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Rep. Ceca e Rep. Slovacca 2009
TRA PRAGA E BRATISLAVA
TESORI DI CEKIA E SLOVACCHIA

GENTILEZZA E CONTRADDIZIONI, EURO E CORONE
CESKÝ KRUMLOV, IL GIOIELLO
CESKÉ BUDEJOVICE, LA PIAZZA DELLA CAMPANA
TÁBOR, ROCCAFORTE DI JAN HUS
ZVÍKOV, IL CASTELLO TRA OTAVA E MOLDAVA
PILSEN, MADRE DI TUTTE LE BIRRE
KARLOVY VARY, BELLEZZA E ACQUE TERMALI
PRAGA, LA MAGICA
KARLŠTEIN, IL CASTELLO DELLE MERAVIGLIE
TEREZÍN, LA SHOAH DEI BAMBINI
KUTNÁ HORA, LA MONTAGNA D’ARGENTO
DEMÄNOSKA DOLINA, GROTTA DELLE MERAVIGLIE
SVÄTY KRIŽ, CATTEDRALE DI LEGNO
LEVOCA, SCRIGNO D’ARTE
LO SPIŠ, GLI SPIŠSKÁ KAPITULA, LO SPISŠKÝ HRAD
SAN MARTINO E LA STORIA DI UNA CORSA IN SALITA
BRATISLAVA, CITTÀ DI RE

GENTILEZZA E CONTRADDIZIONI, EURO E CORONE

Nel G8 le cui fumisterie mediatiche ci siamo lasciati alle spalle in questo caldo luglio 2009, la repubblica Ceca probabilmente non ci entrerà mai. Ma dove lo trovi un paese che per una bibita, alla faccia dei diritti di immagine e con buona pace dei più comuni canoni della comunicazione pubblicitaria, si globalizza proponendo Joseph Ratzinger e Barack Obama come testimonial?

Pubblicità fotografata a Pilsen (o Plze?, come vuole la grafia locale), una delle patrie mondiali della birra. Ironia della sorte: papa e presidente USA reclamizzano una bevanda rigorosamente analcolica. E nemmeno troppo autoctona, come rivela l’etichetta.

Piccolo paradosso per un viaggio in cui di contraddizioni ne abbiamo trovate parecchie. Beh, serve dire subito: gente disponibile, da queste parti, gentile e aperta. Desiderosa di fare star bene il visitatore. Quando a Praga decidiamo di fare il giro in barca sulla Moldava, i responsabili si prodigano per trovare una persona che parli italiano. Si spendono a tal punto che la partenza subisce qualche minuto di ritardo per attenderne l’arrivo. È una splendida ragazza albanese che parla un mare di lingue e si mantiene in questo modo all’università (privata, più costosa, che prepara meglio, come ci spiega).

Siamo in quattro. Mia moglie Egle (che al solito prepara il viaggio in modo scrupoloso: giornali, riviste specializzate, guide, internet) e una coppia di amici con i quali viaggiamo spesso: Edda e Danilo (Danilo è Danilo Mason, il poeta dialettale che ha anche un suo sito, molto gradevole per chi volesse conoscere la sua opera e il suo lavoro: www.danilomason.it).

Le contraddizioni. La repubblica Ceca è un paese che ormai appartiene all’Europa evoluta, in cammino. Ma conserva la sua corona e ogni città ospita una miriade di uffici di cambiavalute: con oscillazioni al cambio onestamente sconcertanti. Praga è una grande città moderna. Di contro la Slovacchia possiede già l’euro ma appare un po’ in ritardo. Lo notiamo, paradosso nel paradosso, soprattutto in Bratislava che appare città poco curata nell’arredo urbano, piuttosto caotica. Alla periferia, nelle campagne e nelle zone lontane dalla capitale si respira invece un’aria più aperta, più evoluta.

Ma nello Spyš, forse la zona del territorio slovacco più ricca di fascino e di tesori artistici, a ridosso degli Alti Tatra, si registrano problemi di integrazione con la popolazione di origine zingara che in certe parti appare addirittura prevalente. Ed è difficile valorizzare il patrimonio artistico in condizioni sociologiche in qualche misura problematiche.

A Žalina, la prima città slovacca in cui ci fermiamo dopo aver passato il confine con la repubblica Ceca, ci apprestiamo a passare la notte (tranne che nelle due capitali abbiamo approfittato sempre dei parcheggi dei grandi centri commerciali) e veniamo sottoposti ad un prolungato controllo da una pattuglia della polizia. Cortesia e sorrisi ma la presenza della polizia da queste parti è perennemente incombente: trovi una pattuglia ad ogni curva. In Cekia mai vista neppure l’ombra di una divisa. Come dire: certi modelli si dimenticano più o meno velocemente.

Nella repubblica Ceca lo stipendio medio è sugli 800 euro, qualcosa di meno in quella Slovacca. Nei supermercati (a proposito: aperti tutti i giorni dalle 7 alle 20. Orario continuato e pane caldo all’apertura. La domenica aprono un’ora dopo) ci rendiamo conto che la vita è meno cara che in Italia, ma non in proporzione. E, al distributore, benzina e gasolio sono di qualche centesimo più cari che da noi.

La cosa cui proprio non si può rinunciare da queste parti è l’assaggio delle diverse birre: ogni zona ha la sua e il costo è molto basso. Non ho dubbi: qui si bevono le migliori birre del mondo. A Pilsen visiteremo il museo dedicato alla bevanda che nasce da orzo e luppolo. Ne apprenderemo ogni segreto.

Il nostro è stato viaggio bello, simpatico, avventuroso, denso di emozioni. Due settimane in cui abbiamo visto molte cose, conosciute molte persone. Gran bella esperienza. Ne scrivo anche per raccomandarla ad altri. La viabilità è buona. Il fondo è quasi sempre accettabile (quantomeno superiore alle attese, viste le recenti esperienze in Polonia e in altri paesi di questa parte d’Europa) anche su strade secondarie e poco battute. Quelle, per intenderci, che è bello percorrere alla ricerca di angoli sconosciuti e di piccoli/grandi tesori d’arte. Ne hanno sia la Cekia che la Slovacchia da rivelare e proporre!

Per quanto riguarda le autostrade i due paesi sono un cantiere aperto. Larghi tratti si superano in un attimo; per altri, in via di completamento, si deve tornare sulla viabilità normale. In Cekia funziona il sistema della “vignette”, mentre la percorrenza è del tutto gratuita in Slovacchia.

Ogni località ha forniti uffici informazioni. Gli infopoint regalano la mappa della città in cui ci troviamo, talora si trova qualcosa in italiano (magari in traduzione non eccezionale), spesso si può fruire di un internetpoint gratuito. In assoluto, se ci si ferma a chiedere spiegazioni, può esserci qualche difficoltà con la lingua (ma i giovani parlano inglese fluido) e tuttavia ognuno si prodiga con disponibilità assoluta per farti arrivare a destinazione.

Partiamo di giovedì, 9 luglio. Tarvisio, Graz e Linz (col consueto rapinoso contributo della “vignette” che serve in Austria praticamente su tutta la rete stradale, cui si aggiungono altri balzelli estemporanei: ma perché l’Austria non introduce una taglia giornaliera? No, il minimo è 10 giorni: e chi ci passa restando solo poche ore sul territorio austriaco?).

CESKÝ KRUMLOV, IL GIOIELLO

La prima tappa, nella repubblica Ceca, è in quel gioiello che si chiama Ceský Krumlov. Arriviamo in serata e troviamo posto nel parcheggio contrassegnato P2, proprio vicino alle acque tumultuose della Moldava. Il fiume (Moldava è parola celtica, da queste parti il fiume è indicato col nome di Vltava) ha un corso impetuoso, con meandri ampi e segnati da poderosi picchi di roccia. Un paradiso per la canoa agonistica, come apprenderemo il giorno dopo dalle comitive che si danno appuntamento sulle rive, equipaggiate di tutto punto. Nel parcheggio (vicino al chiosco che affitta imbarcazioni: 200 corone -circa 4 euro- per passare la notte) siamo in compagnia di una famiglia russa, proprietaria di un camper americano, un Chinook, e nessun altro.

