ANNA MARIA FEDER PIAZZA
UNA EDUCATRICE “RIBELLE”
PAOLINE EDITORIALE LIBRI MILANO
COLLANA UOMINI E DONNE
Anna Maria Feder Piazza era donna del dubbio e aveva voce di profezia. Attraversata dal dramma e protagonista di una straordinaria vicenda umana, fu educatrice fuori degli schemi tradizionali. La volontà di farsi carico delle esigenze giovanili la portò ad offrire risposte valide a chi voleva uno scoutismo e una suola liberi e coraggiosi. Semplicemente aveva imparato a scommettere sulla creatività degli altri. Contro tutto e contro tutti.
Anna Maria Feder Piazza ha chiuso la sua vicenda esistenziale, straordinaria e intensa, nel 1987 a Treviso. Era nata a Pesaro nel 1933 e la sua vita si è svolta nel segno di una dimensione personale di energia, di proposta continua e incessante, di profonda riflessione. Educatrice, scrittrice, in viaggio e mutazione perenni, instancabile nella sua indagine del proprio e altrui animo. Di lei è stato detto che possedeva il carisma della profezia e dell’itinerario mistico. Ha insegnato a generazioni di allievi, ha fondato lo scoutismo femminile (giovanissima, nella Treviso misogina e un po’ bigotta del secondo dopoguerra), ha radunato amici, alunni, interlocutori. Ha ispirato e indirizzato l’arte di un grande pittore e incisore come Francesco Piazza, suo marito. Lei il vento, sempre in movimento, capace di scompaginare tutto, lui roccia, la stabilità. Ha costruito, alla periferia di Treviso una casa-universo che è diventata polo di attrazione per tanti. Più di un luogo privilegiato di dialogo e molto di più di un banale salotto letterario: un vero e proprio porto di mare in cui c’era spazio per tutti. In libertà assoluta: dall’intellettuale all’industriale, dal politico all’operaio. Aveva il dono grande della maieutica. Suscitava emozioni, di ognuno faceva emergere il meglio, orientava scelte di vita. Ironica e fantasiosa, concreta e curiosa, colta e sensibile, ha messo la parola (letta, comunicata, ascoltata) al centro della vita. La malattia l’ha devastata, ma non ne ha scalfito l’anima. Questo libro è testimonianza di Anna. Dei suoi scritti, delle parole di chi l’ha conosciuta, dell’eredità morale.
INTERVISTA DAL SITO DELLE EDIZIONI PAOLINE
(da cui si può scaricare anche una rassegna stampa)
http://www.paoline.it/site_ecomm/libreria/prodotto.asp?dep_id=14&IdProd=4084
http://www.paoline.it/content/article.asp?intIdArea=9&intIdCategory=59&intIdArticle=1201
http://www.paoline.it/content/article.asp?intIdArea=9&intIdCategory=42&intIdArticle=137
Lei scrive che quando Anna parlava, usava parole semplici, essenziali, ma efficaci e comunicative; sapeva farsi capire. Quale era il suo segreto?
Anna era persona complessa, perfino complicata. Ma sapeva elaborare, tradurre. Aveva talento naturale per questo, ma ci lavorava anche sopra, affinava gli strumenti. Fondamentale è stata l’esperienza scout. Ma soprattutto è dominante l’assimilazione della parola biblica. In particolare il Salmista: leggeva, assimilava e imparava a dirsi e a dire. In questo entravano concreta prassi quotidiana ed esperienza mistica. Alla pari.
Da chi Anna ha ereditato un profondo senso dell’impegno e una grande apertura agli altri?
Credo che avesse straordinarie risorse nella sua anima. Un carisma innato e irripetibile. Una sensibilità di pelle, di cuore e di cervello. Che lei nutriva con contatti umani, con letture continue (soprattutto gli scrittori mitteleuropei e gli spiritualisti francesi, grandi indagatori dell’animo umano). Era tollerante nel senso alto del termine e, ad un tempo, rigorosa, esigente, selettiva. Non è un paradosso: tutto ciò appartiene alla sua eccezionalità. La sua personalità avvolgeva, penetrava, metteva in crisi. Ma non fagocitava. Aveva dubbi, mai certezze. Talora navigava a vista, talora si confessava impotente, incapace di capire. Era la sua grandezza. Si comprendeva che l’ovvio e il banale non abitavano in lei, non parlava mai a caso. E possedeva la dote dell’ironia. Enunciava un problema e ne prendeva le distanze, lo circumnavigava, lo faceva passare sulla bocca di tutti. Non c’erano soluzioni definitive, ma intuizioni. Stimoli. Direi così: chi le stava vicino sentiva il bisogno di elaborare in proprio, non di attingere risposte.
Com’era Anna come educatrice?
