di Gian Domenico Mazzocato
scrittore
In principio era il verbo?
In principio era il colore, e poi il segno
e poi un essere vivente che inventò il verbo
attraverso il quale si chiese e si chiede
continuamente se in principio c’era il verbo.
giugno 2014
“Dare un senso alla vita significa usarla come mezzo di conoscenza. Una meravigliosa avventura alla ricerca di qualche verità. Se si rivolge soltanto, come oggi accade, al profitto finanziario, rimane strumento arido e promotore di perfidie e delitti. L’incontro col sapere ti fa più soffrire ma anche più godere!”.
Gianni Ambrogio ha raccolto in due agende gli ultimi scritti della sua vita di uomo d’arte e di pensiero. Circa 260 fogli. Appunti, disegni, schizzi. I primi fogli non recano data ma sono ascrivibili al gennaio del 2010, forse al dicembre dell’anno precedente. L’ultimo foglio reca la data dell’8 febbraio 2016. Il grande maestro trevisano è già molto malato. Scrive con fatica, stampatello maiuscolo. La morte giungerà poco dopo, a fine ottobre 2016. Scritti frammentari solo nella forma. In realtà complesso organico e compiuto che offre ragione dell’universo morale, della visione del mondo, della concezione dell’arte di Ambrogio (direi della sua ideologia, se questo termine non fosse abusato e logoro). Impensabile che le due agende non abbiano uno sbocco editoriale: la conoscenza, la genesi, il tormento, il divenire dell’artista passano anche attraverso queste parole vergate con passione, a loro volta segno di una ricerca inesausta.
Difficile fornire nell’esile spazio di un dovutamente breve intervento una sintesi o anche un barlume della complessità e ricchezza.
Un universo in movimento, in tensione. E, prima di ogni altra cosa, una vita in cui programmaticamente ogni compromesso è escluso. Talora Ambrogio lamenta le difficoltà finanziarie che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua famiglia. Ma mai un cedimento alle esigenze di mercato, al conformismo. Nell’agosto del 2013 cita Camus e il mito di Sisifo (dagli appunti emerge un panorama di letture vasto e differenziato, con attenzione ai filosofi preilluministi e illuministi): “…soltanto ciò che è inutile, senza scopo, soltanto ciò che è assurdo può renderci liberi e spezzare le catene che ci imprigionano”. E incalza: “non coincide con quanto io ho sempre modestamente affermato che si può vivere anche di utopie?”.
Già, vivere di utopie. Un percorso critico su Gianni Ambrogio è destinato ineluttabilmente a delineare -forma e contenuto- il corpus dell’utopia dell’artista. A partire dalla sua visione dell’arte, che è ricerca del bello (“È ora che la critica smetta di denunciare la mancanza del bello. Forse non ha ancora capito che il bello non è in ciò che si rappresenta, ma nel come. Bacon commuove per come riesce a raccontare in modo sublime il disfacimento e la putrefazione dell’umano. Burri , attraverso materiali significanti rappresenta la società d’oggi nel modo più affascinante e originale).
Il bello, e, prima di ogni altra cosa, l’intuizione. Non logica. Dalla logica prende le distanze. “Dobbiamo renderci conto che la cosiddetta logica non può spiegare tutto. Certe intuizioni, certi misticismi dell’artista, apparentemente fuori di ogni logica, potrebbero essere realtà ancora da raggiungere, perché la nostra attuale ragione non è ancora sufficiente”, scrive il 29 maggio 2012.
Dovendo operare sintesi estrema: l’opera di Ambrogio è orbita critica, corrosiva, talora perfino irridente attorno al pianeta della ragione. Che da sola non basta a spiegare la tragedia dell’esistenza. Ambrogio va anche più in là. Sgretola il razionalismo che si fa proprio in quella particolare forma di espressione che è la tragedia: “…la vita è tragedia poiché ci scaraventa nell’esistere per il gusto di rigettarci nell’inesistenza. … I cosiddetti tragici avranno sempre buon gioco poiché si limitano a riprodurre tutto quanto è sotto i loro occhi tutti i giorni: pura imitazione, insomma. Molto più interessanti i commediografi (parola virgolettata nell’originale a suggerire che si debba intendere qualcosa di più ampio dei soli scrittori di commedie), poiché solo nell’ambito e nel coraggio della commedia esiste creatività. In fondo in questa grande e folle commedia che è la nostra vita, penso che la recita dell’artista sia la meno dannosa perché più vicina alla verità, attraverso le sue bugie”.
Clamoroso e intenso. Una strada che conduce alla verità e deve tuttavia tracciare la sua pista attraverso le bugie. Né paradosso, né contraddizione, come apprendiamo seguendo l’itinerario della scrittura di Ambrogio. L’attività dell’artista (e prima ancora la sua creatività) si colloca nello spazio e nello scarto della follia rispetto alle normalità quotidiane.
L’artista lavora dentro a quello scarto, allarga, restringe. Cerca di adattarlo a sé. Un lavoro, uno sforzo da compiersi impiegando le più riposte energie, le più remote risorse.
C’è spazio per il narcisismo dell’artista ma proprio in questa misura di autocontemplazione (che, a ben vedere, è una forma di autoreferenzialità) risiede l’impegno dell’artista. Il suo guardare fuori. Con disincanto e ironia. Appartiene al febbraio del 2013 un denso nucleo di riflessione.
