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Mito e Modernità
di Gian Domenico Mazzocato
 

(per una decifrazione del mondo moderno in compagnia di Jean-Pierre Vernant)

Gli uomini si finsero il cielo essere un gran corpo animato,
che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti,
che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni
volesse loro dir qualche cosa.
E sì incominciarono a celebrare la naturale curiosità,
ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza.

(Giambattista Vico, Scienza nuova)

Il presidente del CLE, Rainer Weissengruber, mi ha chiesto di scrivere un breve saggio
sulla persistenza dei valori della classicità nell’epoca moderna.
Ho deciso di scrivere attorno al tema
che ormai sta diventando centrale (e addirittura esclusivo, per certi aspetti)
alla mia narrativa e, in generale, alla mia indagine intellettuale.
È il tema della interpretazione della contemporaneità attraverso il mito, in particolare il mito classico, il mito che discende dalla tradizione culturale grecolatina.
Ho stabilito di raccontare, come si vedrà subito, la storia di una attesa e anche di dare spiegazione della tensione e della spinta culturali che mi hanno indotto a fare di una rivisitazione del mito di Ulisse/Odisseo, il cardine del mio ultimo romanzo, Il caso Pavan, come spiega la classicista Loredana Marano in una sua chiosa.

Qualche anno fa, il ministro de l’Éducation nationale, Lionel Jospin, chiese un parere a Jean-Pierre Vernant sulla utilità o meno di insegnare greco nelle scuole di Francia. Il greco condannato come inutile. Subito dopo sarebbe seguito il latino, altrettanto inutile. Un vero e proprio spreco di tempo e di energie. Tempo ed energie degli studenti, degli insegnanti, dell’intero sistema scolastico da convogliare, con ben diverso esito e vantaggio, in altre direzioni.

Jean-Pierre Vernant si prese tempo per rispondere. Fece un accurato sondaggio presso tutti gli insegnanti di greco e la risposta che ricevette fu una duplice sorpresa (la seconda addirittura una clamorosa sorpresa).

In primo luogo la “domanda” di lingue classiche da parte degli studenti (e dunque anche delle loro famiglie) era molto stabile, non segnava alcun decremento: le classi presentavano, un anno dopo l’altro, gli stessi numeri.

Ma la sorpresa era ancor più significativa nel suo secondo dato: numerosissimi (e, tra l’altro, i più bravi e motivati) erano gli studenti di origine maghrebina. Tra di loro, straordinari erano l’impegno e il rendimento delle ragazze.

Un dato sconvolgente, che batteva sulla breccia ogni progetto abolizionista: nella logica di una integrazione con la cultura europea, gli studenti maghrebini avevano operato la scelta di studiare il greco, scoprendone e cogliendone la fondamentale comunanza tra Europa e cultura dell’Africa settentrionale. Il Maghreb è stato fortemente ellenizzato e successivamente latinizzato in modo profondo e radicale. Serve citare Apuleio? Serve citare Agostino?

Quegli studenti avevano compreso che, sulla strada dell’integrazione, una via dal percorso straordinario e affascinante, ricco di implicazioni e di sviluppi, veniva dalla consapevolezza che Nord e Sud del Mediterraneo erano intimamente legati in un insieme culturale segnato in modo irreversibile dalla cultura grecolatina. Gli studenti maghrebini riscoprivano il loro passato studiando greco e latino.

Vernant poteva fornire dunque al ministro Jospin una risposta trionfale, inattesa, sconvolgente. Una risposta che, oltre a tutto, andava al cuore del grande problema della società francese (che è poi un problema di tutte le società europee): l’integrazione con la cultura maghrebina. Tuttavia Vernant, uomo di grandi spirito e umorismo, volle concludere in maniera provocatoria il suo rapporto al ministro.

Perché la domanda di fondo restava: greco e latino sono utili? Servono a qualcosa? No, rispose Vernant, non servono proprio a nulla. Poi precisava la sua provocazione. Non servono più delle matematiche contemporanee o della fisica quantistica. Non servono assolutamente a niente, disse.

Tranne che a strutturare il cervello (lui dice quasi brutalmente: fabriquer le cerveau), a disegnare il progetto complessivo di ciò che chiamiamo cultura.

