratore generale della corte d’Appello di Venezia, Bartolomeo Favaretti.

La giuria è al completo, quattordici persone. La presiede Ettore Bianchi, un uomo alto e corpulento, con due baffoni grigi. Ha il viso arrossato e si deterge in continuazione il sudore.

Lui, Giovanni Correr, siede tranquillo nel suo gabbiotto. Ogni tanto gira lo sguardo attorno, ha occhi chiari, impenetrabili. Qualcuno giura che sul suo volto appaia a tratti un mezzo sorriso. Un mostro, un mostro che ha ucciso per motivi abietti.

Correr sa bene a cosa si riduce il processo: pena capitale od ergastolo. Sa di non avere possibilità di difesa.

L’impresa di evitare la pena capitale all’assassino di Biancade spetta al miglior avvocato di Treviso, progressista ed irredentista. Intellettuale di punta, in prima linea per la soluzione della drammatica questione montelliana, Domenico Giuriati sarà eletto deputato l’anno dopo.

L’uomo col prestigio giusto per evitare il capestro a Correr: sta per uscire, atteso da tutti, un suo libro Le leggi dell’amore, in cui affronta proprio le problematiche della famiglia. In questo processo la famiglia, come istituto civile e morale, reciterà un ruolo importante.

Il cancelliere Tommaso Bertolini legge il capo d’accusa. Veloce, senza alzare gli occhi dal foglio, con voce neutra. Si sforza di non far sentire l’emozione. Ma Bertolini è giovane, questo è il suo primo processo importante, la voce si incrina quando deve soffermarsi sui particolari più brutali.

Correr è imputato del crimine di omicidio volontario con premeditazione. Bertolini cita gli articoli del codice penale, poi prosegue: “per essersi alle ore otto e mezza pomeridiane del 24 gennaio 1881, in Biancade, con disegno previamente formato di togliere di vita Adelaide De Vidi vedova Mazzon GB, introdotto nella di lei casa, ed avere quivi, dopo essersi accoppiato carnalmente seco lei una prima volta, e nel mentre fingeva di adagiarsi sopra lei nuovamente per ripetere l’accoppiamento, traendola quindi in insidia colla simulazione di nuovi abbracciamenti, inferto alla medesima con l’intenzione di ucciderla più colpi, parte per forte pressione contro il terreno e parte per azione di stromento tagliente, producendole oltre ad altre lesioni di minor conto la frattura doppia della mascella inferiore, con conseguente morte, verificatasi alle ore 6, 30 del mattino del 13 febbraio 1881”.

Solo ora Correr abbassa la testa, sembra avere un singhiozzo. Quasi venti giorni è durata l’orribile agonia della povera Adelaide. L’avvocato Giuriati ha davanti una montagna. Un orribile delitto, un reo confesso, una vittima debole e in balia del suo carnefice, le lunghe, atroci sofferenze di questa prima della morte.

Venti giorni di agonia, un brivido attraversa il pubblico. Adelaide aveva appena 37 anni. Bianchi gira gli occhi sugli altri membri della giuria, quasi a sincerarsi che si siano bene impressi in mente il particolare. Dalla folla viene un mormorio diffuso. Il presidente Lombardini chiede silenzio, fulminando gli astanti con lo sguardo.

*****

Domenico Giuriati ha occhi neri, duri come il ghiaccio e mobilissimi, barba brizzolata che gli incornicia il volto e si appuntisce in un pizzo ben curato, capelli radi. Parla scandendo le parole, guardando ora il presidente, ora il pubblico ministero, spesso indugiando su questo o quel membro della giuria. Comincia a scalare la sua montagna processuale. Alza un po’ di polvere, cerca senza speranza di togliere un po’ di tensione di dosso a Correr: chiede che il dibattimento, date le scabrose situazioni che propone, avvenga a porte chiuse.

La Corte rigetta la richiesta e dà la parola all’imputato. Giovanni Correr racconta la sua versione dei fatti. Si capisce che ha imparato a memoria quello che deve dire, non convince nessuno. All’inizio parla con voce strascicata, poi prende coraggio: “Io sapevo come la De Vidi avesse pratiche illecite con altri ed io stesso nel passato recente la colsi in un campo mentre ella se ne stava con un uomo. Bisogna sapere come a questa donna io avessi fatto un prestito di lire 24 che essa si era obbligata a restituirmi”.