Il silenzio è rotto solo dal rumore dell’acqua. Sopra incombe la sagoma poderosa dello zámek, la cittadella fortificata. Beh, niente male la prima notte in terra ceca.

Il nucleo storico di Ceský Krumlov sorge su una stretta ansa della Moldava. Del resto lo stesso nome della città in tedesco antico significa “percorso tortuoso”. Quasi un’isola attraversata dall’Horní, l’asse viario, a metà del quale si allarga la Námestí Svornosti, la piazza Concordia che è il vero cuore della cittadina attorniata da edifici rinascimentali. Lì vicino c’è la chiesa di San Vito che offre il consueto assetto gotico all’esterno e arredo barocco all’interno.

Dal 1992 Ceský Krumlov è patrimonio dell’umanità, protetto dall’Unesco

Allo zámek si sale per una ripida ma breve salita. È l’ex castello e residenza dei Rosemberg. Uno di loro, Wilhelm, alla fine del ’500, gli diede l’aspetto odierno affidando i lavori all’architetto italiano (ticinese di Arogna, ca 1550-1619) Baldassare Maggi. Lavori che continuarono tutto il secolo successivo. Oggi si sale attraverso una scalinata: gettando lo sguardo nel fossato sottostante si vede una famiglia di orsi costretti a trascinare pigramente la loro vita. Sognano le foreste che ci circondano e sono uno dei tratti caratteristici del paesaggio.

Come lo sono del resto gli innumerevoli alberi da frutto (meli e peri soprattutto) che crescono in gran numero praticamente ovunque, sia sul ciglio delle strade tra città e città, sia nello stesso contesto urbano. Basta allungare una mano…

Nello zámek si passa da un cortile all’altro in un ambiente di sapore rinascimentale. A segnare l’immagine da conservare nella memoria è la Cervená brána, cioè la Torre rossa, che accoglie i visitatori.

Nelle stradine di Ceský Krumlov è bello passeggiare. Case e palazzi con facciate fittamente affrescate, taverne, botteghe di artigianato, negozi con mille curiosità. Presso un antiquario (diciamo un rigattiere evoluto, Antique Starožitnosti, milanpesek@seznam.cz) trovo due macinini per la mia raccolta. Uno molto vecchio e uno da muro in ceramica con un fregio floreale che risale probabilmente ai tempi in cui questo era impero asburgico. Contratto, tiro sul prezzo, l’antiquario è compiaciuto dalla discussione (non si aspetta nullo di diverso), alla fine concludiamo con una stretta di mano e soddisfazione reciproca.

CESKÉ BUDEJOVICE, LA PIAZZA DELLA CAMPANA

La prossima tappa è Ceské Budejovice, il maggior centro urbano della Boemia meridionale, alla confluenza della Malše

 nella Moldava. Qui si produce una birra molto buona, di grande corpo e molto profumata, la Budweiser, in perenne rivalità con quella che esce dalle vasche di fermentazione di Pilsen.

Sostiamo nella centrale Námestí Premysla Otakara II, intitolata al sovrano fondatore della città. La piazza è unquadrato circondato da edifici tardo rinascimentali e porticati. Sulla spianata sorgono sculture in metallo con cui è possibile interagire. Ad un angolo una campana che ognuno può far rintoccare. Ne chiedo il significato ma riesco solo a capire che è il ricordo di un fatto storico non felicissimo e tirare la corda e ricavarne un rintocco è beneaugurante.

Sul pavimento, nei pressi della fontana centrale, si trova una pietra bianca segnata da una croce: qui, a quanto si dice, sorgeva un tempo il patibolo. La cattedrale è dedicata a san Nicola (sv. Mikuláš). Ora è chiesa barocca, ma le sue origini sono romaniche.

TÁBOR, ROCCAFORTE DI JAN HUS

Nel tardo pomeriggio siamo a Tábor, dove nel 1420 una comunità cristiana tentò una esperienza sociale che bandiva ogni proprietà privata. Qui sorgeva il castello dei Witkowitz ma il posto fu ribattezzato Tábor, nel ricordo della montagna della trasfigurazione di Gesù. Il simbolo stilizzato del Tabor figura ovunque, perfino sulle fiancate delle auto.

L’esperimento che nasceva dagli insegnamenti del grande riformatore boemo Jan Hus ebbe vita breve, un anno soltanto perché l’esperienza comunitaria prese una via radicale e fu proprio un hussita moderato, Jan Žižka a mettere Tábor a ferro e fuoco. Ma nei secoli la chiesa locale tenne vivo in qualche modo il disegno riformatore di Hus, dimostrando insofferenza per ogni organizzazione gerarchica e per le commistioni tra potere economico e religione.

Visitiamo la Žižkovo Námestí sulla quale si affacciano edifici settecenteschi con i tipici frontali a gradini e soprattutto la chiesa decanale sorta su un antico luogo di culto hussita. Su un lato si notano delle pietre squadrate: rozze tavole che venivano usate per le celebrazioni dei riti voluti da Jan Hus e che prevedevano una liturgia eucaristica con l’assunzione delle specie del pane e del vino (liturgia utraquista, come si dice) .

ZVÍKOV, IL CASTELLO TRA OTAVA E MOLDAVA
PILSEN, MADRE DI TUTTE LE BIRRE

Il giorno seguente (11 luglio, sabato) ci dirigiamo verso Pilsen. Statale 19 in direzione Pilsen-Písek. Ma prendiamo la deviazione Písek-Milevsko perché la nostra prossima meta si trova poco oltre questa cittadina: si tratta del castello di Zvíkov, forse la più importante architettura difensiva del paese. Sorge su uno sperone roccioso ed è circondato da un lago e da foreste, autentico baluardo e posto di guardia dove si incontrano le vallate dell’Otava e delle Moldava. Luogo di fascino immenso. Lo sguardo spazia sulle anse dei fiumi e sulle foreste sterminate.

La visita per scale, bastioni, sale grandi e piccole, segrete e sotterranei è suggestiva e immerge la nostra anima in atmosfere guerriere vecchie di quasi mille anni (il primo nucleo del castello risale al 1200). Della parte più antica fa parte la cappella con affreschi del Quattrocento e che ancora oggi viene aperta al culto. Mentre usciamo incrociamo, infatti, un corteo nuziale.

Il camper lo avevamo lasciato qualche centinaio di metri prima (150 corone il parcheggio, vicino ad una taverna in cui è possibile gustare wurstel e birra). L’ingresso al castello costa 70 corone (ridotto 50). Per chi vuole, scendendo in riva al lago, è possibile prendere un traghetto che porta ad un altro castello importante della zona, a Orlík.

Nel tardo pomeriggio siamo a Pilsen, la città fondata da Venceslao II nel 1295 e autentico snodo commerciale e viario tra Ratisbona, Norimberga e Praga. Qui portano acque e commerci il Berounka e ben quattro affluenti che vi confluiscono, il Radbuza, l’Úhlava, il Mže e l’Úslava. Si produce forse la birra più famosa dell’intera nazione, la Pilsner Urquell. La Škoda vi ha importanti stabilimenti (e il suo museo storico che è visitabile).

Visitiamo la Námestí Republiky e, al suo centro, la chiesa arcidecanale dedicata a san Bartolomeo, la cui torre è la più elevata del paese. A sinistra dell’altar maggiore una drammatica, potente crocifissione quattrocentesca. Alla chiesa gotica fa da riscontro, su un lato di piazza della Repubblica, l’edificio rinascimentale del municipio. Le due architetture sono divise dalla Colonna della Peste.

Ci dirigiamo verso il museo della birra, ma purtroppo è quasi orario di chiusura. Sappiamo dalle guide che propone un itinerario molto interessante e, la mattina successiva, siamo lì di buonora.

