TERRA DI TORI E CAVALLI
LEGGENDE, DAUDET E VAN GOGH
Se la Camargue stia alla Provenza come l’anima di un’intera regione e ne rappresenti il completamento e magari la culminazione. O se invece sia un territorio in qualche modo autonomo, un continente a sé, un mondo da raccontare in modo diverso. Dilemma dolce e arguto. Da esaminare nel suo spessore.
Qui arrivarono le conquiste romane, qui attecchirono profonde religiosità nel medioevo romanico. Attorno al mulino da cui scrisse le sue Lettres si aggira il fantasma bello di Alphonse Daudet che narra, eterno, il mondo contadino.
Qui vive l’anima colorata, gioiosa e malinconica insieme, di Vincent Van Gogh. Qui risuonano i passi dei mercanti di infiniti commerci sulle piste della via Domitia, tracciata dai Romani. I campi di girasole, le distese di olivi (veniamo giù da Grenoble -nessuna voglia di fare la stressante strada costiera- e ci lasciamo alle spalle gli alberi di noce di quel territorio), lo scorrere placido del Rodano.
E gli altri fiumi, soprattutto il Gardon (Gard in provenzale) che nel Rodano confluisce da destra all’altezza di Beaucaire e sul quale la penetrazione romana ha lasciato uno straordinario manufatto, un ponte-acquedotto: una meraviglia anche per l’uomo moderno.
Tori (qui le corride sono incruente, evoluzioni e poco altro) e i loro gardians. Che montano cavalli dal candido mantello. Quanti cavalli. Nelle fattorie, nelle numerose scuole di equitazione, allo stato brado.
E terra di leggende. Forti, di sangue.
La valle del Rodano era abitata da un mostro orribile, la Tarasque, che faceva strage di uomini e cose. La sconfisse con la forza della fede (ad ogni ave maria la Tarasque si rimpiccioliva un po’) Marta di Betania, assieme a sua sorella Maria. La vittoria avvenne nella località che, in loro memoria, si chiama Saintes-Maries-de-la-Mer. Le Sante Marie. Quando la Tarasque, ormai innocua, fu condotta nella città di Nerluc, i contadini la uccisero. E Nerluc divenne Tarascon. Dove è festa grande ogni ultima settimana di giugno, nel ricordo delle grandi celebrazioni volute da Renato I d’Angiò quando, il 14 aprile 1474, istituì l’ordine dei Cavalieri della Tarasque.
Si racconta poi la leggenda di Saint Gilles, il nostro Sant’Egidio. La narra un bassorilievo del sontuoso portale del monastero, sulla piccolissima altura della cittadina che dal santo prende nome e che si trova su una delle principali direttrici verso Santiago di Compostela. Un giorno il re visigoto Wamba stava inseguendo una cerva. Avendola ormai raggiunta, le scoccò contro una freccia che Gilles fermò col proprio corpo, restando incolume. Sul luogo dell’evento miracoloso il re volle innalzare un’abbazia.
Da ogni muro ci guarda la croce di Camargue.
Che non è un simbolo antico, ma è ugualmente sintesi e racconto della storia camarghese. La disegnò nel 1926 il pittore Paul Hermann facendola realizzare in ferro dall’artigiano Barbanson. La croce simbolizza la fede. L’ancora è la speranza, il cuore indica la carità. E i tre tridenti ci propongono attraverso la figura indomita dei gardians (il tridente è il loro strumento di lavoro), la fatica di ogni giorno da affrontare con fiducia in Dio.
MAISON PENCHÈ
PONT DE GARD
11 agosto. Veniamo giù dal traforo del Frejus e da Grenoble. Il giorno prima abbiamo fatto tappa ad Asti. Capitati lì per caso, solo perché stavano calando le prime ombre della sera. Approdiamo al bel camping Umberto Cagni (23 euro a notte, dedicato alla figura del conte di Bu Meliana, senatore, ammiraglio della marina ed esploratore, 1863-1932). Mangiamo al ristorante un’ottima tagliata alla griglia ma soprattutto conosco di persona lo studioso, scrittore e giornalista Gianfranco Monaca che mi ha coinvolto in un concorso letterario sulla figura del grande astigiano Vittorio Alfieri. Visto che ci troviamo ad Asti come non profittare? Gli faccio una telefonata e lui arriva. Scopro che Gianfranco è anche un grande disegnatore e che le sue vignette sono davvero affilate come rasoi. Raccontano molto, sanno fare discorsi veloci ma possiedono il peso di un intero editoriale. Un bell’incontro, affettuoso. Di amicizia e sodalità.