Sapeva prendere le pietre scartate dal capomastro e trasformarle in testata d’angolo. Anche questo un dono grande. Ha convertito alla lettura e alla riflessione alunni “impossibili”. Che ora la ricordano con gratitudine infinita, attribuendole la svolta della loro vita. Ha lavorato in frontiera in una scuola media di periferia e ha trasfuso nel suo insegnamento l’esperienza scout. La vita come avventura, l’apprendimento come scoperta continua, la cultura come serbatoio di emozioni. Non insegnava, orientava. Dava chiavi di lettura per il grande enigma dell’adolescenza e della vita intera.
Come ha vissuto la sua vita matrimoniale?
Ha sposato (tardi) l’uomo che ha sempre amato, il grande pittore e incisore Francesco Piazza, purtroppo a sua volta mancato in questo luglio 2007. Credo che sia stata fondamentale nell’ispirarne le scelte artistiche. Erano il vento e la roccia, sempre in dolce competizione. Innamoratissimi, capaci di darsi impulsi reciproci. Insieme hanno costruito una famiglia che non ha avuto figli fisici ma una moltitudine di figli spirituali. Uno dei testimoni che parlano in questo libro dice che un giorno gli venne spontaneo chiamarla mamma.
Un capitolo del libro è intitolato “gli anni del carnet”. Di che si tratta?
Sono le pagine che lei ha scritto negli anni fervidi del suo scoutismo. Una cosa normale per gli scout. Solo che Anna ha trasformato la sua scrittura in un racconto di vita che lascia stupiti e ammaliati. Pagine di profondità agostiniana, il quotidiano vissuto tra banalità e tensione metafisica, la ricerca della propria misura esistenziale: sono il nodo duro di questo libro.
La figura di questa donna è ancora attuale oggi?
È una domanda perfino superflua. Donna in ricerca, perennemente sul filo di rasoio del disagio esistenziale e dell’accoglimento sorridente del disegno provvidenziale. Anche nel dolore e nella malattia. Come Giobbe ha detestato il suo corpo e benedetto il Dio che sentiva sopra di sé. Resta vivo il suo messaggio educativo, restano vive le sue intuizioni, il suo modo di gestire il rapporto con ogni interlocutore. Restano vive la sua semplicità spirituale e la sua complessità intellettuale. Chi legge questo libro non rimane indifferente. Troverà ricchezza e spunti di elaborazione personale. Forse risposte alte.
Questo che segue è il capitolo introduttivo.
Ho portato il mio messaggio,era piccolo ma mio.
Sono stata un assoluto,
perché sono stata libera.
Vorrei che la roba mia fosse di tutti,
compresi i miei carnet
che ho scritti per me e per tutti:
poca roba, ma assolutamente sincera.
(dal carnet di Anna Maria Feder Piazza, 30 agosto 1960)
…Un giorno, quando di me non ci sarà più un corpo ma un ricordo, allora forse capirannocon approssimativa chiarezza
cosa bruciava dentro di me.
(dal carnet di Anna Maria Feder Piazza, settembre/ottobre 1959)
<<Io che adoro la luce>> <<È il momento, Anna>>.
Don Firmino Bianchin apre piano la porta della stanza al quarto piano del reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale di Treviso.
Incontra i suoi occhi. Vivi, nonostante respiri con grande fatica e il suo corpo, prostrato dalla malattia, non reagisca più. È il momento.
Don Firmino è lì per l’ultimo sacramento.
Glielo sussurra. Chiede se vuole che gli amici che sono fuori della porta entrino e partecipino. Francesco Piazza, fino all’ultimo, ha voluto nascondere la gravità del suo stato alla moglie. Non vorrebbe che le si dicesse della fine imminente.
Anna riflette un po’.
Poi dice: <<Mi piacerebbe avere tutti intorno ma ho paura che non reggano. Preferisco essere sola>>.
La mattina seguente don Firmino è ancora lì. La comunica. Entrano i medici per il giro di visite. Anna li guarda e li invita con fermezza a uscire.
<<Ciò che sto facendo in questo momento>>, dice, <<è immensamente più importante per me>>.
La morte sopraggiunge poche ore dopo.
Si concludeva così l’avventura terrena di Anna Maria Feder Piazza.
Anna, dalla grande statura carismatica. Vivificata e animata dal soffio vitale della profezia nella semplicità quotidiana, nella miriade dei rapporti affettivi e intellettuali che aveva saputo e voluto tessere, nella sua disponibilità all’accoglienza, nella sua sofferenza, nel suo macerarsi in ricerca.
Don Firmino racconta gli anni fervidi in cui l’aveva conosciuta, arrivato nel quartiere trevigiano di Santa Bona, alla sua prima esperienza pastorale, nel 1970.
<<Era il gruppo dei primi preti>>, ricorda, <<che hanno seguito il curriculum di studi rinnovato alla luce del dettato del Vaticano II>>. Anni belli e fecondi, affrontati con entusiasmo e determinazione, anche se l’impatto con i nuovi atteggiamenti pastorali provocava reazioni e incomprensioni.