Ci accoglie una biglietteria decisamente anomala: una antica birreria che ci rimanda subito al clima popolare antico. La signora che stacca i biglietti è vestita da antica ostessa. Ai tavoli due giocatori si contendono l’ultimo punto a carte. L’ingresso costa 90 corone, cui è indispensabile aggiungerne altre 30 per la esauriente audioguida in italiano. Nel biglietto è compreso anche un boccale di birra da “riscuotere” (e svuotare) alla fine del giro. L’audioguida è congegnata in maniera molto intrigante: la voce narrante finge di essere di volta in volta un mastro birraio o un mastro maltaio o un costruttore di botti e narra in prima persona la sua esperienza.

Seguiamo l’orzo dalla sua semina, alla germinazione, alla fermentazione. È una tecnologia semplice ma complessa (non è un paradosso) quella che i mastri birrai hanno perfezionato e fatto evolvere nei secoli. Uno ci ha vinto pure il Nobel per la chimica con i suoi studi sull’argomento.

Ci vuole arte per ottenere giuste gradazioni. Ci vuole esperienza per selezionare aromi concilianti. Ci vuole maestria assoluta per sagomare le doghe delle botti. Sulle pareti, simili a ragni giganteschi, vediamo le rastrelliere con gli attrezzi.

… ma ci vuole anche molta politica per fare buona birra. Quello che apprendiamo durante il nostro giro è in qualche misura stupefacente: non sono moltissimi anni che da Pilsen esce un ottimo prodotto. Prima anzi, diciamo fino a metà del Novecento, la bionda bevanda era di pessima qualità perché i mastri maltai andavano per conto loro, gli addetti alla fermentazione usavano piante più economiche del luppolo, i mastri birrai non condividevano l’uno con l’altro i segreti del mestiere: si racconta di una clamorosa riunione tenuta nel municipio cittadino, in cui tutti gli addetti del settore hanno deciso di mettere insieme esperienza e lavoro.

Col risultato che oggi qui si produce una birra che non ha rivali al mondo. Si parla di 20 milioni di ettolitri l’anno, di cui un 10 per cento circa destinato all’esportazione. Non molto a ben considerare, da queste parti la loro birra se la bevono tutta: si dice che il consumo annuo pro capite superi ampiamente i 150 litri.

KARLOVY VARY, BELLEZZA E ACQUE TERMALI

Nel pomeriggio siamo nella famosa stazione termale di Karlovy Vary, che una volta si chiamava Karlsbad (e tanti hanno ancora questo nome nella mente). A quanto si racconta, l’imperatore Carlo IV stava cacciando da queste parti (era il 1358), quando uno dei suoi cani scoprì per caso il primo zampillo.

Immersione totale in un tipico ambiente fin de siecle: da un momento all’altro ti aspetti di veder spuntare da un angolo una damina con ombrellino. Invece incontri ad ogni passo giovani e anziani che sorseggiano la salatissima acqua dal sapor di ferro da pipe in ceramica che consentono dosaggi adeguati. Le pipe si comperano

 

 in mille negozietti e sono davvero caratteristiche. L’acqua sgorga da una serie di fontanelle di libero accesso, a temperature variabili (ma la sorgente è unica) fino a 73 gradi. Si capisce che qui girano grossi affari e capitali, ma bisogna dire che anche la vita culturale è molto importante. Nel palazzo del cinema si sta preparando i

l festival internazionale e assistiamo alle prove di almeno un paio di concerti.

Si passa di piazzetta in piazzetta, si cammina sotto i grandi alberghi stile impero

absburgico, ci si ferma nella piazza del Mercato (la Tržište), si visita la bella chiesa di santa Maria Magdaléna. Davanti a questa il moderno palazzo termale con gli spazi riservati alle mostre d’arte e il grande zampillo naturale che arriva a toccare i 15 metri: ne escono 3 milioni di litri al giorno. Vicino all’ingresso lo zodiaco a mosaico con belle frasi latine che alludono alla mitologia e alle ninfe delle fonti.

Con la funicolare (70 corone, alla Lanovka Diana, alla fine della Stará louka, il lungofiume) si può ascendere alla cima di uno sperone di roccia(Pietro il Grande, si dice, vi salì montando un cavallo non sellato e il nome reca traccia di quel personaggio: Petrova výšina) ad ammirare il sottostante panorama mozzafiato. La città attraversata dal Teplá (cioè Caldo perché d’inverno non gela), la vallata stretta scavata dal fiume e le foreste circostanti.

Notte, come al solito, nel parcheggio di un centro commerciale e, al mattino di lunedì 13, partenza per Praga.

PRAGA, LA MAGICA

Ci siamo scaricati da internet una serie di campeggi e relativi indirizzi. Ma Praga è una città in trasformazione. Cantieri ovunque: strade nuove di zecca, rotonde appena costruite, sensi unici provvisori per via dei lavori in corso: il navigatore, per quanto aggiornato, va in confusione e comincia a farci girare a vuoto.

È qui che salta fuori l’esperienza (ma anche lo stellone) dei vecchi camperisti. Siamo praticamente in centro e non è che sia facile parcheggiare. Accosto presso una fermata del bus, raccomando ad Egle di rispondere con un sorriso alle inevitabili proteste. Mi avventuro su un viale sconosciuto di Praga. Non so davvero dove sbattere la testa e provo nell’ufficio di un assicuratore che vedo aperto.

Beh, trovo una signora che non parla una parola che non sia ceca. Niente inglese, niente francese, nemmeno tedesco (per le due parole che conosco io nella lingua di Hegel). Disperazione assoluta, insomma, e buio totale. Riesco a far capire ugualmente cosa sto cercando e la signora in questione si attacca al telefono e accende il pc. In pochi minuti mi trova il campeggio più vicino, telefona per informarsi se c’è posto, mi stampa da internet la mappa e l’itinerario per raggiungerlo. Devo dirlo? Uscendo le ho dato un bacio.

Sbarchiamo così, dopo qualche minuto, al bel Sunny Camp, in località Stodulky (www.sunny-camp.cz, tel. 420251625774. 720 corone per due persone, elettricità compresa e docce libere), piccolino ma molto verde e ben attrezzato. Soprattutto pulito e a poche centinaia di metri da due stazioni del metro. Noi faremo base alla stazione Luká, anche perché c’è un supermercato (e anche un mercatino di bancarelle) molto utile alla sera per la spesa. Alla reception del Sunny ci sconsigliano la Praga card. Meglio il biglietto valido su tutti i mezzi per un giorno (100 corone, le 24 ore scattano al momento della prima obliterazione).

Praga è come te la raccontano tutti quelli che l’hanno già visitata: semplicemente meravigliosa.

La prima istantanea è quella di piazza san Venceslao, lunga e in salita, brulicante di gente, con la massiccia costruzione del Museo Nazionale a fare da sfondo al capo opposto. Si capisce subito che qui si sta bene, che questo è un contesto urbano e culturale di eccezione. Alla prima edicola mi compero Repubblica, per fame di notizie italiane (qui, come del resto in tutte le capitali europee, arriva assieme al CorSera e al rosa della Gazzetta).

Al centro della piazza, il grande bronzo di Venceslao a cavallo innalza la sua lancia e lo stendardo nazionale. Ma noi ci fermiamo davanti alla lapide che ricorda il sacrificio di due giovanissimi martiri della libertà. Qui nel 1969 morirono in modo atroce, a pochi giorni l’uno dall’altro, Jan Palach e Jan Zajíc per affermare che non si può vivere se non da uomini liberi. L’assolutismo sovietico sarebbe crollato anche per la loro scelta radicale.

A zonzo subito. Comincio da uno dei miei argomenti preferiti, san Martino che qui ha una basilica a lui dedicata. Purtroppo non la si può visitare perché apre solo per concerti. So che il mio incontro col grande santo che ha diviso il suo mantello col povero prevede altri appuntamenti nel corso del viaggio: per ora mi devo accontentare di un medaglione (settecentesco, direi) affrescato su una parete laterale della chiesa.