In Francia, come sempre, preferiamo la viabilità normale. Strade perfette e panorama a gogò.
La prima curiosità è la Maison Penchèe, la casa inclinata che fa bella mostra di sé sulla strada di Modane, subito fuori del traforo del Frejus (58 euro, ma il ritorno, se effettuato entro sette giorni, ne costa solo 15). Monumento davvero particolare. Faceva parte del sistema difensivo costruito subito prima del secondo conflitto mondiale a difesa del tunnel ferroviario del Cenisio entrato in servizio nel 1881. I tedeschi fecero esplodere tutto e ogni cosa andò distrutta. Meno questo parallelepipedo di cemento armato che volò qualche decina di metri più in là.
Chilometro dietro chilometro.
La luce del tramonto riveste d’oro un manufatto ancor oggi incredibile, il Pont sul Gard che congiunge le due rive selvose del fiume e che per la gente del posto è una sorta di spiaggia su cui consumare picnic. Maestoso con i suoi tre ordini di arcate.
22, 20 e 6 metri per un’altezza complessiva di 49 metri, lungo 275. Alcune arcate, una dozzina nel terzo ordine, sono andate distrutte. Alle origini erano 360. Il luogo è pattugliato da militari con giubbotti antiproiettile e mitra. Giovanissimi, devono essere soldati di leva, si muovono in continuazione.
Il ponte faceva parte dell’acquedotto costruito attorno al 19 aC per portare l’acqua della val d’Eure a Nîmes (città romana su un preesistente abitato celtico; il nome viene da un’antica divinità, Nemausus), con un percorso di quasi 50 chilometri, praticamente tutti in galleria.
Capolavoro di ingegneria, che obbliga a chiedersi come facessero i Romani a realizzare simili manufatti. Oltre alle difficoltà tecnologiche, c’è anche il fatto che Roma possedeva un’aritmetica rozza, priva del concetto di zero, buona soltanto per operazioni grossolane, visto che non era possibile mettere in colonna i numeri. Certamente non uno strumento utile a calcoli raffinati.
A proposito di numeri. Qui si paga il parcheggio con facilitazioni per gruppi e soprattutto per famiglie. Verso sera si entra con pochi euro a godere dello spettacolo di luci. Il sito è arricchito da spazi culturali (un museo e un cinema) e da caffè e ristorante.
Noi avevamo (a torto) dedotto dal sito web che di notte si potesse usufruire del parcheggio per sostare. Invece no. Fatichiamo a trovare un camping. Il primo (Sousta) è completo. Un altro (Le Barralet, molto distante dalla strada principale, senza navigatore non avremmo mai trovato) ha un unico posto libero che paghiamo uno sproposito (29 euro, quando in Francia, com’è noto, si parte dai 15 euro dei camping municipali per superare di poco, pochissimo i 20 negli altri) e senza l’onore di avere un minimo di ricevuta.
ARLES
IL TEATRO ANTICO
LA PIÙ ANTICA PLAZA DE TOROS
LE CORRIDE A COLPI DI RASOIO
12 agosto. Siamo ad Arles nel primo mattino. Troviamo posto nel centralissimo Camping City.
Questa è la riva sinistra del Rodano che, in realtà, si biforca proprio a nord della città nei due grandi rami del delta.
Arles è una raccolta cittadina di 60mila abitanti perimetrata, nella sua parte antica, dal Boulevard des Lices e dal Boulevard Emile Combes.
È una delle porte della Camargue e confina con la pianura della Crau. La Crau (circa 550 kmq) è un paleodelta della Durance, terzo affluente per portata d’acqua del Rodano. Possiede una vegetazione (coussoul o coussous) che ne fa l’unico ambiente steppico dell’Europa occidentale. Il giorno successivo visiteremo Saint Martin de Crau, capitale di questo piccolo, eccezionale territorio. Molto istruttivo il locale Ecomusée.
