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BEATO ENRICO DA BOLZANO IL SANTO CHE VENNE DAL NORD

BEATO ENRICO DA BOLZANO
IL SANTO CHE VENNE DAL NORD
EDITRICE VELAR / ELLEDICI

copertina beato enrico 

Il testo, 48 pagine, riccamente illustrate propone la vita del santo fuori della tradizione agiografica e sulla spinta della grande religiosità popolare che l’ha sempre sostenuta.
Di lui si è occupato perfino Giovanni Boccaccio in una novella del Decameron (Giornata II, Novella I).

Questa la prima parte del testo.

E sempre venerabile sia tra noi,
Enrico
che, ornato di alti meriti,
di vera virtù fu esempio unico,
di salda fede, di pura religione,
di generosa pietà.
Lui che in vita e in morte
operò moltissimi miracoli.
(Bartolomeo Burchelati,
Commentariorum memorabilium
multiplicis historiae Tarvisinae
locuples promptuarium, libro I, p. 219)

 

IL VENETO DELLE GRANDI SIGNORIE
Di Enrico (o Arrigo o Erico -con anticipazione dell’accento sulla E- o Rigo) da Bolzano sappiamo molto poco.
Mentre a Treviso Enrico è venerato come patrono dei boscaioli, nella sua terra di origine è patrono dei contadini (associato a santa Notburga da Eben e a sant’Isidoro) e dei vignaioli.
Sul finire del Settecento, Giovanni Battista Canal dipinge il legnaiolo venuto da Bolzano sulla parete interna della cupola centrale della navata maggiore del Duomo di Treviso con una grande scure trattenuta dal braccio destro cui fa da contrappeso il massiccio rosario appeso alla cintola, dalla parte sinistra.
Un senza cognome, dati i tempi. “Il povero contadino che incallisce le mani nella fatica”, scrive un agiografo dei primi anni del Novecento, non possiede genealogie. E tuttavia può vantare una nobiltà “scritta nella coscienza intemerata, nella franchezza della fede, nella semplicità e santità dei costumi”.
Non che manchino agiografie incentrate sulla figura di Enrico.
Ma le notizie su di lui provengono tutte da un’unica fonte, quel Pier Domenico di Baone che lo frequentò assiduamente. E al di Baone si rifanno tutti gli estensori e redattori di scritti a lui dedicati.
“Pier Domenico di Baone, lo definisce Rambaldo Azzoni Avogaro, primo e quasi unico fonte dove gli altri scrittori attinsero”.
Pier Domenico, nato a Padova (tuttavia Rambaldo parla di “testimonianze invincibili” della sua trevisanità) nel 1294, era persona colta e fu amico del Petrarca (ma le notizie su di lui sono molto incerte).
Dal 1309 era vescovo di Treviso Castellano Salomone, uomo di fiducia di un altro grande santo trevisano, Nicolò Boccassino, papa col nome di Benedetto XI.
Castellano aveva affidato a Pier Domenico, giovanissimo chierico, l’incarico di soccorrere con elemosine Enrico, quel mendicante che girava per Treviso, bisognoso di ogni cosa. Probabilmente Pier Domenico gli fu vicino nei momenti del trapasso.
Il di Baone fu, nel 1359, a sua volta fatto vescovo di Treviso da Innocenzo VI. Certamente sospinto dalla fama di santità fiorita attorno alla tomba di quel mendicante, scrisse in latino, nel 1368 , una testimonianza dei suoi rapporti con Enrico.
Il fratello di Pier Domenico, il notaio Antonio, registrò, con altri due funzionari a ciò preposti, tutti i miracoli che gli furono attribuiti ed è, in effetti, questa la parte più cospicua delle notizie da noi possedute sulla figura del sant’uomo arrivato a Treviso nella seconda metà del XIII secolo dalla contea del Tirolo.
Da lì si era portato dietro il suo povero mestiere di boscaiolo e spaccalegna.
Morì il 10 giugno 1315 e si valuta che possa aver vissuto tra i sessanta e i settanta anni. Il che colloca il suo anno di nascita attorno alla metà del secolo precedente.
Sono gli anni in cui, in Italia, il regime della signoria comincia a soppiantare il sistema comunale. La trasformazione si compirà nel XVI secolo.
Anno 1256. Nel Veneto diviso tra papato e impero, Ezzelino da Romano perde Padova ad opera di una coalizione guelfa sostenuta da Venezia.
Il Veneto ha i suoi due poli politici a ovest e a est, Verona e Venezia. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIII secolo, tramonta l’astro di Ezzelino e a Verona diventa capitano del popolo lo scaligero Mastino I. È una carica annuale ma di fatto apre la via alla presa del potere da parte della signoria scaligera.
Venezia, nel 128, comincia a coniare il suo irresistibile ducato d’oro e nel 1297 procede alla cosiddetta serrata del Maggior Consiglio.
La Marca Trevigiana vive la conclusione dei conflitti tra le famiglie aristocratiche contrapposte a Rizzardo da Camino. Il buon Gherardo del Convivio e del Purgatorio danteschi era già morto nel 1306 e suo figlio Rizzardo viene assassinato nel 1312.
Dopo la prima conquista veneziana (1338-1339) Treviso entrerà definitivamente nell’area di influenza veneziana nel 1388.
Durante il 1315, anno in cui muore Enrico, l’Europa è colpita da una terribile carestia, prodromo della grande crisi del XIV secolo.