Ecco, salta fuori il famoso debito. La roccaforte della difesa di Correr. Una roccaforte che sarà demolita dai testimoni.

Quella sera (“la sera fatale” dice solennemente il semianalfabeta Correr e la gente sorride) Giovanni si è fermato a lungo in un locale di Cendon, l’osteria Acerboni. Ha giocato, ha bevuto, ha perso. Gli viene in mente quel debito che la De Vidi aveva nei suoi riguardi. Prima di fare ritorno a casa, pensa di passare a riscuotere.

La povera Adelaide non li ha quei soldi, e offre in cambio l’unica cosa che possiede. Se stessa.

“Allora essa mi provocò ed ebbi commercio illecito con lei”.

Quando ha finito, Correr torna a reclamare il suo credito. Lei si ribella, urla, vibra un colpo con le forbici che ha lì vicino. Correr si scansa a malapena, afferra un ronchetto che è sul tavolo.

“Con esso diedi un colpo senza sapere dove l’abbia colpita. Ella gridò e io fuggii. Protesto che io non ebbi l’intenzione di uccidere la De Vidi. La ferii solo perché provocato”.

Correr chiude quasi con un urlo la sua difesa. Ancora un mormorio tra la folla, non gli crede nessuno. Comincia l’escussione delle parti lese e dei testimoni.

*****

Adelaide lascia una figlia, Maria, di 16 anni e un figlio Giacomo, di 10. Non intendono costituirsi parte civile. E non lo farà nemmeno suo cognato Carlo. Carlo ha il vestito di tutti i giorni, quello con cui lavora nei campi. Guarda con occhi timidi, che sembrano due fessure.

Poi i testimoni. Nicola Orgitio è il viceispettore di Pubblica Sicurezza che ha raccolto le dichiarazioni della moribonda. Erano presenti anche due guardie e Maria Zorzi, una contadina di Biancade sulla cinquantina.

Il viceispettore parla concitato, con accento meridionale. Riferisce le parole della vittima: “Siccome non volevo affatto accondiscendere alle di lui illecite brame, così mi afferrò, mi gettò a terra e mi stuprò”.

Adelaide non aveva minacciato il Correr, né di denunciarlo, né di vendicarsi in qualche modo. Ma l’omicida era infuriato: spense il lume, tirò fuori la roncola che aveva in tasca e prese a vibrare un colpo dietro l’altro. Quando la vittima aveva cominciato a lamentarsi si era dato alla fuga.

Giuriati è in difficoltà, cerca di controinterrogare. Ma Favaretti, il pubblico ministero, è implacabile. Per tutto il giorno esibisce una serie di testimoni che confermano quanto ha detto il viceispettore. Chiariscono qualche circostanza, ogni parola suona come una campana a morto per Correr. La maestra Enrichetta Mantovani racconta che Adelaide non aveva voluto dire a nessuno come erano andate le cose, nemmeno il nome del feritore. Aveva atteso che fosse il funzionario di Pubblica Sicurezza a interrogarla.

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Treviso, Corte di Assise, 8 febbraio 1882

Ma nemmeno al viceispettore Orgitio, Adelaide De Vidi aveva detto tutta la verità.

Lo rivela il giudice istruttore Ferdinando Munari. Per vergogna aveva taciuto di essere incinta di cinque mesi. La realtà che emerge suona come una condanna anticipata per Correr, una realtà ancora più cupa, più terribile.

Giovanni Correr aveva una relazione da qualche mese con Adelaide. Quando aveva saputo che la donna era in attesa di un figlio da lui, era stato preso dal terrore che sua moglie e suo padre scoprissero la tresca. E aveva ucciso.

Munari riferisce ancora parole della vittima: “Io credo che il Correr abbia inteso disfarsi di me e del nascituro. Io non domandavo nulla a lui, perché vivevo del lavoro delle mie braccia andando ad opera da Alessandro Bianchini. Quello che dico è la verità. Sono sacramentata e presso a morire”.

Un omicidio premeditato, freddamente progettato. Ora Correr è un mostro agli occhi di tutti. Anche perché i testimoni descrivono Adelaide De Vidi come una donna buona, generosa, dedita al lavoro, capace di sfamare con le sue braccia i due figli. E nessuno dubitava che fosse onesta: la scoperta della sua relazione col Correr era stata una sorpresa per tutti.