L’antica Arelate passò sotto il controllo dei Romani nel 46 aC per opera di Giulio Cesare. La cultura di Roma ha lasciato monumenti insigni e irripetibili. Per la visita partiamo dalla Place de la Rèpublique che gravita attorno alla sua fontana con mascheroni in bronzo. In un angolo si apre il monumentale portale della cattedrale romanica di Saint-Trophime. Il 30 giugno 1178, Federico Barbarossa vi fu incoronato re di Borgogna. Il portale viene considerato un esempio altissimo della scultura romanica. È molto mosso, con il suo andamento scandito da colonnine e fittamente popolato di figure diverse: Santi, Dannati, Annunciazione, Natività, la serie dei 12 Apostoli.
Poi, a pochi metri l’uno dall’altro, il teatro antico, sede ancor oggi di rappresentazioni, e Les Arènes, decisamente meglio conservato. Risale al I secolo dC e dunque è la più antica plaza de toros del mondo.
I provenzali parlano di fe di biou, la fede nel toro, da sempre usato per fare spettacolo. La course camarguaise è la corrida incruenta che si usa da queste parti. Una volta si facevano lottare animali tra di loro (tori, cani, leoni e orsi perfino, usanza in voga anche in Italia soprattutto durante le grandi fiere agricole). Ormai da molto tempo nell’arena è rimasto solo l’uomo. Il toro ha coccarde e nastri intrecciati attorno alle corna e i toreri (che dunque si chiamano raseteurs) devono tagliare e sfilare questi ornamenti usando solo dei rasoi. Sono spesso i raseteurs ad avere la peggio.
Entro nell’arena mentre un addetto sta innaffiando la pista per prepararla alla corrida. Un catino ncandescente di sole e calore. Muri spessi. Nelle gallerie che corrono dietro le scalinate fa perfino freddo.
Tutti gli ingressi sono a pagamento, attorno ai cinque euro, talora un po’ di più, talora un po’ di meno.
Ci teniamo qualcosa per la mattina seguente.
I CAMPI ELISI DI PROVENZA
AIGUES MORTES
LE SALINE
MARTIRI ITALIANI NELL’INFERNO BIANCO
13 agosto. Ad Arles il sabato è giorno di mercato. E qui non si scherza. La bancarelle sono centinaia (ricordo lo spettacolo unico goduto due anni fa a Vaison la Romaine, una città che diventa, tutta intera, un mercato) e si trova proprio ogni cosa. Dall’abbigliamento a cibarie di ogni tipo. Gli enormi tegami per la paella cucinata al momento, le cassette con le erbe officinali possibili e immaginabili, le gabbie con il pollame, i formaggi colorati.
Mi fermo presso un artigiano che lavora il legno di ulivo e compero alcuni mestoli. Il fascino del legno: non riesco mai a sottrarmi.
A qualche passo di lì visitiamo gli Alyscamps.
Alyscamps è parola provenzale per Campi Elisi. Questo è uno dei cimiteri più famosi d’Europa, da sempre. Ne parla anche Dante (Sì come ad Arli, ove Rodano stagna… , Inferno IX, 112). Un lungo cammino tra sepolcri di pietra che termina davanti alla chiesa di Saint-Honorat che custodisce alcuni sarcofagi carolingi.
Pomeriggio ad Aigues Mortes, città murata unica al mondo. 12 porte, torri, merlature e feritoie. Da girare all’interno e all’esterno. Un rettangolo con le strade che si incrociano a perpendicolo. Le chiese dei Penitenti Grigi e dei Penitenti Bianchi, la torre di Costanza. La torre è un possente mastio che si erge nell’angolo nord-occidentale della città. È sormontata da una torretta di 11 metri che, si dice, una volta fungeva da faro.
Il nome di Aigues Mortes viene dalle paludi e dagli stagni che la circondano. Il toponimo è citato più volte da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso.
A Bradamante il messagger novella
di Mompolier e di Narbona porta,
ch’alzato gli stendardi di Castella
avean, con tutto il lito d’Acquamorta;
e che Marsilia, non v’essendo quella
che la dovea guardar, mal si conforta,
e consiglio e soccorso le domanda
per questo messo, e se le raccomanda.