<<Fondamentale per la nostra proposta era la riscoperta della Parola come centro propulsivo della vita pastorale e il lavoro svolto nell’ambiente scout fornì una cartina di tornasole significativa. Non si trattava di sostituirsi ai capi e alle gerarchie, anzi formulavamo una proposta dinamica e nuova a un mondo, come quello scout, che trovava giustificazione e alimentazione nella tradizione>>.
Don Firmino propose di cercare, proprio nella Parola, motivazioni nuove, sulle tracce e alla ricerca di un progetto provvidenziale che è chiamata per ognuno e rispetto al quale serve elaborare una risposta. <<In un contesto sociale, morale ed etico in cui si tendeva a liquidare Dio con delle prestazioni rituali, era una provocazione forte: al Dio che parla, si impara a rispondere con creatività e protagonismo>>.
Sono anni anche di grandi crisi e rivolgimenti, della fine del collateralismo. E la liturgia viene ad assumere un ruolo fondamentale. Lodi, vesperi, compieta: nei campi scout si organizza la preghiera in modo diverso, partendo dai salmi. La giornata è segnata e attraversata dalla preghiera. Il percorso scoutistico ne viene rivitalizzato: è la preghiera a indicare la strada per cercare motivazioni più profonde. <<Una scoperta che alimentava cammini>>. Era inevitabile che il modello proposto ai ragazzi influenzasse l’intero impianto del gruppo (che era il Treviso 2) e soprattutto i capi.
Anna, con la sua sensibilità spiccata, avvertì in modo acuto il problema e la trasformazione in atto. Si avviava ai quarant’anni: colta, strutturata, con una educazione consolidata, con una sua proposta culturale da offrire agli altri organizzata, già formata.
Ci si potevano attendere da lei rigidità, incapacità di capire e di mettersi in sintonia. Oltre a tutto veniva dalla famiglia di un vecchio militare. <<Ma>>, sottolinea don Firmino, <<di tutto questo Anna ha saputo parlare in modo affascinante e contemporaneo.
Ha assimilato, ha colto l’essenza. Ha ulteriormente elaborato e ha trasmesso. Non ha copiato, ha saputo rielaborare. Qui si è riconosciuta la statura carismatica di Anna.
Creare mobilità in una persona che aveva una sua cultura e una sua formazione consolidate è una sorta di miracolo>>.
Quella di Anna fu soprattutto voce profetica, anche se non clamorosa, pur se sommessa. Mentre lavorava su se stessa coinvolgeva gli altri, li convinceva. Tutta la gente che si trovava a parlare attorno a lei e a Francesco Piazza, nella loro casa di via dei Biscari. Magari chiacchierava, ma poi i discorsi prendevano una svolta di impegno.
Scattava una interazione che trascinava e convinceva.
Un ambiente borghese che riusciva a fare itinerario, a cercare un cammino: ecco la centralità di Anna. Era lei che alimentava la ricerca. Partecipava alle lezioni di don Firmino e, quando non poteva, se ne faceva registrare le parole.
La catechesi ai bambini di Santa Bona procedeva su questa falsariga. Don Firmino proponeva chiavi di lettura e lasciava ai catechisti il compito di elaborare.
<<Competenze che offrivano un tutto nella parzialità>>, dice,<< non direzionalità ma lavoro di elaborazione stimolato nei singoli>>.
Anna svolgeva un lavoro di regia, dietro le quinte. Era autorevole, decisiva nel ruolo di tessitura. Con riferimento esplicito al lavoro interno allo scoutismo trevigiano, la trasformazione culturale portò alla elaborazione di un importante documento, imperniato sul concetto di pregare la legge.
Un documento che riflette appieno il cambiamento. <<Ci è parso>>, vi si legge, <<di aver ritrovato lo scoutismo più nuovo e profondo e il cristianesimo come il lievito che fermenta, il seme che esplode, la luce che rivela noi stessi, gli avvenimenti e le cose.
Studiare, approfondire, agire, crescere, vivere l’avventura dentro l’attuale storia, tutto era importante e primario, eppure mancava qualcosa, perché in tutte queste cose portavamo noi stessi: il nostro limite, la nostra visuale. Occorreva dialogare oltre che con la storia con Qualcuno che è al di là di essa e cercarlo. Non più come volevamo noi, ma come voleva lui.
… Credendo a ciò abbiamo illuminato la legge con la luce della sua Parola; l’abbiamo studiata tra di noi, senza dimenticarci di lui…
È nato così il bisogno di pregare, come metodo di approfondimento e di assimilazione della legge scout, ora vista in quella grande luce della legge di Dio. Ci siamo ricordati della parola del Signore come si legge in Giovanni (4, 21-23): “Credimi: viene il momento in cui il dialogo con Dio non sarà più legato a questo monte o a Gerusalemme, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini dialogheranno col Padre guidati dallo Spirito e dalla rivelazione di Gesù”.