Poco più in là, seguendo l’arioso lungofiume della Moldava, ecco il Ponte Carlo, intitolato a Carlo IV che lo immaginò come collegamento tra la parte commerciale e quella amministrativa e governativa della città. Posso pensare che il progettare quel ponte e affidarlo ad un architetto importante (il tedesco Peter Parler, 1330-1399) nascesse anche da una idea diversa della città. Una idea nuova, più unitaria e, come dire, più consapevole del suo ruolo storico. E forse anche un esorcismo contro i capricci della Moldava che, quando esonda, può fare disastri inimmaginabili per chi la vede scorrere placida nell’abbagliante sole estivo.

Ponte Carlo porta a Malá Strana, l’antico nucleo storico risalente al X secolo, che subì un terribile incendio nel 1541 e le distruzioni della guerra dei Trent’anni. Dalle ceneri del disastro sorse l’emozionante complesso barocco che si presenta oggi agli occhi del visitatore.

Il ponte è un mondo a sé stante: artisti di strada, pittori, musicisti. Una folla variopinta e la possibilità di tanti incontri. Ai lati del ponte il visitatore è accompagnato poi da 31 sculture (soprattutto grandi statue) nelle quali sono scritte la storia e la memoria del popolo ceco. Ci si possono trascorrere ore, la guida in mano, ricostruendo il percorso di tale storia.

Tra le statue ci fermiamo davanti alla più famosa raffigurazione in bronzo di un santo molto amato da queste parti, san Giovanni Nepomuceno, patrono della Boemia e protettore dei battellieri, dei ponti e anche dei confessori perché, come vuole una gentile leggenda agiografica, egli preferì il martirio alla rivelazione di un segreto ricevuto in confessione. In realtà fu torturato e ucciso da re Venceslao IV che trovò in lui un fiero oppositore della politica tesa ad impadronirsi del patrimonio della Chiesa boema. Il re lo fece precipitare da Ponte Carlo e annegare nelle acque della Moldava il 20 marzo 1393.

Oltre il ponte ci si inerpica verso la sommità di Malá Strana. Ecco, percorrendo la Via Reale che poi diventa Nerudova e sale fino al Hrad (cioè il castello difensivo), le chiese barocche dedicate a san Giuseppe e a san Tommaso, ecco la Malostranské Námestí, la piazza in lieve pendenza, oltre la quale si affronta l’ultima rampa verso il Hrad, un complesso imponente di chiese, cappelle, sale, torri, strette viuzze. L’assetto attuale risale alla metà del Settecento; dal 1918 il castello è residenza presidenziale.

La via Nerudova prende il nome dal poeta Jan Neruda, autore dei Racconti di Malá Strana, che, a metà dell’Ottocento, qui abitò nella casa Ai Due Soli, al numero 47, facilmente riconoscibile per l’insegna che ritrae appunto due soli. Il Nobel per la letteratura cileno Neftali Ricardo Reyers Basoalto, attinse proprio da lui l’idea per il suo pseudonimo, Pablo Neruda.

Assistiamo al cambio della guardia e passiamo di cortile in cortile fino a trovarci davanti alla splendida cattedrale di san Vito, in cui è la tomba di san Venceslao e sono custoditi i gioielli della corona. Non si può visitare e la cappella è chiusa da una porta con 7 serrature: mi sarebbe piaciuto vedere la famosa corona di Carlo IV in oro massiccio e adornata di pietre preziose. Si dice che porti sfortuna a chi se la mette in capo senza averne diritto. Un tempo la corona stava sul cranio/reliquia di san Vencenslao e ne veniva tolta solo per le incoronazioni.

Il battente in bronzo della porta nord della cappella di Venceslao, opera insigne del Parler, è al centro di una cruenta diceria: vi si sarebbe aggrappato proprio Venceslao colpito a morte dagli emissari di suo fratello Boleslao. Il fatto avvenne nel 929: i sicari colpirono il giovane re mentre si recava alla messa mattutina. Sul lato est si apre la Porta d’oro con i suoi tre archi gotici. Chiesa che è autentico scrigno d’arte a cominciare dai portali in bronzo che raffigurano varie scene.

All’interno della cinta muraria che circonda il complesso bisogna percorrere il Vicolo d’oro. Le pittoresche case che ora sono laboratori di artigiani, una volta ospitavano i soldati del corpo di guardia. Scendiamo di nuovo verso il Ponte Carlo nella spettacolare scenografia della Moldava al tramonto e, sulla sponda opposta, della Starè Mesto. Bellissimo, indimenticabile.

Riguadagniamo una stazione del metro e il nostro camper dalla parte opposta della città (a spanne calcoliamo che il Sunny Camp si trovi a circa 15 kilometri dal centro, un ventina di minuti di metropolitana).

Il giorno dopo, martedì 14 luglio, scendiamo alla Porta delle Polveri (Prašná Brána) la cui prima pietra fu posta da re Vladislao II nel 1475 ed ebbe storia contrastata. Il nome attuale le deriva dall’essere stata, nel XVII secolo, deposito della polvere da sparo. Alziamo gli occhi per vedere, ad un angolo della centralissima via Celetná (Celetná Ulice, al numero 34), la statua della Madonna Nera. Al numero 34 è ospitato un interessante museo del cubismo ceco.

Di lì a qualche istante ci si spalanca davanti la Staromestské Námestí, la Piazza vecchia, che è una sorta di campo delle meraviglie. Case affrescate, negozi, bancarelle. Soprattutto la chiesa di santa Maria di Tyn, dove è sepolto il grande astronomo Ticho Brahe. La facciata presenta due torri irte di pinnacoli e dal disegno frastagliato che racchiudono un frontone a sua volta coronato da pinnacoli. Poi la bianca facciata barocca della chiesa di san Nicola.

Una libreria ci ricorda che Franz Kafka (1883-1924) visse nella Città vecchia la maggior parte della sua vita. L’autore de Il processo aveva da queste parti il suo modesto ufficio di assicuratore. E di notte, qualcuno giura, Franz torna a percorrere via Celetná con passo leggero e frugando il buio con i suoi grandi ed enigmatici occhi neri.

Ecco palazzo Kinský con la sua facciata decorata da stucchi bianchi ed ecco la casa della Campana di Pietra, antica insegna medievale. Davanti abbiamo il monumento a Jan Hus, il grande riformatore boemo andato sul rogo nel 1415 dopo la condanna pronunciata contro di lui dal Concilio di Costanza. 500 anni dopo, nel 1915, gli fu eretto questo grande gruppo di statue che raffigura la vittoria degli hussiti. A dominare la scena, la figura di Hus, solenne, ieratica. Sul volto gli si legge una determinazione assoluta, la volontà di non rinunciare alle proprie idee. A ben vedere una immagine dell’intero popolo ceco che anche nei periodi più bui non ha mai rinunciato a pensarsi libero e indipendente.

Dall’altra parte della piazza, per chi arriva dalla Celetná Ulice, uno degli edifici più belli del centro storico di Praga, il Municipio (Staromestská Radnice), iniziato nel 1338 e poi ampliatosi nei secoli inglobando case adiacenti e acquisendo quello stile composito che lo caratterizza oggi.

Sulla facciata, proprio sotto la torre, il grande orologio astronomico che risale agli inizi del XV secolo. Due i quadranti sovrapposti. In quello superiore l’orologio vero e proprio col giro completo delle 24 ore e i diversi colori per le diverse ore: blu per il giorno, marrone per aurora e crepuscolo, nero per la notte. In quello inferiore i segni dello zodiaco e la scansione delle diverse attività agricole. Un miracolo di ingegneria. Si racconta che il suo artefice, l’orologiaio Hanušk, alla fine del suo lavoro fu accecato per volontà del suo stesso committente, il consiglio municipale. Non si voleva che potesse costruire una simile meraviglia in altre città.

Piccola folla ad attendere lo scadere di ogni ora (dalle 8 alle 21), quando i quadranti si animano e davanti allo spettatore passa il corteo degli apostoli (sono 11 portati a 12 dalla presenza di san Paolo) e varie figure si animano. Alla fine un gallo manda il suo chicchirichì. Dopo il pranzo breve visita a Josefov, la città ebraica col suo cimitero e le sue sinagoghe.