(canto II, ottava 63)
In centro visitiamo la chiesa di Notre Dame des Sablons. Si ha notizia di una prima costruzione, in legno e canne, del 1183. L’attuale edificio gotico risale al 1246. Fu depredata dai protestanti nel 1575 e nel 1634 perse il campanile in seguito ad un crollo. Fu anche deposito di sale dopo che la rivoluzione francese la chiuse al culto.
E poi ci perdiamo tra le decine di botteghe ognuna delle quali offre leccornie particolari. Biscotti e dolciumi. Ma anche candele, sculture in metallo, ceramiche. Naturalmente i santons, i pupazzetti per il presepe realizzati in varie misure. Ritraggono non solo i personaggi consueti della natività ma soprattutto personaggi del mondo rurale provenzale. Abbiamo visitato anche dei musei a loro dedicati (vedi il mio precedente viaggio in Provenza). Prezzi improponibili.
Quello che colpisce è il modo di proporre la merce. Il packing diventa arte. Scatole e confezioni varie formano un mosaico che invita ad acquistare.
Ovvio che la conclusione della giornata sia proprio nelle vicinissime saline.
Sono 2500 anni che il sito è deputato alla raccolta del sale. E la Camargue è il più importante centro francese di produzione di sale marino.
Le saline di Aigues Mortes, che qui chiamano Salins du Midi, si estendono su una superficie di 8mila ettari (18 chilometri x 14; 340 chilometri di strade e percorsi), ripartiti in varie vasche dove viene pompata l’acqua marina. Questa, in un ciclo di cinque mesi, passa a livelli sempre più alti di concentrazione, fino alla cristallizzazione. Ogni vasca un ecosistema a parte, una biodiversità spinta.
Un tempo il lavoro di raccolta era manuale. Terribile. Si vedono, nelle antiche fotografie, salinari bruciati dal sole spingere pesanti carriole su malferme passerelle. Lo chiamavano l’inferno bianco. Oggi tutto è meccanizzato. Le saline che un tempo impiegavano migliaia di persone adesso danno lavoro solo a qualche decina di salinari. Il sale raccolto viene ammucchiato in colline alte oltre 20 metri e lunghe centinaia. Gobbe su un terreno tutto piatto e dunque ecco il nomignolo con cui vengono indicate, le camelles.
Su una di esse, durante il giro che viene effettuato su un trenino (10 euro), è possibile salire per ammirare un panorama ampio cui fa da orizzonte la linea sottile delle mura di Aigues Mortes.
Guardo le foto dell’ascesa alla camelle e ho la sensazione di vedere un gruppo di persone che sale un luminoso e scintillante ghiacciaio.
La meraviglia è la coloritura dell’acqua, dal rosa sbiadito al rosa intenso e acceso, quasi rosso. Tutta colpa (o merito) di una microalga, la dunaliella salina. Viene ingerita da un gamberetto, l’artemia salina, che sparisce quando la concentrazione del sale diventa alta. Allora l’alga comincia a prolificare e a colorare di rosa l’acqua.
Lo spettacolo è magnifico, primordiale. Comperiamo sale di tutte le grane nello shop.
Ma io non posso fare a meno di ricordare il massacro di italiani qui avvenuto tra il 16 ed il 17 agosto 1893. Nell’estate del 1893 la Compagnie des Salins du Midi assunse ardéchois (contadini provenienti per lo più dal dipartimento dell’Ardèche), piémontais (italiani, reclutati sul posto da caporali) e trimards (vagabondi).
La mattina del 16 agosto scoppiò una rissa e poi la situazione precipitò. Alcuni trimards diffusero la falsa notizia che gli italiani avevano ucciso alcuni concittadini. Una guerra tra poveri per i posti di lavoro che erano insufficienti a coprire tutte le richieste.
Secondo le autorità francesi, i morti furono otto, tutti italiani. Identificati sette cadaveri: Carlo Tasso di Alessandria, Vittorio Caffaro di Pinerolo, Bartolomeo Calori di Torino, Giuseppe Merlo di Centallo, Rolando Lorenzo di Altare, Paolo Zanetti di Nese, Amaddio Caponi di San Miniato e Giovanni Bonetto di Frassino. Il corpo di una nona vittima, Secondo Torchio di Tigliole, non fu mai trovato. Molti i feriti gravi, sempre italiani.