Abbiamo sentito che tutto doveva partire da qui, che il nostro pregare e approfondire doveva mutare… Anche l’esperienza del campo ha subìto notevoli mutamenti: tre momenti della giornata erano riservati a questo modo di pregare. Il loro scopo era quello di creare un’atmosfera serena e impegnata su contenuti che permettessero di far lievitare l’intera giornata, conducendola passo passo verso la celebrazione dell’eucaristia, questa volta non più improvvisata e oscura ma un po’ più personalizzata. Il dono di Gesù assumeva un linguaggio e un’offerta comprensibile e aderente all’esperienza dei ragazzi, liberandoli dalla triste impressione di qualcosa di abitudinario e posticcio.
In questa cornice, capo, assistente e unità erano impegnati nella comune crescita di uomini situati nella loro storia, nei loro problemi, senza mai dimenticare chi fosse l’origine e il compimento del loro progetto>>.
La liturgia che partecipa valori attivi. Con Anna emerge una personalità capace di cogliere il nuovo, di viverlo con protagonismo assoluto.
Anna era una donna del dubbio, non facile agli entusiasmi. Era sorretta da una grande rettitudine coniugata con una acuta sensibilità femminile. Il dialogo con lei e attorno a lei non era mai banale. Anche se muoveva da motivazioni apparentemente frivole, acquistava ben presto una sua profondità. Emergevano i valori della verità perché la sua non era una problematizzazione frustrante, finalizzata a se stessa, ma propositiva. Faceva sempre scattare tensioni positive.
Ed era anche molto esigente con se stessa. Le problematiche diventavano in lei dramma e angoscia, la costringevano a muoversi alla ricerca di approdi sicuri. Nella sua avventura terrena Anna ha compreso che le risposte e le sicurezze vengono dal mistero della rivelazione.
Alimentava questa realtà in una dimensione orante. Si è spostata dalla devozione e ha percorso il cammino della parola e dell’incontro. Nei salmi ha trovato parole di sintesi. Le ha riprese, meditate, interiorizzate. Le ha recitate, trovandovi lo strumento per raccogliere, condensare, raccontare il suo vissuto.
Quella di Anna è stata dunque una vita strutturata in una dimensione mistica perché, come dice don Firmino, <<ha imparato a dirsi a Dio, usando parole di sintesi e di rivelazione>>.
Nel momento della morte è arrivata al culmine di questo sentiero luminoso. Come Giobbe ha detestato il suo dolore e la sua sofferenza, ma vi ha scoperto il Dio che la consolava.
Tre mesi prima di morire volle partecipare al matrimonio di Berto Piazza. Si confidò con don Firmino: <<Vengo per solidarietà, ma lei sa che la mia testa è altrove. Che ho altri problemi>>.
Due realtà così stridenti: un matrimonio e la sua morte ormai vicina. Era una persona abituata ad abitare con se stessa. Sintetizza don Firmino: <<Aveva un mondo interiore, aveva interiorizzato il deserto, l’eremo, che non è separazione, ma è una vita di concentrazione su elementi che costituiscono l’asse portante del proprio vissuto, della propria identità. Il suo impegno è stato un discendere dentro, abitare sé, per trovare i punti di solidità della propria identità, in una situazione conflittuale, che tende al dubbio. Questo fa emergere la grandezza del personaggio e fa capire anche perché è stata una persona che aveva un fascino per cui tutti convergevano a lei.
Riusciva a catalizzare, a raccogliere persone attorno perché tutti intuivano il suo fascino interiore. Questo, che potrebbe esser letto come la maturazione che porta a diventare “maestri dello spirito”, ha portato lei a una maternità spirituale. Tutto quel mondo che veniva da ogni parte, e anche a volte con problemi molto grossi, perché andava da lei, nella sua casa? Non per la simpatia esteriore che emanava, e neanche per il salotto della sera, ma per questo richiamo più profondo>>.
Questo è stata Anna Maria Feder Piazza. Si è data sempre con partecipazione e solidarietà. Sempre in ricerca, sempre disposta a un di più.
Ha saputo, nei momenti felici e in quelli più difficili, trovare i punti di solidità della propria identità. E dire, dire con voce di profezia.
*****
Gli amici di Anna mi hanno affidato l’incarico di scrivere un libro su Anna.
Avevo pensato alla formula dell’intervista, parlando con molte persone che l’hanno conosciuta. Poi però ho rinunciato a definire i modi del racconto. E perfino i tempi, in una dilatazione che talora ha instillato la paura di non dipanare il gomitolo, di non uscire nella luce di una proposta piena e chiara della personalità di Anna.