TREVISO E IL PELLEGRINO URBANO

Treviso, giugno 1315.
Nella operosa e ricca cittadina sorta in epoca preromana sulle rive di un placido fiume di risorgiva, il Sile, deve ancora scoppiare l’estate che da queste parti è verde, fiorita. Luminosa.
Treviso è retta con mano felice da un podestà che viene da Gubbio, Manno della Branca.
Città guelfa e dunque in apprensione per la delicata fase attraversata dal papato che, ormai da sei anni, ha scelto Avignone e le terre di Provenza come propria sede. Lontano da una Roma dilaniata da sommosse, faide e lotte. Per di più la Chiesa si trova in una delicata fase di interregno perché è morto da più di un anno Clemente V, al secolo Bertrand de Got, il papa guascone eletto nel tempestoso conclave di Perugia del 1305 senza essere cardinale.
Si arriverà ad un accordo sul nome del suo successore soltanto nell’agosto del 1316. Dal conclave di Lione (dopo il fallimento di quello di Carpentras) in cui Filippo V di Francia era riuscito a mettere insieme ventitré cardinali, viene fuori con la tiara papale sul capo Jacques Duèse (o d’Euse) che assume il nome di Giovanni XXII.
Treviso è poco più di un borgo, forse diecimila abitanti. Tutti si conoscono.
E in quel giugno 1315 la gente si rende conto che da alcuni giorni qualcosa è cambiato.
Non si vede più girare per le strade quel mendicante “todesco” che si era ridotto, ormai inabile al lavoro di boscaiolo, a chiedere l’elemosina per le vie della città.
Ogni tanto, lui che nulla possiede, si siede sulle gradinate del Duomo e spartisce con chi è ancora più indigente di lui, la pagnotta appena ricevuta da qualche benefattore.
È noto a tutti. Non c’è nessuno che non lo abbia caro. Nessuno che non riconosca da lontano quell’ometto grosso e malvestito. Si appoggia ad un bastone e tiene in mano la corona del rosario. Indossa un tabarro stinto che sulle spalle si restringe in due maniche simili ad ali. Insomma, non proprio un mantello, quanto piuttosto una guarnaccia, cioè uno di quei giacconi dalle lunghe falde che si usavano per lavorare nei campi.
Ha un capello piatto ma lo reca quasi sempre in mano.
Del resto che serve a lui coprirsi?
Lo sanno tutti di quella volta che si prese un terribile acquazzone, un vero e proprio diluvio, in piazza del Duomo vicino al battistero dedicato a Giovanni Battista.
Pare di vederlo, assorto in preghiera davanti ai volti di pietra bianca, incassati in alto, in una piccola nicchia incavata nel muro.
Si tratta del simulacro di due anonimi signori romani che dormivano nella vicina necropoli romana di Altino, strappato dalla loro tomba e lì collocato in forza di una pietà popolare che ha voluto ravvisarvi le fattezze di due compatroni trevisani, i santi Fiorenzo e Vendemiale.
È così preso dalla sua preghiera, Enrico, che non si accorge della pioggia che lo inonda. Tanto che un paio di passanti si fermano e lo prendono in giro. Ma non credono ai loro occhi. Il tabarro di Enrico è perfettamente asciutto.
Sotto il suo miserabile mantello, Enrico indossa un paio di brache tutto foderato di corde grosse che gli torturano ginocchia e caviglie e completano il doloroso cilicio con cui si stringe la vita, sotto il camiciotto.
Quando i calzoni si strappano, Enrico va a farsi fare un rammendo dal suo amico sarto. E una volta accade che il bravo artigiano spinga il suo ago con forza in quell’indumento pieno di corde e questo si spezzi andandosi a conficcare profondamente in un dito. Il sarto si dispera non tanto per il dolore quanto per la prospettiva di rimetterci dito e mano e perdere così il sostentamento della sua vita. Di colpo si vede davanti una esistenza segnata dalla pubblica carità e dall’ospedale.
Allora Enrico lo tranquillizza, gli tocca il dito e fa uscire miracolosamente lo spezzone di metallo. Restituisce il sarto alla sua attività.
Insomma, quell’ometto umile e insignificante è circondato da un’aura di santità che lo rende unico agli occhi dei cittadini del comune di Treviso.
Lo osservano ogni giorno fare il giro delle chiese della città e ravvisano in lui la figura bella e solitaria del pellegrino di città, del viandante che valorizza, con la sua preghiera e il suo passaggio, il panorama urbano e lo fa brillare di una luce diversa e del tutto inusitata.
Il pellegrino urbano conferisce alle vie cittadine, alle chiese, ai luoghi sacri un significato nuovo, induce alla riflessione, richiama alla meditazione. È un esempio.
Enrico già prima dell’alba è nel Duomo di Treviso per il mattutino e poi ascolta tutte le messe. Non passa giorno che non si accosti al sacramento penitenziale. I suoi confessori, Giovanni Riccio da Cusignana, Alessandro e il canonico prebendato Pier da San Zenone, debbono accogliere il sospiro delle fragilità piccolissime di cui lui si accusa.
Avverte come peccaminoso il godere della soavità del canto degli uccellini. O del verdeggiare dei campi che gli capitava di attraversare.
Poi completa le sue giornate visitando tutte le altre chiese trevisane.
Sosta davanti alle immagini sacre dipinte sugli edifici della città. Soprattutto una immagine di Maria, dipinta sulla parete, sotto il porticato della cattedrale prospiciente al vescovado.
I passanti vedono un uomo, piccolo e malvestito, totalmente rapito e assorto nella conversazione con i santi effigiati.

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