Venne istruito un processo ma fu subito chiaro che non ci sarebbero state condanne. La giuria francese non osò condannare cittadini francesi e finì con l’assolvere tutti gli imputati. Uno scandalo. E una lezione per chi dimentica che non moltissimo tempo fa eravamo noi gli immigrati sottoposti ad ogni tipo di ingiustizia. E linciati all’occorrenza.
Per chi volesse saperne di più consiglio la lettura del libro Morte agli Italiani di Enzo Barnabà con prefazione di Gian Antonio Stella, autore di un bell’articolo sul CorSera.
Con qualche fatica troviamo, sperduto tra campi e paludi e servito da stradine strettissime, il camping La Ferme. 22 euro e niente ricevuta. Manco vogliono vedere un documento.
IL PARCO ORNITOLOGICO
PARADISO DELLA BIODIVERSITÀ
IL MONASTERO DI SAINT-GILLES
IL VILLAGES DES BORIES
14 agosto. Il giorno del parco ornitologico. Qualcuno torce il naso, vi avverte qualcosa di artificiale e di artificioso. Magari non è del tutto sbagliato. Ma è Camargue, è luogo scelto per nidificare e stanziare da parte di molto specie, è libertà tra sole e acqua. Nulla a che fare con l’orrore di quei lager per animali che sono i cosiddetti giardini zoologici. L’ingresso è sui 7 euro, si può camminare lungo due percorsi di diversa lunghezza. Le prime cose che vediamo sono una voliera per oiseaux handicapés (in questo momento ospita una malinconica cicogna bianca) e una nutria (qui la chiamano ragondin, ha colonizzato il posto e anche nelle saline ne abbiamo viste un paio nuotare a fior d’acqua) per nulla aggressiva che viene a mangiarti praticamente in mano.
E poi il re del posto, l’imperatore, il dio. Il flamant rose, il fenicottero rosa. Centinaia, migliaia. In processione, tutti in fila indiana. Hanno riti loro, gerarchie di gruppo. Di passo o di corsa. Oppure in piccoli gruppi col becco adunco pronto a infilzarsi sotto il pelo dell’acqua. Oltre a vermi, pesci e alghe, sono ghiotti dell’artemia, il gamberetto che colora di rosa e rosso le saline perché è ricco di carotene. E il fenicottero assume a sua volta mille sfumature di rosa nel piumaggio.
Lungo il percorso ci sono luoghi deputati a scattare foto e ricchissime didascalie sparse un po’ ovunque. Ne desumo un piccolo campionario della biodiversità che voglio riportare integralmente (di alcune specie ho trovato il corrispondente italiano, di altre sono meno sicuro. Se qualcuno mi volesse illuminare…): la nitticora, l’airone cenerino (ne ho scorti parecchi esemplari), l’airone guardabuoi, la garzetta, l’airone bianco maggiore, il crabier chevelu (dovrebbe essere la sgarza ciuffetto), l’avocetta comune, il gabbiano reale, il gabbiano rosato, il gabbiano comune, il gabbiano corallino, il cavaliere d’Italia, il beccapesci, la sterna zampenere, la sterna comune, il fraticello. Poi la popolazione della rosèliere, il canneto (una sessantina di ettari, con l’acqua che non supera mai i 50 centimetri): la rousserole (credo che sia il nostro cannareccione) turdoïde e la rousserole effarvatte, la lusciniole (credo corrisponda alla nostra silvia) à moustaches, la cincia dai mustacchi, lo zigolo delle canne.
Riguardo sul display le foto e sento che questo luogo mi mancherà. Si respira largo, il rispetto per la natura è regola assoluta per ogni visitatore. Questo è un universo, questo è il cuore della Camargue.
La strada verso la grande meta del pomeriggio, il village des Bories.