Poi giro in battello sulla Moldava. Costa 290 corone ed è un vero piacere anche perché il biglietto comprende uno snack, un boccale di ottima birra e la visita al museo di Ponte Carlo. Proprio sotto un’arcata del ponte prende il via la nostra minicrociera, aiutati da Anissa, una ragazza albanese che parla perfettamente italiano e che viene chiamata di corsa per illustrare il tour al nostro piccolissimo gruppo.

Anissa ci racconta delle difficoltà di controllare il fiume che talora tracima e reca distruzione e morte. Ci parla dei diversi edifici che vi si affacciano e ci incuriosisce con l’isola di Kampa, tanto che alla fine del viaggio sull’acqua (un’ora circa) decidiamo di andarla a visitare.

Luogo a sua volta incredibile. Si attraversa Ponte Carlo in direzione del Hrad e si scende per una scaletta. Siamo accolti da una festa francese: prodotti della gastronomia di Francia, frutti della terra, ricette eseguite all’istante e, a fare da coreografia, un bel gruppo di soldati in uniforme napoleonica che accettano di buon grado di farsi fotografare con i turisti.

L’isola di Kampa è formata dal Ruscello del Diavolo, un braccio della Moldava piuttosto stretto: le acque irruente servivano a far girare ruote di molti mulini. Oggi ne sopravvivono un paio. Nei secoli l’isola ha avuto diversi usi. Anticamente era zona di orti, poi è diventata famosa come fabbrica e mercato delle terraglie. Oggi ospita ampi parchi con spazi espositivi per mostre ed è diventato il quartiere abitativo più costoso di tutta la città. Nella vicina piazza del Gran Maestro (Velkoprevorské Námestí) si trova l’antica sede del Gran Maestro dei Cavalieri di Malta che ci ricorda come Praga sia uno dei punti nodali della grande e misteriosa avventura degli ordini assistenzialisti nati dopo il Mille.

Vorremmo che le nostre giornate praghesi non finissero mai. È impossibile che la sorgente di tesori e di sorprese si esaurisca. Praga ti costringe a giurare a te stesso: “Tornerò e mi farò aggredire da mille altre meraviglie”. Vaghiamo ancora a lungo, curiosi di ogni cosa. Una delle ultime immagini che ci portiamo via è quella dei palazzi “abbracciati” sulle rive della Moldava, due edifici moderni (abbiamo visto qualcosa di molto simile a Berlino). È la Tancící Dum, cioè la Casa Danzante. L’hanno progettata e costruita Frank O. Ghery e Vlado Milunic nel 1996. Da queste parti la chiamano affettuosamente Ginger e Fred, nel ricordo dei due mitici ballerini.

KARLŠTEIN, IL CASTELLO DELLE MERAVIGLIE

Karlštein sorge una trentina di chilometri sotto Praga. Il borgo si stende in una stretta vallata che confluisce in quella più ampia dove scorre la Berounka ed è dominata da uno sperone roccioso con il più bel Hrad della Boemia. La Berounka va a gettarsi nella Moldova poco sotto Praga.

La serata in campeggio serve per appuntare qualche idea e inventariare le mille cose viste e godute. Che città è Praga? Magica a doverla definire con un aggettivo. Ma anche: molto viva, culturalmente aperta (abbiamo visto in due giorni l’offerta di almeno una decina tra concerti e spettacoli teatrali). Incredibilmente varia eppure profondamente unitaria: direi che il più bel barocco continentale (a dire il vero quasi sempre un gotico barocchizzato, con senso della misura) è qui forse più che a Vienna. Storia, memorie, identità etnica e nazionale. Con la storia, il giorno dopo, abbiamo un altro straordinario appuntamento.

Incontriamo qualche inattesa difficoltà a trovare Karlštein perché il castello, a dispetto della sua importanza storica e artistica, non è affatto segnalato. Uscire da Praga e trovare il borgo ci costringe ad un giro vizioso.

Raggiungiamo la cittadina di Unošt e di lì cominciamo a chiedere di paesino in paesino: strade strette e sconnesse, ma anche questo è conoscere e vedere. All’ingresso del borgo c’è un ampio parcheggio in riva al fiume (qui si va all’altezza ed è la prima volta che mi capita: 70 corone per veicoli inferiori a 2 metri e 70). Con 100 corone a persona si fruisce di una navetta che porta al castello. Vale la pena di far cenno allo spericolato procedere dell’autista e alle lunghe contrattazioni intavolate con ogni persona che incontra per stipare ulteriormente il suo veicolo. Mica ha torto, dal suo punto di vista: ogni nuovo imbarco gli vale 100 corone…

La visita costa 250 corone. La guida parla inglese ed è molto disponibile. In pratica ripete le parole che possiamo leggere in italiano nella brochure che ci viene data col biglietto. Anche qui l’avvio ai lavori di costruzione fu dato da Carlo IV il 10 giugno del 1348: il re elesse il Hrad a propria residenza e ad autentico forziere del tesoro e dei documenti più importanti del regno. Nei secoli il castello ha conosciuto alti e bassi e diversi rimaneggiamenti. L’ultimo, quello che lo consegna al visitatore moderno, risale alla fine dell’Ottocento ed è opera di Josef Mocker. Oggi il Hrad è un complesso magnifico, imponente, suggestivo.

Sale, scale, bastioni, cappelle e chiese (soprattutto quella di Panna Maria, la Vergine cioè, con gli affreschi che rievocano scene dalla vita di re Carlo IV) e soprattutto grandi tesori artistici. Confesso: questa è per me la meta delle mete. Sono venuto qui per vedere il trittico (olio su tavola) del grande Tomaso da Modena, lo straordinario pittore trecentesco che ha operato soprattutto a Treviso.

Tomaso si trovava fino a poco tempo fa nella Cappella di santa Croce (kaple sv. Kríže) preziosamente affrescata e adornata di pietre dure. Ora non più: sono concesse visite limitatissime con permessi speciali per il progressivo deterioramento degli affreschi. L’equivoco mi fa stare in angoscia fino al momento dell’incontro. Chiedo se Tomaso è visibile e la guida mi risponde di sì. Chiedo quando andiamo nella Cappella di santa Croce e mi dice che non è prevista nella visita.

Fino al momento in cui vedo il “mio” Tomaso Soprattutto la Madonna è di una bellezza non descrivibile. Assorto nella contemplazione, con buona pace del signor Stendhal e della sindrome che porta il suo nome.

Il sentiero che riconduce al parcheggio è immerso nel verde della foresta e poi ci porta ad attraversare il borgo. Qualche birreria e un negozietto di souvenir dietro l’altro. Il posto, come abbiamo appreso a nostre spese al mattino, è decisamente fuori mano. Chiediamo qualche informazione sulla strada migliore per recarci a Terezín, il campo di sterminio tristemente famoso per aver visto morire migliaia di bambini deportati. Seguiamo la direttrice Beroun, Kladno, Slany, circa una settantina di chilometri.

TEREZÍN, LA SHOAH DEI BAMBINI

Terezín ci offre subito l’immagine della pevnost minore (la Malá pevnost), la cupa fortezza degli orrori. Attraversiamo il paese e ci avviciniamo al Krematorium che si trova dalla parte opposta. Questa è la pevnost maggiore utilizzata dai nazisti per l’internamento di 15mila piccoli ebrei strappati ai loro genitori. I loro disegni sono conservati in un museo, all’interno del Josefov a Praga.

È una emozione dolorante che impedisce di parlare. Il Krematorium esibisce i suoi tragici simboli: uno spezzone di rotaia e muri impenetrabili. Siamo soli, in questo sole abbagliante del crepuscolo, e invasi dalla malinconia. Nella confusione del giorno il raccoglimento non sarebbe possibile. Ci sentiamo vicini alle vittime della shoah come mai ci era accaduto, forse nemmeno ad Auschwitz.

Poco più in là, il cimitero con le sue lapidi sparse sul terreno, al termine di un lungo, ampio viale di cipressi. Il muro che fa da confine ricorda tutte le nazioni che hanno vittime sepolte lì. Una preghiera breve davanti al tratto di muro italiano. Sul campo proietta la sua ombra lunga l’enorme candelabro in pietra a sette fiamme. Di lato, il monumento sovietico alla memoria con falce e martello.