Entra anche un paradosso in questo. Anna è viva, presente. Ha scritto moltissimo. I suoi carnet de route (cinque volumi densi), articoli, appunti vari, abbozzi di diario, annotazioni su agende, lettere (un epistolario nutrito da un numero altissimo di corrispondenti). Scrive su ogni brandello di carta.
Recupera carta come può. Mentre in classe i suoi alunni svolgono il tema, lei strappa un mezzo foglio dalla loro minuta. Poi copre con una mano l’intestazione perché l’alunno, avvicinatosi alla cattedra per chiederle una delucidazione, non veda.
I fogli non hanno un lembo libero. Riempie, Anna, fino all’ultimo ogni spazio bianco. Lascia per strada punti e virgole, lei curata e rigorosa, originale e affascinante nell’espressione, ma anche dominata dall’incalzare del dire. Scrittura alta, illuminata, di travolgente efficacia. I carnet sono entità viventi. Anna, spesso, dà loro del tu, come a interlocutori intelligenti, capaci di risposta. Carnet dal cuore e dalle vene pulsanti.
Anna è viva anche perché ha tanti amici che ne vivificano il ricordo in modo istituzionale (la Fondazione a lei intitolata), ma ne rendono anche quotidianamente fresca la memoria proponendola affettivamente. La traccia che Anna ha lasciato è fertile, solco aperto pronto a ricevere il seme.
Ecco il paradosso. La ricchezza ha disorientato. Il materiale da leggere e catalogare si è nel tempo dilatato. Talora la densità delle parole mi ha spaventato.
Molte cose hanno messo alla prova la mia scrittura, rivelandone l’inadeguatezza.
Provo a mettere in fila il più debitorio e incompleto degli elenchi.
La disponibilità di Anna, perennemente alla ricerca di una misura personale e però sempre attenta agli altri. Un equilibrio tra essere e dare, precario. L’affetto che ha dato e ricevuto, la lucida capacità analitica, l’intuizione del genio artistico di Francesco Piazza (e la stessa tenerezza infinita e struggente con cui Francesco rispondeva alle sollecitazioni della sua donna). E il senso rigoroso, talora perfino calvinistico, dell’esistenza intesa come impegno. A prescindere dalla meta, dal premio.
A che serve lottare, servire, vincersi, superarsi, sacrificarsi in silenzi? Vale la pena di non uscire mai dalla pista a costo di qualunque sacrificio? Io a ricompense non voglio pensare, voglio risolvere il problema calcolando solo la cosa in sé, altrimenti tolgo a ogni atto la sua bellezza, la sua nobiltà. Al di là della vita io credo in un luogo di pena e in un luogo di gioia ma il solo pensiero di fare anche il più sublime sacrificio, per guadagnarmi un posto onorato e pacifico, mi dà la nausea perché si cambia in un sublime egoismo.
Il suo porsi in ascolto e in dialogo con le cose. Parla al suo carnet: <<Da te ho imparato ad amare le cose semplici, ad avere il coraggio delle mie opinioni, a giudicare le persone per quel che valgono, non per gli abiti che hanno addosso>>. La sua religiosità sofferta, dagli itinerari complessi. Anna avverte con dolore il silenzio di Dio che si coniuga con la percezione della inadeguatezza dei mezzi umani a mettersi in sintonia con il metafisico.
Annota in una sua pagina che risale alla Pasqua del 1954, l’anno in cui compie la maggiore età:
Il grandioso mistero non lo sento perché non lo capisco, sono troppo meschina per comprendere appieno tutto, per smarrirmi in una immensità di gioia e di riconoscenza. Le parole della Chiesa a volte mi risultano oscure e vuote di significato attuale. Perciò la mia comunione pasquale non è stata differente dalle altre. E anch’io ti amo, Signore, e voglio amarti anche quando tutto tace in me e spero che tu vorrai perdonarmi se non so far altro che amare, e spesso male, e se questo amore mi lega talmente alle persone che avvicino.
La convinzione, che appartiene a tutta la vita di Anna, del primato della parola scritta, detta, comunicata. Tale primato è alla base del suo insegnare e, più in generale, della sua attività di educatrice. Alla base, anche, del suo rapporto con la vita. La vita è accettazione dell’evento, ma anche consapevolezza che può esserci un abisso tra l’ieri e l’oggi di un individuo. Fondamentale è la testimonianza che Anna offre del suo rapporto con la scrittura il 1° aprile del 1960. Sta riflettendo sul valore della vita, sul suo rapporto con Checco Piazza, sulla scelta tra solitudine e rapporto di coppia. Scrive dopo alcuni mesi di lontananza dal carnet:
Da giorni, anzi da mesi, ogni sera, prima di andare a letto, stabilisco che devo scrivere, sento l’intenso desiderio, l’esigenza di raccogliere le fila sparse della mia esistenza, l’evoluzione della mia anima prima che tra me di ieri e me di oggi ci siano abissi tali che l’una non riconosca più l’altra. Da mesi rinuncio a compiere questa opera che sento come un dovere verso me stessa. Brandelli di pensieri e notazioni, intuizioni e interrogativi, mi salgono alla penna ogni giorno ma io li lascio cadere. Mi manca il tempo o forse il coraggio. Io sono diventata estranea a me stessa. Mi sento in moto, un distacco veloce e irrefrenabile da quella che ero e mi è impossibile trovare delle risposte esaurienti ai miei problemi, anzi al mio problema. Ed è per questo che non posso scrivere. Mi guardo con occhi staccati e sento con rassegnazione che la mia vita non ha più importanza per me.