Ci fermiamo a Saint-Gilles. Curiosiamo nel mercatino settimanale, solita ricchezza di offerte. È mezzogiorno e le bancarelle stanno smontando. Ti offrono tutte le cibarie a prezzi stracciati. Peccato che qui tutti tocchino tutto. Il guanto di plastica non si trova neanche nei distributori di benzina, figurati davanti ai banconi di cibo. Comperare il pane vuol dire chiudere gli occhi. Mani nude per il pane e per il denaro. Poi te lo avvolgono in un pezzetto di carta che se tu non hai una borsa allo scopo… Mah! Noi possediamo una borsa a tubo, giusta per un paio di baguette.
Poi il monastero con il suo grande portale di cui dicevo prima. Sul quale, nel 1562, si abbattè la furia devastatrice e iconoclasta degli ugonotti. Ma proprio il portale fu (abbastanza) risparmiato. Grande scuola romanica cui lavorarono parecchi artisti: di uno di loro (Brunus) ci è arrivato il nome. Si leggono bene nonostante gli insulti del tempo e dell’uomo le figure degli apostoli, una affascinante Adorazione dei magi, una Crocifissione e una Ultima cena. La chiesa custodisce il sarcofago del santo eponimo. Giriamo attorno all’edificio e, peccato, lo troviamo ridotto ad una latrina. Letteralmente.
Poi quel museo a cielo aperto che è il village des Bories, vicino a Gordes, nella Vaucluse. Tra il torrente Senancole e la valle Gamache. Siamo su una collina (attorno ai 270 metri). Si lascia il camper in un ampio parcheggio e poi si scarpina per quasi due chilometri su una stradina nella tipica vegetazione provenzale, arbusti e pini di mare.
Gesù, se ne vale la pena. (Io, per non saper né leggere né scrivere, faccio autostop. Egle ed io troviamo ospitalità nella macchina di Annamaria e Giuseppe, simpaticissima e giovane coppia che viene dalla Basilicata).
Quello che vedremo è preannunciato dai muretti, tutti di grossi blocchi di pietra accostati l’uno all’altro. Muri a secco, direi, ma le foto attestano che non si è mai visto nulla di simile. Ingresso sui cinque euro e poi le cabanes. Casupole cioè, che ora sono note a tutti col termine di bories.
Erano depositi di attrezzi e rifugi stagionali per contadini e pastori.
Le costruzioni più antiche (ce ne sono cinque gruppi diversi, uno solo restaurato e visitabile) risalgono a 600 anni fa. Ma si sono continuati a costruire fino all’Ottocento. Poi abbandonati. E “riscoperti” e restaurati dal 1970. La tecnica di costruzione (lastre di calcare lavorate unicamente con la massette, il martello da pietra) è rimasta immutata nei secoli e dunque la datazione dei singoli edifici è di fatto impossibile.
Una cabane è adibita a sala video (molto efficace a capire) e la stanza superiore (si accede da una scala esterna) è una sorta di piccolo museo con molte didascalie utili a ricostruire il senso e la storia di queste costruzioni.
Il termine bories è latino con la mediazione del provenzale bòri. Vale boaria, luogo per il ricovero del bestiame. Cioè quegli ambienti che qui chiamano mas, vale a dire cascina, stalla. Credo che, come maso e masseria, venga dal latino medievale mansum (luogo in cui si sta, si abita, dal verbo maneo). Il tipo di costruzione rimanda ai trulli pugliesi e ai nuraghi sardi. Ma anche a tipologie di costruzione spagnole (Mancia, regione di Valenza, isole Baleari). E si trovano edifici analoghi o assimilabili in Turchia, Portogallo, Palestina, Marocco e a Creta.
Una tappa irrinunciabile.
Affrontiamo di buona lena i due chilometri di ritorno. Poi facciamo un po’ di strada, rientro a casa. Passiamo la notte nel bel villaggio Pernes-les-Fontaines (famoso appunto per le sue 40 fontane oltre che per la bella cinta muraria). Ci ospita il camping municipale Coucourelle (16 euro).
L’ultima notte prima del rientro la passiamo nel camping Bella Torino, in località Pianezza (qualche indicazione in più non guasterebbe), imbocco della Valle di Susa. Torino dista una decina di chilometri ed è collegata da un servizio navetta. La Reggia di Venaria Reale è a sei chilometri. Immagazziniamo l’informazione per un prossimo giro a Torino.
Il contachilometri dice 2300.