Cioè servono a niente, ma servono a tutto. Il contatto con la cultura grecolatina non rientra nella categoria dell’utile, ma in quella (fondamentale e fondante) dell’emozione e della bellezza.

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Questo scritto vuole essere la cronaca di un’attesa. Perché quel vecchio albero che risponde al nome di Jean-Pierre (ormai ha più di 90 anni) non finisce di essere fertile, continua a regalarci frutti prelibati. Per ottobre, infatti, l’editore Raffaello Cortina manderà nelle librerie d’Italia la traduzione dell’ultima opera di Jean-Pierre Vernant, Senza frontiere.

Titolo paradigmatico, alla luce di quello che si è detto. Ma certo le frontiere saranno anche quelle del tempo personale di Vernant che ha sempre rifiutato l’autobiografia, contraria al suo modo di pensare la scrittura.

Ma anche, come dice con la consueta arguzia, superiore alle sue capacità. “Mi hanno chiesto almeno venti volte di scrivere la mia autobiografia, dice sorridendo, ma come potrei scriverla visto che sono solo un vecchio buonuomo che si trova ad avere i piedi in un’epoca che, per i giovani d’oggi e anche per tanti adulti, assomiglia troppo alla preistoria?”. Nei suoi 90 lucidissimi anni, Vernant dice anche di temere i vuoti di memoria. “Non ho la mentalità dello storico, afferma, e anche se decidessi di diventare lo storico di me stesso, scriverei una storia con tutte le date sbagliate”.

Giocando sul filo della sua stessa ironia, verrebbe da dire che questo rifiuto di raccontarsi è un vero disastro, perché l’avventura esistenziale di Vernant è ricchissima e suggestiva. Nato nel gennaio del 1914 a Provins, vive una infanzia difficile (di fatto non conosce suo padre e su questo ricamerà le sue riflessioni attorno al complesso di Edipo), viene richiamato alle armi e subito smobilitato allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sceglie di entrare nella Resistenza e ben presto assume ruoli di primo piano nel movimento di liberazione. È lui il mitico colonnello Berthier che comanda le Forces Françaises de l’Intérieur dell’intero Sud-Ovest francese. Comincia la sua intensa militanza comunista.

Il comunismo fu poi da lui rinnegato, pur restando incrollabile e ferma la sua opposizione antifascista.

E dunque l’attesa di questo ultimo lavoro di Vernant è grande, perché si propone come una ulteriore riflessione sulla contemporaneità nella luce della cultura classica e delle categorie mentali che lo studioso francese ha tanto indagato (e sconvolto).

Nel 1935 Vernant era stato in Grecia, rimanendo folgorato dalla bellezza del luogo ma anche dalla riflessione attorno alla realtà del popolo greco sull’orlo della dittatura: l’anno successivo Metaxas avrebbe preso il potere. Nel ’48 conobbe Louis Gernet che studiava la cultura greca con le categorie della sociologia e dell’antropologia. “E Meyerson, ha dichiarato Vernant in una recente intervista, mi ha insegnato le potenzialità della psicologia storica. Grazie a loro, decisi di dedicare la mia vita allo studio della Grecia arcaica e classica”.

Vernant è ora uno dei massimi ellenisti viventi. In italiano abbiamo letto Le origini del pensiero greco (Editori Riuniti) e soprattutto Mito e pensiero presso i greci e Mito e tragedia (entrambi pubblicati da Einaudi).

Gli scenari di vita e dolore che hanno segnato la sua esistenza tornano prepotenti in questo suo ultimo libro. Il tema della morte, per esempio, e soprattutto il tema della cosiddetta “bella morte”.

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È nel mito che Vernant trova risposte (sarebbe più giusto dire: modi di rispondere, più diretti, più immediati) che non possono venire né dagli studi storici né dai trattati filosofici. E forse nessuno meglio di chi ama Vico può comprendere quanta verità ci sia in questa posizione. I miti sono racconti, piacevoli ad essere intesi, o comunque interessanti e coinvolgenti, quasi l’uomo fosse un perenne bambino, un eterno ricercatore di favole.

Un modo di porre i problemi i quali si rivelano e dispiegano mano a mano che il racconto procede. Quando Esiodo racconta l’origine del mondo o la creazione della prima donna (questo uno degli esempi che fa Vernant) non (si) chiede mai «Cos’è l’uomo?». Non gli interessa, insomma, la domanda dei filosofi.