Alla ricerca di chiavi di lettura. Da una lettera del maggio ’66 a Francesco Piazza, che sposerà poco più di due anni dopo. Fin dall’esordio si intuisce che è una lettera speciale, diversa. Non è indirizzata, come di consueto, <<al mio Chico, al mio Chichino>>(qualche volta, ironica, scrive questi due nomignoli col k). Chiama Francesco <<amore mio>>. E gli dice:
Ho scavato fino in fondo a me stessa, e vi ho scoperto le cose che sono anche scritte nei libri, ma in tanti libri diversi. Io le porto tutte dentro di me, come tutti, ma io ne ho coscienza. Per questo vivo sapendo di vivere. Quando avevo dodici anni un prete mi disse: <<Bada a te stessa e a tutto quello che fai. Tu potrai fare o un grande bene o un grande male, non hai scelta, sei come una centrale elettrica ad altissima tensione>>. Se avessi trovato un uomo normale forse lo avrei abbandonato o forse avrei tradito me stessa. Tu mi hai insegnato a essere me stessa e hai lasciato intatta la mia indipendenza spirituale, non sarò mai abbastanza grata a Dio di averti messo sulla mia strada. Io sono una persona destinata alla solitudine, come tutta la gente del mio stampo che prima di ogni altra cosa deve realizzare se stessa, qualunque sia il prezzo e la strada. Pensa in che baratro di follia precipiterei se non avessi te. L’amore che ti do non è quello che nasce né dalla passione né dal dovere, ma quello spericolato per cui in qualunque anima io entri (e vi entro in continuazione suscitando attorno a me amore più di tanti altri e cercando di restituire quanto me ne danno) io posso misurare che cosa tu rappresenti per me rispetto a tutti: la grandezza d’animo, il coraggio, la superiorità intellettuale e spirituale.
Può darsi che io appaia peggiorata in questi ultimi anni perché sempre di più divento me stessa con la piena coscienza (e senza paura) di doverlo essere, ma io mi sento arricchire dentro, di giorno in giorno attraverso le mie esperienze umane e nella ricerca di tutto il divino che c’è nell’umano. Senza di te non ci sarei riuscita. Tu vorresti salvarmi da me stessa, fermarmi, strappare magari nel mio mondo tutto quello o tutti quelli che mi angosciano e mi fanno soffrire e non per gelosia ma per amore, ma non hai più voluto farlo da qualche anno a questa parte. Per questo motivo sei per me, dopo Dio, il più grande di tutti gli esseri e il più generoso e il più intelligente e quello che sa amarmi di più. Io infatti voglio essere soprattutto libera, solo nella libertà di se stessi si può amare veramente. Non posso fermarmi e non voglio. In questo grande gioco che è la vita, tutto mi è troppo stretto. È vero, ventiquattro ore non bastano per il mio amore. Ma perché dovrebbe essere diverso? La mia strada è amare, amare tutti quelli che mi amano e non mi amano, amarli seriamente, a fondo, senza riserve. Desidero una sola cosa per me: avere la coscienza di avere dato ogni giorno a chi mi era intorno tutto quello che avevo.
Devo combattere in me tutti i difetti che derivano da quest’ansia: l’orgoglio, la presunzione, l’egoismo ecc. Tutto questo è fatica. Fatica e dolore. Io cerco Dio e di vedere la sua faccia e di trovare in lui l’unità e tutto il mio amore. Finché sarò viva dovrò accontentarmi di accettare la frattura del tempo e l’angoscia di essere limitata, ma quando morirò so che vedrete tutto di me.
Pagine di spessore agostiniano, vertiginose. Un inatteso testamento spirituale: Anna ha trentatré anni, è laureata da otto, insegna, è circondata da stima e successo. La Anna che esce da queste pagine disorienterà. Essa ha lasciato di sé una immagine sorridente, coraggiosa, propositiva. Davvero era così sicura? Nel suo profondo albergavano solitudine e disperazione. Scrive nel suo carnet (inverno 1957):
Io soffro per la solitudine di tutti, di tutti noi che siamo veramente, unicamente, irrimediabilmente soli; ognuno con le proprie manie, i propri sogni, i propri problemi. Non ci sono punti di incontro, la solitudine è il fiume profondo e limaccioso che separa noi dagli altri, è invalicabile. La vita di tutti i giorni e l’amore credono di farci dimenticare la nostra solitudine, ma con lo stordimento e la superficialità… L’amore è come una zattera sul fiume e spesso non riesce a toccare l’altra riva. Noi siamo soli perché non tutto può essere detto e non tutto può essere capito.
