NELLA TERRA DEI TRATTURI
MOLISE, GRANDE STORIA, GRANDE POPOLO
DA CAMPOBASSO AD ISERNIA
NEL MOLISE DEI SANNITI E DEI ROMANI
LA MERAVIGLIOSA SEPINO / ALTILIA
LE MORGE DI PIETRABBONDANTE E LE CAMPANE DI AGNONE
Splendida terra, il Molise, amici. E il camper è proprio il mezzo giusto per conoscerlo, apprezzarlo. E, sì!, anche amarlo.
Che fai se, assediato dagli impegni, vedi ridurre le tue ferie ad una sola settimana? Egle ed io ci siamo detti: esploriamo l’unica regione italiana che non conosciamo. Il Molise, appunto. Che scoperta!
E per di più splendida gente. Gentile, disponibile e soprattutto orgogliosa della sua terra. Fuori della cattedrale di Trivento, una signora ci ferma e ci chiede se abbiamo visitato anche la cripta. Ed è così un po’ ovunque.
Ad Altilia come a Isernia. A Campobasso, proprio in centro, mi affaccio sulla porta di una bottega al piano terra dove un falegname sta restaurando un mobile. Chiedo se posso visitare quell’affascinante luogo e appare una signora che mi spiega come l’attività sia nata dal nonno, costruttore di botti, e poi si sia trasformata nel tempo. Odore di legno e vernici, pulviscolo di segatura. Il tornio e la pialla. Da quanto tempo non respiravo un’aria così? Da noi certe cose si sono irrimediabilmente perdute. E la piccola tipografia, a due passi, in cui convivono la vecchia stampa a piombo e il moderno digitale? Il titolare è gentile e ci illustra con orgoglio tutto quello che l’azienda produce. È la Antica Stamperia Aurora, il gioiellino della famiglia Minichetti (www.anticastamperiaurora.it/com).
Nella zona archeologica di Sepino/Altilia la titolare di un ristorante mi invita a parcheggiare davanti al suo esercizio: “perché altrimenti, dice mentre mi indica un parcheggio dall’altra parte della stradina che conduce all’antica città sannita, deve pagare e invece qui è gratis. Non si faccia riguardo, è un piacere”.
Mi è capitato di chiedere indicazioni e quasi sempre ho trovato persone che ci hanno accompagnato o fatto da guida con la macchina. Da farsi riguardo a chiedere.
E poi l’orgoglio della propria etnia. Tanti mi dicono col sorriso sulle labbra: “noi sanniti siamo stati gli unici a tenere in scacco i romani”. E altrettanto spesso ci siamo sentiti ripetere: “qui puoi lasciare il camper aperto, non tocca nulla nessuno”. Vero, sacrosanto. Straordinaria umanità, da queste parti.
CAMPOBASSO
Approdo a Campobasso (uscita dall’autostrada a Termoli, poi 647 e 647 b). La splendida viabilità ci ha portato a percorrere l’invaso artificiale del Liscione (ma qui lo chiamano dal nome della località dello slargo del fiume, Guardialfiera) formato dalle acque del Biferno. Non sulle sponde del lago, ma proprio sopra, sul viadotto che lo attraversa in quasi tutta la lunghezza (8 chilometri sui possenti piloni alti 60 metri). Così la vallata offre scorci indimenticabili. Pare di essere con l’acqua che attraversa le montagne e scivola verso il mare. Ci si sente già avvolti dal Molise.
Come ogni volta che si incrociano i tratturi, incredibili autostrade verdi, larghe anche 100 metri che attraversano monti e vallate. Servivano i pastori e le greggi in transumanza. Impariamo la terminologia: a seconda dell’uso, della grandezza e dell’importanza si dicono tratturi, tratturelli, bracci e riposi.
La storia pastorale di questa zona ha almeno tre millenni di vita. Quella dei tratturi era una macroregione che abbracciava Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania. Il più lungo (244 km!) era detto Tratturo Re (o Tratturo Magno) e collegava L’Aquila con Foggia.
E il Molise custodisce la maggior parte di quanto resta dei tratturi, vere e proprie arterie di civiltà sulle quali si è fatta la storia di questa terra. Di qui sono passati Annibale, le legioni romane, i Crociati, gli eserciti di Federico II di Svevia.
Da internet abbiamo appreso che, a Campobasso, c’è una area sosta “in zona stadio”. Facciamo qualche fatica a trovare il posto anche perché manca la segnaletica opportuna. Poi ci verrà spiegato che la cosa è dovuta ad una diatriba aperta con l’azienda che cura la segnaletica stessa. In zona stadio non c’è nulla.
Uno dei murales che abbelliscono la club house dell’area di sosta e il castello Monforte
Poi, per fortuna e per caso, chiediamo informazioni al vicino distributore Agip che ci indirizza in Contrada Macchie. Non lontana. Anzi. L’area di sosta è ampia, con una club house (la visiteremo il giorno dopo) accogliente e ospitale, anche se tutto è spartano e, si capisce, fatto dalla buona volontà del locale camper club. L’area si intitola a Dominik Ferrante (scrittore amatissimo da queste parti, autore di delicatissime liriche e scomparso in modo tragico nel 2005 a soli 27 anni).