Torniamo sui nostri passi e passiamo la notte nell’ampio parcheggio vicino alla pevnost minore. Sull’orizzonte il sole calante fa sfolgorare l’oro della Croce cristiana e della stella di David. I due simboli si stagliano, immensi, vicino all’ingresso della pevnost dove subito dopo la liberazione e per tutti gli anni Cinquanta venne creato un cimitero per i resti di circa 10mila vittime. Solo 2386 sono le tombe individuali. Terezín ha un suo sito ricchissimo di informazioni: www.parmatnik-terezin.it, sul quale si può compiere anche un tour virtuale del lager.

Il parcheggio ci costa 100 corone, l’ingresso 200. Riceviamo una breve, completa brochure in italiano che dettaglia tutti i luoghi del campo. È un pellegrinaggio nel dolore. La pevnost voluta da Maria Teresa (da qui il nome della cittadina) era una cittadella fortificata in posizione strategica, lungo il corso dell’Ohre poco prima che questo confluisca nell’Elba. Fu carcere politico e militare sia per gli Absburgo che per i nazisti. Qui fu rinchiuso (e morì il 28 aprile 1918) Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo.

Adesso nelle celle, nelle camerate, nei refettori, negli uffici di registrazione fanno il loro nido le rondini. Volano e gridano. Sembra un rito di innocenza e purificazione. Il fatto è che ad Auschwitz ti pesa addosso e ti uccide la memoria. Qui avverti le stanze piene di gente viva, ti sembra di vedere occhi che guardano, bocche affamate che implorano. E non so quale sia la sensazione più dura da gestire e rielaborare.

Di qui transitarono, ad opera della Gestapo, più di trentamila oppositori del nazismo, soprattutto ebrei. Soltanto tremila i sopravvissuti. Quelli che non vi morirono direttamente furono smistati in altri lager. Vi furono fucilazioni senza processo, circa 300 persone. Il 2 maggio 1945 furono fucilati 52 prigionieri, membri dei gruppi della Resistenza. C’è anche un patibolo usato una sola volta, il 2 maggio 1945, per impiccare tre prigionieri. Uno era colpevole di aver tentato la fuga. Gli altri due, un uomo e una donna, furono scelti a caso. La scritta Arbeit macht frei non è all’ingresso, ma sulla porta che introduce al primo cortile.

Terezín è anche un monumento alla ipocrisia e alla propaganda nazista. Ufficialmente funzionava perfino una infermeria cui ci si poteva rivolgere se si stava male. Nel museo, nella zona centrale del lager, lo si apprende direttamente dalle immagini. Nel cinema (aperto nel 1943 per il tempo libero del personale di guardia. Per loro e per le famiglie funzionava perfino una piscina) oggi si proiettano video di documentazione. Noi guardiamo un film con sonoro italiano (gentile e disponibile il personale, basta chiedere) che si intitola “Mesto darované”, cioè “La città donata”. Himmler presentò la tragica esperienza di Terezín come un felice e fortunato esperimento di comunità insediata per gestire un territorio. Lui stesso dettò il titolo del film. Si vedono uomini impegnati in una partita di pallone con folla di tifosi attorno, donne che cuciono in allegra compagnia e bambini intenti ai giochi o ad ascoltare le favole narrate dagli anziani. Tutti insieme si procurano di che vivere coltivando un immenso e fertile orto.

Nella pevnost minore alcune camerate sono state trasformate in spazi espositivi. Due di questi sono dedicati ad un genio assoluto della pittura, Franz Peter.

Peter nacque a Varnsdorf il primo gennaio 1919. Fu deportato qui con la moglie e i genitori e smistato il 16 ottobre del 1944 verso Auschwitz, dove morì probabilmente in quello stesso mese. Fu pittore impressionista di straordinaria forza, ritrattista di grande penetrazione psicologica, paesaggista affascinante, cartellonista pubblicitario, grafico geniale sia per copertine di libri che di dischi: insomma una delle tantissime e luminose intelligenze spente dal nazifascismo.

Peter continuò a dipingere anche qui, nel lager. In quali condizioni è immaginabile. E restano molti dei suoi quadri.

Vicino alle celle di isolamento del lato nord, leggo una piccola lapide, poche parole sul marmo grigio, e provo un brivido. Non sapevo che fosse morto qui un poeta francese che ho molto amato nella mia adolescenza, Robert Desnos. Era nato il 4 luglio del 1900 nella più bella capitale del mondo, una Parigi che celebrava il suo ruolo nella seconda edizione delle olimpiadi moderne. Desnos aveva un’anima grande e moltissimi interessi. Non solo poeta ma anche, ad esempio, sceneggiatore radiofonico. Nei primi anni Trenta fece scalpore un suo Fantomas diffuso dalle ancor giovani onde hertziane.

Nascere a Parigi per venire a morire qui, nello squallore di Terezín, lui che era stato amico di Picasso, Hemingway e Dos Passos e aveva scritto i versi per le canzoni di Juliette Gréco: accadde l’8 giugno 1945 per un tifo che finì col distruggere quel che restava del suo corpo già devastato dalle privazioni della prigionia. Beffardo, il destino: i russi avevano liberato il lager esattamente un mese prima.

Nel 1930 aveva scritto due versi, un nero presagio.

Ora io stesso non sono più che un’ombra
fra cento e cento altre ombre dispersa.

Pochi chilometri fuori Terezín: ci facciamo tentare da due guglie di campanile. È il bel monastero, con chiesa barocca, di Doksany. Le guide che abbiamo con noi non lo citano nemmeno ed è una piccola scoperta. Se riesco a intendere bene le scritte in ceco, la costruzione dovrebbe risalire al 1144. Ha bisogno peraltro di un vigoroso restauro: vediamo qua e là qualche impalcatura, ma ci vuole ben altro. Peccato. Poi statali 16 e 38 fino a Kutná Hora, la Montagna delle Miniere, cioè, come suona la traduzione del nome.

KUTNÁ HORA, LA MONTAGNA D’ARGENTO

A Kutná Hora, si dice, c’era (e forse c’è ancora) tanto argento che lo si poteva scavare perfino nelle cantine di casa. La cittadina (che dal 1995 è patrimonio dell’Unesco) divenne zecca dei re di Cekia che vi soggiornavano abitualmente. Ha dunque un passato splendido, testimoniato soprattutto dalle costruzioni gotiche e poi rinascimentali e barocche. Quando fu scoperto il Nuovo Mondo e in Europa cominciò ad affluire argento che costava molto meno di quello estratto qui, finì lo splendore. Kutná Hora resta comunque un gioiello della Boemia, adagiata dolcemente sui declivi di un’ampia vallata.

Partiamo dalla piazza principale, dedicata ad uno storico ottocentesco, la Palackého Námestí. Lì vicino attrae l’attenzione una settecentesca, poderosa colonna della Vergine. Ecco la Kamenný Dum, la Casa di Pietra, dalla bellissima facciata gotica.

E poi le chiese: quella dedicata a Giovanni Nepomuceno con i suoi affreschi settecenteschi e la adiacente monumentale kasná (fontana, cioè) progettata forse da Matthias Rejsek negli ultimi anni del Quattrocento; quella dedicata a san Giacomo (sv. Jakub, la parrocchiale cittadina) sul cui altar maggiore si può ammirare la settecentesca pala di Peter Johann Brandl; infine, salendo per la Barborská Ulice che ha da una parte 13 statue barocche e dall’altra l’ex collegio gesuitico poi trasformato in caserma, la chiesa di santa Barbara (sv. Barbora). Da qui si gode un fantastico panorama sulla città e sulla vallata. La chiesa dedicata a santa Barbara (l’ingresso è a pagamento, 50 corone) propone il gotico più prezioso, con pochi rivali in tutto il paese. Peccato che la facciata sia coperta dalle impalcature del restauro. L’interno è di grande impatto. Colpiscono le ampie volte gotiche e la serie degli stemmi multicolori. La chiesa ha subito vari rifacimenti: fu probabilmente Peter Parler a darle l’aspetto attuale.