Una cognizione acuta del male e del dolore che attraversano il mondo. Di sé, in ogni momento della sua scrittura racconta gli <<anni passati a lottare col sorriso sul volto, e rivolta e solitudine nel cuore>>. Anni da suddividere in tante ore, l’una dietro l’altra. <<Ore di cui nessuno saprà mai. E mai nessuno seppe. Ore che sono mie, tutte mie, che io amo>>.
Un’altra chiave risiede nell’estrema visività della sua scrittura, intessuta di immagini, nutrita di assorta meditazione sui valori estetici, innervata da frequenti richiami al colore. Perché è evidente non solo quanto Anna amasse il bello, ma anche quanto questo suo amore sia stato importante per il maturare della vocazione artistica di Francesco. Anna sa con certezza che <<anche la bontà è bellezza>> e che se un giorno i suoi occhi si chiuderanno alla bellezza <<il mio cuore si inaridirà>>.
Parole che leggiamo nel suo carnet, tra il ’53 e il ’54. Come non ravvisarvi perfino soggetti che saranno, molti anni dopo, carissimi a Francesco Piazza? Come non avvertirvi la stessa tensione etica ed estetica che indurrà Francesco a chiosare ogni sua incisione con un verso tratto dalle Sacre Scritture?
La luce di un ruscello sotto la luna piena, l’arabesco dei rami scheletriti nei giorni invernali sfumati di perla, la calma solenne di una cattedrale romanica, tutto questo mi è necessario come il pane che mangio. Niente riesce più a distendermi, a farmi sorridere, a farmi dimenticare ogni cosa, di una fuga di archetti pensili di un battistero medievale.
E quando non ne ho a portata di mano bisogna che me li crei, non con le mie mani, disgraziatamente non sono un’artista, ma con i miei occhi, il mio cervello, lavoro, lavoro fino a sentire una brulla distesa di terreno, come un gioco armonico di linee, di colore, di poesia. Non so come dire, ma io divento quella casa, quell’aurora, quel quadro, quella musica… Il mio guaio è questo: sento e vedo le cose con gli occhi di un pittore e di uno scultore, le sento nel loro valore di massa animata, di colore vivo, di armonia esterna che rispecchia una armonia interna di valori, di spiritualità, di umanità.
Le sento così, fino in fondo all’anima, e mi sconvolgono e mi fanno felice. Ma quando tento di renderle così come sono, capisco come è difficile riprodurre il valore e l’impressione che mi ha fatto un raggio azzurro di luna sulle nostre ombre brune sommerse e fasciate dall’onda di un canto perfettamente sentito, perfettamente riuscito.
È impossibile definire l’arte perché l’arte non è quella fissata sulla pietra o sulla tela, ma noi siamo immersi e circondati nella bellezza pura. È impossibile descriverla, si può solo sentirla, e questa è una tragedia. Sentirla, trovarla, crearla, amarla e poi sapere che non le possiamo dare la vita, che è meglio lasciarcela sfuggire tra le dita, perché se solo tentiamo di fissarla, di esprimerla, la uccidiamo.
Come sottrarsi alla suggestione che il suo rapporto con Francesco non sia maturato anche nella presa di coscienza che questa tragedia è superabile? che sia possibile fissare la bellezza senza ucciderla?
Vengono in mente certi paesaggi nevosi e desolati delle acqueforti di Piazza in cui il segno si scava in una essenzialità assoluta, nell’intervallo esatto e indefinibile tra la creazione nella mente e nell’anima e l’oggettivazione sul supporto sensibile, quando la lastra, come racconta Piazza in una sua lirica, emana odore d’incenso. E si affacciano alla memoria tante esplosioni vegetali nelle incisioni di Piazza. Fiori, alberi, arbusti: maestosi, umilissimi.
Le parole di Anna, dal suo carnet (6 maggio 1959):
Entra a fiotti la bellezza, l’armonia del creato nella mia anima e tutto profuma e io non so dire quello che provo, ma sento il valore supremo di questa gioia che non ha motivo, sento Dio immenso, sorridente…
Siamo, con Anna, anche al cuore dell’arte di Francesco Piazza. Nella sua più gloriosa felicità creativa, sempre orientata sui punti cardinali del mistero.