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Treviso, Corte di Assise, 9 febbraio 1882

Il giorno della sentenza. Domenico Giuriati tiene una lunga, appassionata arringa. Profonde ogni sua abilità oratoria. Sostiene che la premeditazione non è stata provata. Correr ha solo ferito, senza intenzione di uccidere.

L’imputato ha la testa bassa, tra le mani, sembra piangere. Sa di non avere speranze.

Alle 19 arriva la sentenza. I giurati non hanno speso molto tempo per decidere la piena colpevolezza di Correr.

Il delitto è avvenuto “con prodizione avendo il Correr simulati atti di amicizia e di amore per trarre nella insidia la vittima e con premeditazione”.

Tuttavia i giurati riconobbero a Correr le attenuanti generiche e questo gli evitò la pena capitale. Fu condannato ai lavori forzati a vita. Dopo aver pianto per tutto il giorno, Giovanni Correr ascoltò la sentenza freddo, quasi indifferente.

Tre giorni dopo, il 12 febbraio, ricorse in Cassazione ma il ricorso fu respinto.

Cominciò il suo pellegrinaggio in tutti i reclusori d’Italia. Alghero, dove rimase cinque anni, poi all’Asinara per nove. Quindi a Portoferraio per tredici anni e a Pianosa dove scontò gli ultimi diciotto mesi. In questi luoghi il senso del tempo che passava e dell’espiazione era dato dal peso della catena. Alcuni imputati trascinavano anche dieci chili di ferraglia. Alla fine, a forza di farsi togliere anelli in virtù della sua buona condotta, Giovanni Correr arrivò a 600 grammi. Un giornale scrisse che, in Italia, soltanto tre o quattro detenuti erano sopravvissuti negli ultimi tempi a trent’anni di lavori forzati.

Dall’Asinara chiese una commutazione della pena, ma la sua richiesta fu respinta. Qualche tempo dopo riprovò dal reclusorio di Portoferraio e questa volta la richiesta ebbe esito migliore, perché intanto il codice penale era cambiato. La pena fu commutata in trent’anni.

Non ricevette mai una visita dei suoi familiari.

Ma durante la reclusione imparò a leggere e a scrivere quanto bastava per mantenere i contatti epistolari con i figli e la moglie.

Può cambiare un uomo? Può cambiare davvero?

In quelle lettere Giovanni Correr implorò mille volte il perdono. Ripeteva che aveva buttato via la propria vita e rovinata quella dei suoi perché la sua testa era piena di fumi malvagi. Che quei fumi erano scomparsi e pregava Dio di tornare a rivedere i famigliari. Erano lettere struggenti, piene di verità profonda.

*****

Giovanni Correr esce dalle prigioni di piazza Duomo alle 9 di mattina di mercoledì 25 gennaio. Lo attende un capannello di curiosi, i due figli maschi, Luigi e Antonio, e un cognato. Due agenti di Pubblica Sicurezza in borghese lo scortano per le ultime pratiche all’ufficio della questura, in Calmaggiore.

Giovanni Correr ora ha 58 anni.

Sorride tranquillo, risponde a coloro che gli fanno un cenno di saluto. Indossa il suo vestito nuovo, color cenere.

Fuori stagione.

*****

Il mare di notte, in tanti anni di isole e di colonie penali, Giovanni non lo aveva mai visto.

Il mare di notte era solo un odore, come di marcio e putredine, che giungeva a folate, e il rumore dei marosi violenti sulle scogliere, era la brezza gentile nelle notti afose d’estate.

Alghero, Asinara, Pianosa, Portoferraio. Trent’anni a vagabondare da una colonia agricola all’altra, coi ferri ai polsi e alle caviglie, e addosso gli sguardi curiosi e impauriti della gente. Contando gli anelli che gli venivano tolti dalla catena, ogni anno di buona condotta un po’ di peso in meno da tirarsi dietro.

A testa bassa, i pugni sulle tempie, gli occhi fissi sul pavimento sporco del ponte. I traghetti che lo portavano da un penitenziario all’altro. Col sole, con la pioggia, come capitava. Ma il mare di notte mai.

Lì, davanti a Portoferraio, si stagliava il castello di Licari. Turrito, di pietra robusta, artigliato alla scogliera.

Quante volte, mentre metteva in fila i mattoni di un muro o misurava con l’occhio esperto di chi fa il muratore da sempre, le dosi di calce e sabbia per fare la malta buona, Giovanni aveva sentito raccontare delle cinque figlie del castellano.