Gli interessa raccontare. Ma dietro il racconto emerge necessariamente un certo modo di cogliere il mondo, di capire l’esistenza degli umani, il posto dell’uomo nel mondo, il rapporto che intercorre tra uomo e dei oppure tra uomo e natura.

L’approccio del mito alle problematiche umane ha qualcosa di spiazzante, di straniante. Segna una presa di distanza da quello che sembra evidente alla nostra mentalità di moderni.

La morte, ad esempio. La morte è, per noi, ciò a cui non si può/non si deve pensare. Dice proprio così: l’impensable. La cultura moderna ha forgiato l’idea che ogni uomo è unico e insostituibile. Il mito/la mitologia aiuta ad avvicinarsi al tema sotto le spoglie di una bella storia. Dunque il mito ha una sua strategia nei riguardi del problema della morte; induce, in un modo tutto suo, l’uomo a considerare se stesso nel gioco delle relazioni e nei rapporti con il mondo fenomenico. Se ci crede, anche con il mondo della metafisica.

La morte, tema centrale. E Vernant, che viene dagli scenari di morte e desolazione della guerra, che ha nell’anima l’abisso di orrore in cui sprofondò la cultura europea sotto i colpi del nazifascismo, non poteva non applicare all’oggi le sue categorie di analisi.

Perché oggi la morte ci sfiora, ci tende agguati, ci coglie di sorpresa. Dalle Torri Gemelle al metro di Londra. Vista dalla parte di chi la reca e la infligge agli altri, è la “bella morte”, la morte del kamikaze. La stessa cosa che la “bella morte” degli antichi, del “bel morire” e del progetto di vendetta di Achille?

In una intervista concessa qualche giorno fa, proprio nell’attesa di questo Senza frontiere, Vernant ha precisato che la distanza tra Achille e gli odierni kamikaze è grande. “La bella morte greca è la memoria imperitura lasciata dall’eroe quando scompare. Chi conquista un certo grado di intensità eroica non muore mai, nella misura in cui il suo ricordo appartiene al futuro. Però in Achille, il quale lotta per vendicare l’essere che amava più di ogni altro, e non pensa sia necessario sterminare tutti i troiani, non c’è niente di fanatico. Inoltre egli non ha l’idea, tipica degli attuali terroristi, che la morte eroica conduca alla felicità. Mentre i kamikaze considerano il male e il bene verità assolute, e la loro azione testimonia il valore di ciò che è bene, la bella morte non intende dimostrare la verità di una religione o di uno Stato: Achille trova la sua immortalità non nell’aldilà, ma in mezzo agli uomini”.

Come si sarà compreso è innanzitutto da Omero che Vernant attinge motivi di riflessione. Con lui è superata la questione omerica. Che Omero sia esistito o no, che Iliade e Odissea appartengano a due Omeri diversi, può essere questione che interessa gli storici o coinvolge gli specialisti. Omero, come dice Vernant, è una sorta di sapere universale. E quello che preme sulla sua lettura moderna (e che deve premere dunque ad ogni lettore di oggi) è che, a contare davvero, restano pur sempre i testi formidabili dei due poemi e la loro eco eterna.

Forte di questo azzeramento della questione omerica, Vernant proclama che l’Odissea è, in certo qual modo, una contro-Iliade.

Centrale è sempre la figura di Achille. Ricordiamo? Il figlio di Teti e Peleo deve scegliere tra una vita lunga e anonima e una vita breve e segnata dalla gloria. Sceglie senza lasciare margine al dubbio, all’esitazione. Per i greci si esiste davvero quando si conosce la gloria: la vita non si conserva, la si conquista.

Un paradosso, perché l’unico mezzo per conquistare la vita (una vita gloriosa, cioè, l’unica che valga la pena di essere vissuta) è la morte. La grande intuizione greca che discende dal mondo omerico: la morte come mezzo per sottrarsi, nella luce della gloria, alla morte.

E tuttavia quando Ulisse scende negli Inferi e incrocia l’ombra di Achille, l’eroe morto per vendicare Patroclo, sente l’uccisore di Ettore rinnegare la scelta. Quanto meglio sarebbe essere l’ultimo dei vivi, che il primo tra i morti. Odissea dunque come Iliade rovesciata.