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Rievoca Lino Bianchin: <<Nella casa di via dei Biscari c’era sempre gente, ogni sera, e Anna, piuttosto di stare in casa a parlare di niente, proponeva quattro passi. In primavera l’itinerario era fissato dalla direzione di provenienza dei canti degli usignoli. Checco, dopo la morte di Anna, intitolerà una raccolta di sue poesie Mendicavamo canti di usignoli. Divertenti erano i piccoli conflitti che nascevano tra Checco e Anna, causati dall’iperattivismo di lei in contrasto con il desiderio di tranquillità e isolamento di lui. Checco, per giustificare la sua sedentarietà, aveva formulato la teoria che Anna, la donna, era il vento, sempre in movimento, capace di scompaginare tutto, mentre lui, il maschio, era la roccia, la stabilità>>. La roccia e il vento. Resistere e correre, lo stare e l’imperversare. Il trasgressivo e il censore, verrebbe da dire.
Sono ancora le parole di Lino Bianchin a spiegare. Sono i primi tempi del matrimonio, nella casa di via dei Biscari, a nord di Treviso, nella zona di San Paè (o San Pelajo, se si preferisce). Una casa aperta a ogni ora, con la chiave nella porta e il cancello senza lucchetti: <<Checco, nei primi tempi, si rifugiava in bagno e fumava appoggiato alla finestra perché mal sopportava la confusione. Col passar del tempo e con l’opera di convincimento di Anna Maria, lo stile della casa divenne anche il suo stile. Si viveva in una sorta di comunità senza regole scritte>>.
Anche questa una chiave di lettura, che innerva con forza uno scritto di Francesco Piazza. Una lettera, a conclusione di un momento duro, ma banale e quotidiano, scritta nel luglio del ’71, quasi tre anni dopo il matrimonio. Anna è partita per un campo in montagna, Checco l’ha accompagnata e, come si evince dalla lettera, non si sono lasciati bene: <<E così ci siamo lasciati male, tu irrigidita nell’amarezza, preoccupata perché già inserita nell’ambiente del campo scout, io confuso che non mi rendevo conto che il viaggio era finito e che una settimana di vuoto mi avrebbe separato da te. Io lo so che dovrei stare più zitto e che quando non ti capisco è meglio che ti lasci fare senza parlare, ma alla fine del viaggio (sarebbe bastato io avessi superato per poco il tormento della separazione, il senso della inutilità di tante fatiche, la stanchezza, la coscienza di sentirti così distante con le tue dubbiose certezze) mi son rovinato e ti ho amareggiato questa tua esperienza già così difficile e me ne dispiace. Pensa a quanto sia grande l’incomunicabilità nel mondo se noi due, che ci conosciamo e ci capiamo così bene da tanti anni, riusciamo ugualmente a graffiarci e a farci del male>>.
La roccia che rivisita con affetto le <<dubbiose certezze>> del vento. Mi piace pensare che Anna rispondesse proprio a questa lettera, quando scrive a Francesco (il foglio non reca data):
Immagino che adesso te ne starai pacificamente disteso a fumare l’ultima sigaretta e a goderti il frutto della rovina degli esercizi spirituali collettivi, convinto di essere più che mai in grazia di Dio. Cos’hai dentro quella testa lì? Io tante volte me lo domando e mi domando i meccanismi segreti che regolano il corso delle tue trovate e delle tue convinzioni. Poi smetto, mi affascina molto di più vederti vivere così indipendente da tutti e bizzarro, non volontariamente ma naturalmente. Piuttosto che smontarti a pezzettini e possedere di te tutti i congegni, mi limito a regolarmi sull’esperienza che ho di te senza cercare di sapere altro. Perché il nostro amore è buffo e diverso da tutti,… perché si accumula un tesoro variabile e non si conosce la matrice. Un amore non basato sul capitale, sul possesso, ma sulla rendita, è più fruttuoso e più vivo perché non si sa bene se il prossimo anno nasceranno fagioli, patate o tabacco. In quanto alla salvezza della tua anima io penso che anche Dio ti guardi con un malizioso occhio di sopportazione perché così ti ha fatto e così ti deve tenere.
Perché il vento e la roccia vivevano in simbiosi, non in dialettica. Come spiega Francesco: Senza di te non avrei più mani, / non avrei occhi, non avrei / peso per camminare.
Di Anna, mi ha avvolto il mistero denso di una personalità superiore, rara. Aveva una innata misura del mondo: l’ha lavorata e affinata per tutta la vita. Di necessità era egocentrica: nell’accezione alta del termine, e dunque – tutti i misteri alludono al paradosso – era anche infinitamente generosa di sé, attenta a ogni cosa. Senza riserve. Capace di cogliere la tipicità di ciascuno.
Magari dolce e tirannica a un tempo. Perché il mosaico dell’esistenza è costruito con tante piccole tessere quotidiane. Una volta Anna fece spostare il giorno della preghiera di gruppo perché non voleva perdere una serie di film in tv (che per la cronaca erano i film incentrati sul personaggio creato da Anne e Serge Golon, Angelica).