Notte tranquilla nel parcheggio di un centro commerciale vicino alla stazione delle corriere. Il giorno dopo ci muoviamo verso il confine con la Slovacchia. Da Kutná Hora attraversiamo cittadine e paesi: Caslav, Havlickuv Brod, Nové Mesto na Morave, Bystrice nad Pernštejnem, Boskovice, Prostejov, Prerov, Bystrice pod Hostynem, Valašské Mezirící.

DEMÄNOSKA DOLINA, GROTTA DELLE MERAVIGLIE
SVÄTY KRIŽ, CATTEDRALE DI LEGNO

Qui siamo a pochi chilometri dalla frontiera che si supera senza alcun controllo. A sera sostiamo a Žilina, nel parcheggio di un centro commerciale. All’ora di andare a letto una pattuglia della polizia bussa alla porta e ci chiede i documenti. Ci fanno capire che lì non si può campeggiare. Spiego che vogliamo solo dormire e che il giorno dopo ce ne andiamo di buon mattino. Tutto a posto.

Ma non è finita. La nostra prima giornata slovacca ci riserva ancora un inatteso spettacolo. Alziamo gli occhi e vediamo immensi stormi di anitre selvatiche solcare il cielo. Gruppi grandi e gruppi più piccoli, nella consueta formazione a cuneo. Decine, centinaia, forse migliaia, a ondate successive. Riempiono il cielo da orizzonte a orizzonte, volano sicure guidate dall’istinto.

Il giorno dopo la nostra meta è un ulteriore spettacolo offerto dalla natura. Ci dirigiamo verso Poprad e lì saliamo in autostrada scoprendone l’ottima scorrevolezza. Qui le autostrade sono gratuite e l’unica riserva nasce dal tipo di asfalto: ci sorprende un acquazzone e dobbiamo rallentare molto perché il fondo non drena l’acqua piovana. Usciamo a Liptovský Mikuláš, direzione Demänovská Dolina.

La Demänovská è l’irruento torrente che attraversa questa stretta vallata. Nasce nei Bassi Tatra e si snoda tra dense foreste di pini e abeti, in un paesaggio dominato dalle torri di dolomia. È una zona di impressionanti grotte naturali. La più frequentata è la Demänovská l’adová jaskyna. Si percorre un circuito di quasi 700 metri nel ventre della montagna. Qui hanno abitato gli orsi e davvero splendide sono le cascate e le colonne di ghiaccio. Fa freddo e lo stacco con la temperatura esterna è di almeno 15 gradi. 7 euro l’ingresso, una cosa giusta. Decisamente esoso il parcheggio: identica cifra dell’ingresso.

A pochi chilometri visitiamo la Sväty Križ, la più grande chiesa luterana in legno della Slovacchia (1 euro per l’ingresso). Risale al 1774 ma originariamente sorgeva qualche chilometro più a nord. Smontata pezzo per pezzo è stata trasferita in questa zona verdissima quando è stato realizzato un grande bacino artificiale. Davvero affascinante col suo pulpito in legno, l’altare decorato e le balaustre che corrono tutto intorno alla sala: pittori popolari hanno decorato ogni possibile superficie. Noi vi entriamo in un momento di grande splendore: fervono i preparativi per la celebrazione di un patrimonio.

LEVOCA, SCRIGNO D’ARTE

Nel tardo pomeriggio (autostrada ancora in direzione Poprad e poi statale 18) siamo a Levoca, località poco nota ma che si rivela un autentico scrigno d’arte.

Cittadina raccolta attorno alla grande piazza centrale (la Námestie Majstra Pavla) e circondata da mura le cui parti più antiche risalgono al Trecento e delle quali restano cospicue vestigia. Sulla Námestie Majstra Pavla si affaccia l’imponente edificio del radnica, il municipio. Impossibile non vedere la grande gabbia in ferro, la klietka hanby, cioè la gabbia della vergogna. Anticamente vi venivano esposte le donne sorprese a tradire il marito.

Visitiamo la chiesa intitolata a san Giacomo (sv. Jakub), la parrocchiale gotica che in questo periodo è sottoposta ad un radicale restauro. Splendidi gli affreschi gotici risalenti al Tre e Quattrocento, ma da togliere il fiato la mirabile ancona intagliata dell’altar maggiore realizzata dal massimo artista nato da queste parti, Pavol. Il maestro vi lavorò per un decennio tra il 1508 e il 1517. L’ancona è molto grande (18 metri per 6) e un capolavoro nel capolavoro è costituito dalla predella che raffigura l’ultima cena. Sopra la predella dominano tre grandi statue. Al centro la Madonna col bambino e ai lati gli apostoli Giacomo e Giovanni. Pavol diede in questa chiesa il meglio di sé: gli appartengono anche l’altare della Natività e l’altare dei Quattro Giovanni.

Visitiamo anche la barocca chiesa di santo Spirito. La chiesa è chiusa ma due giovanissimi e gentili frati francescani conventuali ce la aprono e attendono che la visitiamo illustrandoci varie figure. Che contrasto col gotico di san Giacomo!

LO SPIŠ, GLI SPIŠSKÁ KAPITULA, LO SPISŠKÝ HRAD
SAN MARTINO E LA STORIA DI UNA CORSA IN SALITA

Siamo nello Spiš, un territorio che ha avuto uno storia abbastanza autonoma rispetto al resto della nazione. Qui, fin dal XIII secoli, erano insediate popolazioni sassoni di lingua tedesca divise in 24 distretti. A sud si estende un’area naturalistica che è la più bella di tutto il paese e cui viene dato il nome di Paradiso slovacco.

A pochi chilometri da Levoca troviamo gli Spišská Kapitula, un complesso religioso che comprende tra l’altro cattedrale (dedicata a san Martino), palazzo vescovile e seminario. È domenica e intercettiamo le persone che escono di messa: mi presento al parroco e gli spiego come io sia uno studioso della figura del santo titolare della cattedrale. Anche se la chiesa sta chiudendo possiamo visitarla con agio e fotografare (di solito proibitissimo all’interno delle chiese). San Martino è ritratto in vesti episcopali nelle statue lignee dell’altare maggiore. È a destra della Vergine Maria (a sinistra si trova un altro santo molto popolare, Nicola). Episodi della vita di Martino sono raccontati in 4 vetrate.

La zona degli Spišská Kapitula è dominata dallo Spisšký Hrad, il castello la cui costruzione risale al XII secolo, autentico baluardo difensivo contro le invasioni dall’est. Un terribile incendio lo distrusse nel 1780 ma oggi è visitabile in ogni sua parte. Il panorama complessivo (lo Spisšký Hrad che sovrasta gli Spišská Kapitula) è così bello che viene adottato come copertina di tutte le guide e depliant della Slovacchia. Il panorama per eccellenza.

Per il Hrad bisogna affrontare un’erta salita (parcheggio 2 euro, ingresso 5 euro) e, proprio in quella giornata, un gruppo di ragazzi ha organizzato una corsa cronometrata. In pratica segnano il tempo su un pettorale e lo registrano all’arrivo (non lo sapevamo, ma accettare di partecipare dà diritto allo sconto del 50 per cento sul biglietto di ingresso). Pane per l’atleta del gruppo, Danilo (che può vantare addirittura un tricolore di rugby), il cui tempo fa strabuzzare gli occhi ai giudici di gara. Ma nemmeno noi, dai, ce la caviamo malissimo.

Per entrare si passano due successivi recinti e ci si perde in una serie di camminamenti. Nel cuore del Hrad sorge una torre cilindrica alta 19 metri. Ci si arrampica sulla sommità dapprima con una scala metallica esterna, poi procedendo per stretti gradini ricavati nello spessore del muro. Il risultato vale la fatica. Lo sguardo spazia fino agli Alti Tatra che distano una quarantina di chilometri e segnano l’orizzonte.