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In questo rovesciamento, i due testi (formidables, appunto) dialogano tra loro e si rivelano in modo sempre nuovo e perennemente fertile al lettore moderno. Come rivelano e si rivelano i grandi autori tragici e chi, come Saffo, dalla tragedia personale attinge materia e mondo della propria poetica. Al pari di Aristotele, Jean-Pierre Vernant non ha dubbi: c’è molta più verità nella tragedia che nella storiografia. Erodoto e Tucidide ci raccontano un evento, accaduto in un certo luogo e in un certo tempo. Ma la tragedia mostra quello che doveva necessariamente accadere, perché la tragedia appartiene alla categoria del generale e del necessario. Dunque è vicinissima alla verità che si intuisce con la forza dell’intelletto.

In una intervista che risale a più di dieci anni fa, Vernant ci ha incantato raccontandoci come l’umanità espressa dalla tragedia greca abbia oggi più che mai rilievo. Parla “dell’uomo enigmatico, dell’uomo preso in un flusso che lo supera, l’uomo che calcola, decide, giudica, che esita tra le due vie, posto nei bivi dell’azione, che sceglie consapevolmente, che poi alla fine si accorge di aver scelto in realtà il contrario di quello che lui pensava essere il bene”.

Perché (e dunque Vernant ci spiega perché ha rinunciato al suo comunismo) in questo secolo “l’idea che l’uomo potesse con la propria volontà, in cooperazione con i suoi, con gli altri, in gruppo, costruire l’avvenire, è andata a sbattere contro un muro. L’idea per cui si poteva inventare una società veramente armoniosa e libera, grazie alla quale, come diceva Marx, avremmo potuto saltare dal regno della necessità al regno della libertà, è andata a frantumarsi. Ci si è infatti accorti che lo sforzo per programmare il futuro, lo sforzo per iscrivere in anticipo nella storia i fini ultimi dell’uomo, è qualcosa di incredibilmente incerto. In questo caso l’uomo -proprio come gli eroi tragici antichi- volendo costruire un mondo veramente ideale, può operare il contrario di quello che credeva di fare”.

Dunque la cultura classica ci costringe in qualche modo a questo livello alto di consapevolezza tragica, una sorta di ritorno allo spirito tragico.

L’uomo moderno si riconosce in Edipo. Vernant ci ammalia e ci convince così: “Edipo è un figlio che non avrebbe dovuto nascere, questa è la sua disgrazia. Quindi, sin dalla nascita, egli è oggetto di una specie di maledizione. Egli è votato alla disgrazia, non avrebbe dovuto nascere. Egli è colpevole senza avere fatto nulla di male, e questo è uno dei problemi posti dalla tragedia. Non c’è in ogni uomo, per il solo fatto di esistere, nella misura in cui egli dipende da tutti quelli che l’hanno preceduto, qualcosa che lo supera e lo sovrasta? Egli dipende da questo qualcosa, per cui le sue azioni non emanano direttamente da lui; in qualche modo le sue azioni si radicheranno aldilà, dietro di lui, o più in alto di lui. Questo è il senso della tragedia, il senso tragico dell’esistere: infatti nello stesso istante in cui noi facciamo delle cose, siamo dei personaggi, in quell’istante i nostri atti -e perfino noi stessi- ci sfuggono di mano”.

Il senso della tragedia è anche il senso dell’enigma. Edipo è, per antonomasia, il decifratore di enigmi. Lui sa di sapere e gli altri si rivolgono a lui come ad un sapiente. La sua maledizione è nel voler sapere sempre di più: in questa ricerca è la sua superiorità sugli altri.

E tuttavia, ci avverte Vernant, proprio questa sua superiorità farà di lui “una specie di mostro che imbroglia tutte le generazioni. Bisognerebbe invece seguire il corso del tempo, ognuno dovrebbe restare al suo posto, il figlio dovrebbe succedere al padre, soprattutto quando poi si tratta di re”.

Edipo costruisce la sua colpa cacciando il padre Laio quando questi è ancora sul trono, senza attendere, come sarebbe giusto, i ritmi naturali della successione. Ciò implica l’assassinio. E a colpa si aggiunge colpa: l’incesto, nel momento in cui incontra il seme di suo padre nel ventre di sua madre Giocasta.