“Quando, parlando d’arte ci accusano di retorica, apologia, letteratura, in fondo hanno ragione. Ci aggrappiamo a tutto, nel tentativo di spiegarla, ma l’arte è un fenomeno magico e inspiegabile. Ergo: scusateci”. Subito dopo aumenta il dosaggio. “Sempre di più prendo coscienza del fatto che l’artista ha in stragrande quantità una forma grave si narcisismo. La sua potente brama di eprimere è quasi sempre desiderio di esprimersi. Ma io sono sempre più convinto che l’artista non debba solo manifestare narcisisticamente le qualità di sé, bensì deve assumere una posizione di impegno sociale, civile e politico da manifestare attraverso il privilegio delle sue grandi possibilità espressive aiutate da quei valori estetici che contribuiscono maggiormente a fare presa sul contesto umano sempre bisognoso del cibo dell’arte per condurre un’esistenza che davvero diversifichi dagli altri animali i suoi fratelli”.
L’arte come privilegio, il talento fatto lievitare dall’educazione estetica, l’impegno civile. C’è tanto, quasi tutto. Se poi scendiamo negli abissi vertiginosi della sua anima e ce lo immaginiamo davanti alla tela, dobbiamo essere pronti a fare i conti con le sue ambivalenze e le dicotomie.
Figura o astrazione? Riprende il tema più volte. Quando lavora sul figurativo interpreta la cronaca, il momento che fugge. La tela astratta invece lo rende libero, gli consente di narrare stati emotivi senza mediazioni, senza dover ricorrere agli oggetti della quotidianità. “Quando rappresento figure, mi lascio contaminare dal mondo dei vivi, mi sento coinvolto e spesso arrabbiato. Quando faccio astrazione, me ne vado per conto mio, libero finalmente e lontano dal mondo animale, vicino a quello spirituale” (gennaio 2012).
Ama Platone, Ambrogio, e cerca di saltare le cose che sono soltanto imitazione di una realtà altra, più vera e intangibile. Sulla sua pittura astratta discorre con un sorriso: “Il mio astrattismo: fino a qualche anno fa potrei definirlo una serie di gesti più o meno inconsci aiutati da un certo piacere compositivo. Oggi: un bisticcio garbato tra es e io con l’intervento ragionevole del super-io che separa, unisce, cancella, ricostruisce e pulisce” (dicembre 2011).
Sempre lì gira la salvifica ossessione di Gianni Ambrogio. Individuare i modi e i nodi in cui si realizza l’identità tra vita e arte. Scrive, in un giorno di grande luce interiore, nel maggio del 2014: “Dovremmo essere tutti d’accordo, l’arte è vita e la vita è arte. Dal momento in cui cominciamo ad avere l’uso della ragione e a provare sentimenti, dobbiamo inventare strategie per vivere al meglio. La nostra creatività ci permetterà di esprimerci, ognuno a proprio modo, nell’esistenza. Siamo obbligati a mettere in moto la nostra fantasia per creare situazioni il più favorevoli possibile per il nostro bene. Nell’ambito di questa creatività obbligata ognuno sceglierà le altre forme di creatività volute o sentite che potranno essere pittura, scultura, musica ecc. Così come falegnameria, elettronica e così via” (maggio 2014).
Questa distinzione tra una base di creatività obbligata e le creatività lasciate alle opzioni (ma anche ai talenti) personali è forse la dicotomia principale delle scelte di Ambrogio. La definisce con compiutezza la creatività: “Io sono sempre convinto che la creatività, quindi l’arte, sia qualcosa che esiste al di fuori di noi e consiste in una serie di coincidenze, combinazioni più o meno fortunate che qualcuno di noi, dal terreno più fertile, è in grado di fare proprie per riproporle a regola d’arte” (luglio 2014).
Su tutto proietta la sua ombra luminosa una spiritualità intensa e tormentata. Ne fanno parte presagio della morte, desiderio di autobiografia, amore per la famiglia, la ricerca di un dio che non è trascendenza, ma superiore razionalità e regola che regge l’universo.
E la sua risposta come artista a tutti gli interrogati affacciati. Lui, Gianni Ambrogio, è consapevole che la vita è un viaggiare enigmatico, in compagnia del mistero. Anzi, attraverso il mistero. C’è bisogno di una guida, di un sapere che superi le capacità tecniche e le conoscenze teoriche. Lo dice in giorni in cui la meta ultima si fa vicina. Con grande amarezza ma anche riconoscendo un suo stile di vita e coerenza di atteggiamento: “Questa folle corsa ad inaugurare nuove biennali d’arte nasconde interessi economici e politici. Tali eventi anziché far bene alla cultura e all’arte stessa distruggono il piacere di una nuova e singolare esperienza… mirano al semplice stupore che, finito l’impatto visivo, non lascia traccia alcuna” (settembre 2015).
Invece… “amo l’imperfezione poiché è il sale e il sapore del vivere. È più vicina alla realtà. Odio il perfezionismo poiché è un atteggiamento irreale, oltreché presuntuoso, freddo, disumano” (senza data). E la pittura resta “questo immenso amore iniziato quand’ero bambino e che dura nel tempo, intatto, incontaminato, senza mai un tradimento” (1 luglio 2010).