Vallate, foreste, borghi, ancora vallate e i nastri azzurri delle strade di collegamento: è difficile godere di visioni tanto ampie e struggenti. Ai nostri piedi tutta la struttura difensiva del castello di cui si può visitare l’antica sala delle torture e una parte museale. Vi sono conservati antichi strumenti domestici e soprattutto armi, cannoni compresi. In uno stanzone funziona una taverna.

Nei diversi cortili sono aperti negozi di souvenir. Noi acquistiamo piccole ceramiche che riproducono torrioni del Hrad. Proprio giuste per fare i regalini al ritorno.

Verso sera prendiamo l’autostrada verso Bratislava (quasi completa, brevi tratti sulla viabilità normale) e con le prime ombre ci fermiamo a Trnava, ad una cinquantina di kilometri dalla capitale.

BRATISLAVA, CITTÀ DI RE

Bratislava ci accoglie nel suo fatiscente campeggio. Da Trnava sono pochi minuti di autostrada. Scegliamo l’uscita che indirizza al centro della città. Col senno di poi sappiamo che l’uscita per l’aeroporto è la più utile per raggiungere il camping Zlaté Piesky. Ne avevamo l’indirizzo ma visti i precedenti cittadini del navigatore speriamo nella nostra buona stella. In effetti vediamo un segnale che indica il campeggio. Lo raggiungiamo con qualche fatica, chiedendo informazioni. La segnaletica non abbonda.

Campeggio carente come pulizia e manutenzione. Le docce colpiscono come colpi di cannone e gli scarichi non funzionano. Poco costoso, questo sì, meno di 19 euro a notte. Ci si adatta, anche perché la fermata del bus (linea 4) è praticamente fuori della porta. Il biglietto costa 70 centesimi e dura un’ora. Non l’ultimo grido in fatto di modernità, ma dopo venti minuti scendiamo a due passi dalla Hviezdoslavovo Námestie: più che una piazza, un lungo viale chiuso ai due estremi dall’edificio del Teatro nazionale slovacco e dal monumento di Pavol Ország.

Ország, detto Hviezdoslav (ecco il nome della piazza) fu poeta insigne, a cavallo tra Otto e Novecento, ed è considerato un po’ il padre della lingua letteraria slovacca. Tra teatro e monumento una lunga passeggiata con larghi tratti verdi. In uno spazio vediamo una corona di lumini accesi: il tributo ad un ragazzo morto durante un recente concerto. I ragazzi si assomigliano in tutte le parti del mondo. Mi viene in mente che a Bratislava, su un ponte vicino all’isola di Kampa, ho visto un groviglio di lucchetti esattamente come su un certo ponte romano.

La Staré Mesto, la Città Vecchia è a due passi.

Cominciamo dalla cattedrale, il Dóm sv. Martina. La si vede da lontano. Sulla cuspide della torre, alta 85 metri, si trova la corona d’oro simbolo del potere regio. È alta un metro e 57 e pesa 300 chili. La prima pietra fu posta nel 1221 e la costruzione fu in stile romanico, di cui peraltro rimane ben poco per via di tutti i rifacimenti successivi. Tra il 1563 e il 1830 qui furono incoronati tutti i sovrani ungheresi e ancor oggi, abbassando gli occhi sul selciato, si possono notare le piccole corone in oro che segnavano il percorso del corteo reale.

L’interno, molto severo, è a tre navate. L’immagine di Martino (nel gesto consacrato dalla iconografia col taglio del mantello e la sua spartizione col povero) è affidato ad una grande scultura in marmo nero. La eseguì nel 1734 Jurai Rafael Donner (1693-1741). Martino è un uomo maturo (non un adolescente come sappiamo dai suoi biografi) e veste i panni di un nobile ungherese. Del resto Martino nacque proprio in Ungheria e ogni epoca vorrebbe farlo proprio. Davvero un santo per tutte le stagioni.

Martino tiene per le redini un cavallo bizzoso e rampante, mentre il povero che attende il lembo di mantello, sporge con tutta una gamba e una stampella dal piedistallo. L’insieme è drammatico e risente dell’iconografia tedesca (Dürer e altri). Nel Dóm sv. Martina (ingresso 2 euro) si può vistare il museo di arredi sacri, tra cui il calice neogotico in oro della seconda metà del XIX secolo. È possibile anche salire sulla torre/campanile della corona.

Ci incamminiamo poi verso il Hrad. Il castello sorge su un colle che domina il Danubio. Qui era il cuore di Bratislava già prima del Mille. Poi fu fortezza romanica e con gli ungheresi si trasformò fino a diventare un baluardo insormontabile. Tra il 1552 e il 1570 divenne una sorta di cittadella inespugnabile. Nemmeno le invasioni ottomane riuscirono a farlo cadere. La sua aura di inespugnabilità lo fece scegliere come abituale residenza della famiglia reale ungherese e come cassaforte del tesoro della corona. Nel Settecento assunse la forma di quadrilatero che adesso caratterizza il panorama di tutta la città.

Oggi il castello, che ha conosciuto la devastazione di un terribile incendio ed è uscito dall’abbandono soltanto dopo la seconda guerra mondiale, è sede di rappresentanza del presidente slovacco e spazio espositivo. Salendo al Hrad si possono ammirare tanti panorami diversi. Sulla sponda destra del Danubio si è allargata la Bratislava di oggi. Sotto di noi il moderno ponte in cemento armato e cavi di acciaio realizzato tra gli Sessanta e Settanta: il capo del ponte sulla riva opposta a noi è un’alta torre. Sopra c’è il disco di un ristorante girevole. Sulle panchine di una delle terrazze del parco attorno al castello improvvisiamo un picnic. Poi ci tuffiamo di nuovo nella Città Vecchia e nella sua zona pedonale che ospita artisti di strada e pittori.

Ecco la Námestie SNP, intitolata all’eroe dell’insurrezione slovacca (Slovenského Národného Povstania), con la chiese calvinista e passionista (questa con annesso monastero). Qui c’è anche il palazzo della Posta col suo salone liberty: comperiamo i francobolli per le nostre cartoline e ci capita di girare un po’ per gli uffici. Non mi lamenterò mai più dell’organizzazione delle Poste Italiane.

Poi lo stará radnica, cioè il municipio vecchio. Da lì passiamo al Primaciálny palac, il palazzo primaziale, il municipio moderno. Nell’atrio una serie di pannelli luminosi illustra la storia dell’edificio e dell’intera zona con attenzione soprattutto alla raccolta di arazzi con scene mitologiche. Lì vicino la Františkánske Námestie con la chiesa dei Gesuiti (che barocchizzarono il precedente tempio luterano) e la chiesa dei Francescani, un edificio in origine gotico ma poi rimaneggiato.

Ci perdiamo nei vicoli tra bancarelle e souvenir. Bratislava ci ricorda certe città spagnole che hanno disseminato il contesto urbano di statue bronzee negli atteggiamenti più disparati. Da un angolo un fotografo punta il suo obiettivo spione. Da un tombino emerge un operaio che guarda il mondo da sotto in su. A due passi un artista di strada, di quelli che hanno eletto l’immobilità assoluta a proprio mestiere, lo imita. Difficile distinguere la fissità eterna del bronzo da quella effimera dell’uomo.

Verso sera ci sediamo in uno dei tanti caffè. Un paio di birre, ovviamente. E poi ritorno nel nostro campeggio. Sull’autobus una ragazza (indiana?) improvvisa un piccolo show con la sua fisarmonica. In giro per il mondo capita di vedere queste cose nel metro, ma su un autobus è proprio la prima volta. Qualche moneta e la ragazzina dagli occhi nerissimi e dal sorriso triste scende alla successiva fermata. Ci fermiamo in un centro commerciale per acquistare qualche specialità culinaria da portare a casa agli amici. In primis, sempre birra, naturalmente.

Prima di dormire diamo un’occhiata all’atlante. Vienna è a pochissimi chilometri da qui. Il confine tra Slovacchia e Austria è a due passi. Nel mio cuore traccio un bilancio bello e forte: queste due nazioni hanno rivelato tanta bellezza e identità robusta. In modo, per noi, forse inatteso.

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