Ancora il paradosso. Edipo è sul trono, lì condotto dalla sua scienza. Ma si è ricoperto di colpa perché non sapeva la cosa fondamentale: chi davvero egli fosse. Vernant chiude il suo teorema. Può accadere che una creatura sia abitata da un legittimo desiderio di sapere e che questo legittimo desiderio copra una ignoranza fondamentale.

Non sapere chi siamo, il senso tragico dell’esistenza.

Gian Domenico Mazzocato

Treviso, agosto 2005

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Chiuderei questa preziosa analisi con un richiamo al romanzo di Gian Domenico Mazzocato, “Il caso Pavan”, in cui appaiono evidenti i rimandi a Jean-Pierre Vernant e alle sue riflessioni attorno alla figura di Odisseo/Ulisse. Mazzocato parla addirittura di un debito da saldare nei confronti del grande ellenista francese

Odisseo è l’anti-Achille, colui che non cerca la gloria, ma brama il ritorno presso Penelope e Telemaco. Però una grande inquietudine abita in lui. Il senso del tempo che fugge e della fragilità umana lo domina. Nel romanzo, Il caso Pavan, l’autore reinventa la morte di Ulisse immaginandolo alla ricerca di Calipso e della sua giovinezza perduta.

Tomaso Pavan, il protagonista del romanzo, vive in un tempo dissipato, in cui l’istinto lo porta a compiere scelte egocentriche (meglio egoistiche): la sua è una condizione di inconsapevolezza. Colpevole. Cosma, l’amico di Tomaso, gli racconta come è morto Ulisse.

Autorizzato e sollecitato in qualche modo da Vernant, l’autore ha trasformato Ulisse in Edipo, in colui che sa, ma non si stanca mai di indagare. E tuttavia qualcosa gli sfugge sempre, finisce per essergli fatale.

Mazzocato parla così del suo Ulisse/Odisseo: “Vecchio, Ulisse si rimette per mare per trovare la bellezza tanto amata, ma, in fondo, per ritrovare un se stesso più virile, più disponibile al futuro, più giovane, più capace di progettualità. Il viaggio è terribile, e si conclude in tragedia.

Questa è la conclusione del racconto di Cosma, l’amico di Tomaso: “Non vide lo scoglio che ferì profondamente la chiglia della sua nave e gli fece fare naufragio. Non ebbe la forza di reagire all’onda che lo travolse. Il mare lo buttò morente sulla spiaggia.

Ma Odisseo vide, con felicità, da lontano arrivare la dea. Incedeva maestosa sulla spiaggia, le onde si ritiravano al suo passaggio, sembravano obbedirle. Lei avrebbe fatto il miracolo, lo avrebbe raccolto e gli avrebbe restituito forze e giovinezza. Ne era sicuro Odisseo. Avrebbe vissuto una nuova vita.

Calipso si avvicinò, si inginocchiò accanto a lui, bella e splendida come tanto tempo prima, non una ruga, non un filo bianco tra i capelli, nemmeno sfiorata dal correre degli anni. Gli accarezzò la fronte, gli sorrise con pietà, ma non lo riconobbe nemmeno. Lo lasciò lì, a morire sulla spiaggia perché non poteva, la dea, spendere un miracolo per uno sconosciuto”.

Così: la realtà durissima da accettare è che gli dei vivono in un loro tempo immutabile e sereno, gli uomini no. Spesso, come Tomaso Pavan/Ulisse, non se ne rendono conto. Ulisse, ricorda Mazzocato, avrebbe potuto vivere tranquillo gli ultimi anni, assieme a sua moglie e a suo figlio, nella grande reggia contadina visitata dal vento di mare. Allevare porci, impugnare le armi solo quando qualche vela ostile si fosse profilata all’orizzonte.

Invece no, decide di mettersi per mare. Perché pensa che il suo bene sia quello. Sbagliando. Ulisse paga a caro prezzo il suo errore. Ma è davvero tale? Gli uomini non sono anche -o soprattutto- i loro stessi errori? Perché trovo che il destino di Ulisse sia quello di ricongiungersi con la sua patria, ma anche quello di non rinunciare a se stesso.

Loredana Marano

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