Mercoledì 5 Marzo 2003
Amatoriali. Al S. Marco per la Maschera d’oro il monologo di Mazzocato con la regia di Cuppone
Una sofferta lezione di storia
Mato de guera con Mardegan
di Antonio Stefani
Vicenza. Dopo gli spari e le bombe, resta sempre in città qualche “mato de guera”. Qualche reduce che ha visto cose tremende, indicibili, e il cervello gli è rimasto come scheggiato. La gente lo conosce, è abituata a quegli occhi sbarrati, a quelle frasi sconnesse. La gente, in cuor suo, ne rispetta lo statuto di sopravvissuto, di testimone d’orrori e perdite lancinanti, di atrocità insostenibili. Ma l’ordine pubblico non può permettersi di essere altrettanto compassionevole. Meglio metterlo via.
Nella Treviso del 1935 il “mato de guera” si chiama – cognome e nome, come da matricola militare – Vardanega Ugo, uno che è stato fante sul Grappa. Ci ha rimesso amici e famigliari, ne è uscito piegato e squinternato, ma solo adesso finisce in manicomio, quasi vent’anni dopo. Il colpo di grazia, lo choc definitivo, glielo infligge l’assistere alla costruzione degli ossari, dei monumenti ai caduti, dei parchi delle rimembranze. Perché Vardanega Ugo intuisce che il Regime, con la scusa di onorare quei morti, sta preparando la nazione a un nuovo conflitto facendo leva sulla retorica bellica, sul culto degli eroi “gloriosamente” caduti per la Patria.
Pazzo (forse) sì ma scemo no, comprende che i suoi compagni lasciati al fronte diventeranno il propagandistico pretesto per una ulteriore carneficina.
E adesso eccolo qui, recluso all’ospedale psichiatrico, che grida la sua ribellione in un cataclisma di ricordi, in un crescendo di accuse. Colloquiando con un immaginario dottore, evoca i suoi demoni dal fango delle trincee, dalle assurdità dei comandi, dalle strade dei profughi. Può ben farlo, lui: magari non avrà letto l’Amleto o Pirandello, però sa che un “mato” può permettersi di dirle in faccia a tutti, certe cose. Anche a costo di finire sotto chiave.
Quando Gian Domenico Mazzocato – fecondo scrittore trevigiano che deve la sua fresca fama soprattutto al romanzo Il delitto della Contessa Onigo – accompagnava al debutto esattamente un anno fa questo Mato de guera , probabilmente non immaginava che in capo a pochi mesi il suo copione, redatto con la consulenza di Luigi Lunari, sarebbe arrivato in finale alla Maschera d’Oro, né si sarebbe mai augurato che ciò accadesse in un momento in cui le cronache ne suggeriscono, minacciosamente, la dolorosa attualità.
Di sicuro, però, un testo così la chiamata al festival se la merita tutta, esattamente come l’interpretazione solitaria di Luigi Mardegan e la robusta regia di Roberto Cuppone. Raramente capita, infatti, di assistere a una sintonia così piena tra narrato e narrazione, a un episodio in cui la parola – e quella parola non può che avere la forza icastica del dialetto – scatena un impatto tanto rabbioso e straziante quanto la disperata fisicità di chi la esprime e la cruda ambientazione dello sfondo. Anzi, degli sfondi, perché quell’arrugginito letto sopra, sotto e attorno al quale il soldato Ugo da Possagno ripercorre la sua vicenda di ragazzo strappato alla vita e spedito all’inferno funge sì da drammatico emblema sanitario di ricovero e contenzione, ma diventa anche elemento scen ico in grado di evocare passaggi tra i reticolati, muri per le fucilazioni, fragile riparo dalle pallottole o dai gas, roccia di osservazione sulle postazioni nemiche.
Attentamente calibrato nei ritmi, nelle impennate, nei desolati abbandoni, proprio l’insieme dell’allestimento prende dunque alla gola, sfuma talvolta la tensione in qualche sprazzo d’amara ironia, squaderna la sua lezione di storia vista dal di dentro, rimanda volutamente ad altre pagine di letteratura nostrana sulla Grande Guerra – Lussu, naturalmente, ma anche Giulio Cisco, persino il Meneghello di certe lapidi – ma soprattutto esercita una forte denuncia pacifista contro la “vera” follia: quella cui di solito non si impone la camicia di forza, ma che si appunta medaglie sul petto.
Consenso unanime l’altra sera dalla platea del San Marco, al termine di una autentica quanto sofferta prova d’attore, per Luigi Mardegan, pronto e generoso nel girare quell’applauso alla memoria di Renato Salvato, l’indimenticabile segretario Fita, nel primo anniversario della scomparsa.