E le notti passate a sussurrare col suo compagno di letto. Li incatenavano a due a due per paura che scappassero. O magari per punire una infrazione minima commessa durante la giornata. Così era impossibile dormire, trent’anni di notti bianche, di dormiveglia, di sonno sospeso. A Portoferraio aveva diviso il pagliericcio duro come una tavola con un ergastolano più vecchio di lui, un piemontese che in una notte di follia aveva ammazzato i suoi tre figli. Piangeva ogni notte e parlava del nobile cavaliere che difendeva quei posti ed era stato ucciso dagli incursori feroci del Barbarossa, un po’ guerrieri e un po’ pirati.

Le sue bellissime figliole, per non cadere preda degli invasori, avevano scelto la fuga più ardua, quella degli scogli. Erano morte così, tenendosi per mano, quando la più vecchia -ma aveva solo 15 anni- che era anche la più bella di tutte, era scivolata in acqua ed era stata subito rapita da un’onda pietosa.

Aveva occhi chiari e i suoi capelli avevano lo stesso colore lucente delle ali dei gabbiani. Sapeva bene cosa sarebbe accaduto a lei e alle sorelline, se fossero state raggiunte dai feroci inseguitori, eccitati e infoiati. Si era lasciata andare di proposito e aveva trascinato le altre.

In silenzio, solo il rumore della risacca e la luna alta nel cielo.

Ma ogni tanto, col plenilunio, tornavano a correre sulle scogliere vicino al castello, e ridevano e giocavano. I lori strilli erano la stessa cosa dell’urlo degli astori e del gheppio, unici abitatori ormai delle rovine del castello.

Giovanni sentiva Ansaldo (questo era il nome del suo compagno) piangere e ripensava alla sua vita insensata, a Biancade, al nido della sua casa. Ai suoi figli che non vedeva da tanti anni e che però gli scrivevano. La malinconia gli stringeva il cuore. E c’era in lui un dolore grande perché sapeva che mai niente, nessuna pena avrebbe espiato il delitto che aveva commesso. Troppo grande e orribile, troppo sangue. Il più vecchio dei suoi figli, Luigi, aveva tre anni quando lui era stato arrestato. Il secondo, Antonio, aveva ventinove mesi. E la più piccolina era nata da neanche venti giorni, che si poteva quasi dire che non l’avesse mai presa in braccio.

Mai, però, aveva ricevuto una loro foto. E lui, naturalmente, non aveva potuto inviare alcuna immagine di sé.

Perfetti sconosciuti, in un certo senso.

Il mattino in cui uscì di prigione strinse il braccio a suo figlio Luigi. “Uno di questi giorni, gli mormorò, mi porti al mare e mi lasci dormire sulla spiaggia. Torni a prendermi il giorno dopo”.

Luigi disse sì, poco convinto. Non capì proprio.

Giovanni pensava alla notte orribile del delitto e del suo arresto. A quei panni che gli erano stati messi addosso dai carabinieri. A quello che aveva fatto, alle sue mani sporche di sangue, al processo. Alla sua vita sciupata.

 

Sono stato messo sulle tracce
della vicenda di Giovanni Correr
da uno scartafaccio rinvenuto in un archivio privato.
Forse il progetto di un libro mai scritto.
Una cartellina spessa, coi nastri grigi,
di quelle che una volta servivano
a conservare i quaderni di scuola.
Un’etichetta sopra, quasi un titolo:
Come cambia un uomo.
Vi erano raccolti appunti e testimonianze
che il giornalista Paolo B.
aveva messo insieme un po’ alla rinfusa.
Giovanissimo cronista de Il Progresso
all’epoca del delitto, aveva seguito il caso,
come giornalista del Gazzettino,
trent’anni dopo, all’uscita dal carcere del Correr.
In quell’occasione lo aveva intervistato.
Aveva (forse nei giorni
successivi alla liberazione)
copiato anche alcune delle lettere
scritte da Correr
nei diversi reclusori
Gli era parso di cogliere
il cambiamento profondo dell’uomo.
La sua solitudine, la sua voglia di sopravvivere,
la sua presa di coscienza del male recato
ad una povera donna innocente. (G. D. M.)

Si ringrazia il personale della Biblioteca Comunale di Treviso, in particolare il dottor Luigi Perino, responsabile della sezione manoscritti e libri rari.
E inoltre lo storico Ivano Sartor per la consulenza relativa ai luoghi e ai personaggi di Roncade e Biancade tra Ottocento e Novecento.

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