Sul cartello all’ingresso trovo i numeri del presidente del camper club, Giovanni Gallo. Lo chiamo e il giorno dopo, di buon mattino, conosciamo una persona squisita e gentilissima, che addirittura ci porta con la sua macchina in cima al castello di Monforte che domina la città. (3357696651, www.clubcampeggiomolise.it, info@clubcampeggiomolise.it ). Per trovare l’area impostare sul navigatore Via Facchinetti 47 (sulla tangenziale uscita Stadio / Dogana).
Il presidente ci colma di pubblicazioni e cartine (tutto utilissimo, splendido il libro sui tratturi, appassionante come un romanzo e ricchissimo di foto). L’area camper (siamo soli) è ampia, recintata e illuminata, ha colonnine per l’elettricità, scarico e carico. La club house è dotata di uno spazio ricreativo, cucine, uffici, servizi e perfino di una piccola foresteria per persone che arrivano in macchina. Passeremo lì due notti e Giovanni, diventato ormai un amico, non vorrà neanche il modesto obolo richiesto per usufruire dei servizi. Per fortuna Egle ha l’idea giusta: possiamo in qualche modo (e parzialmente) ricambiare con una bottiglia del nostro vino. Rovisto in cambusa e per fortuna trovo un ottimo brut. “La berremo insieme la prossima volta che vieni qua”, mi dice Giovanni. Autentico signore.
La serata del nostro arrivo facciamo subito un giro in città. Il centro è a una decina di minuti a piedi dall’area camper. Prima stradine molto animate e poi gli slarghi del centro. Visitiamo la cattedrale dedicata a san Leonardo (facciata in ristrutturazione) e poi la grande piazza rettangolare su uno dei cui lati sorge l’edificio del municipio. È intitolata a Vittorio Emanuele II.
Il giorno dopo partiamo …dall’alto, dal castello di Monforte che veglia sulla città da mille anni. La sua costruzione risale infatti al X secolo. Il castello, dopo anni bui, è stato completamente restaurato e risplende nella bellezza di una seconda giovinezza. Ospita il sobrio e suggestivo sacrario dei caduti in guerra. Salendo sugli spalti si gode di un panorama assoluto.
La romanica chiesa di san Giorgio e una delle scalinate che scendono attraverso la città vecchia
Prendiamo a scendere percorrendo le scalinate che conducono fino al cuore della città. Questa è la parte antica, naturalmente, e il percorso è scandito da chiese e palazzi. Visitiamo la romanica chiesa di san Giorgio, costruita attorno all’anno 1000 e la chiesa di san Bartolomeo, anch’essa romanica e risalente all’anno 1000. In via Chiarizia, sempre scendendo le ripide scalinate, troviamo palazzo Mazzarotta, sede del museo sannitico. Ingresso gratuito ma, ahimè, un’intera ala (da quanto capisco, quella che conserva i pezzi di maggior pregio) è in restauro.
Ma ci rifacciamo ampiamente con l’esperienza del Museo dei Misteri (dietro il municipio in una traversa di via Milano, via Trento). E dire che Egle ed io siamo stati in dubbio se visitarlo o meno. Che perdita sarebbe stata. Abbiamo conosciuto una realtà unica al mondo. I Misteri sono la processione che dal giorno del Corpus Domini del 1740, ogni anno si snoda in occasione di questa ricorrenza per le vie della città, lungo un percorso di 10 chilometri.
Nel museo sono custodite le “macchine” (ma qui le chiamano “ingegni”) pesanti mediamente mezza tonnellata che vengono portate a spalle per le vie della città.
L’Antica Stamperia Aurora e uno degli “ingegni” in attesa della prossima processione del Corpus Domini
La particolarità che rende unica la processione di Campobasso è che sulle macchine vengono issati personaggi viventi, 75 figuranti di cui ben 55 sono bambini. Il video che viene proiettato a richiesta restituisce una immagine indimenticabile. Tra vestizione e processione i figuranti devono restare “appesi” anche più di quattro ore. “Non è facile, ci dice il responsabile del museo, dobbiamo selezionare, fare prove, mettere a loro agio con pazienza e affetto soprattutto i bambini alla prima esperienza, usare tutte le cautele a cominciare da una accurata visita medica”.
Egle ed io ci ripromettiamo di tornare qui per un Corpus Domini e veder passare, sulle spalle dei portatori, le immagini viventi di sant’Isidoro, di san Crispino, di san Gennaro, di Abramo, di santa Maria Maddalena, di sant’Antonio Abate, dell’Immacolata Concezione, di san Leonardo, di san Rocco, dell’Assunta, di san Michele, di san Nicola, del Cuore di Gesù.
L’idea sarebbe di portarci nell’area di Saepinum / Altilia ma rimaniamo intrappolati da un incredibile e devastante acquazzone. Quando spiove ripieghiamo (ma che bel ripiegare) su una azienda che produce e vende latticini. Mozzarelle di bufala, primosale con rucola, scamorza affumicata: facciamo provvista per giorni. Proveremo odori, gusti e sapori dei nostri acquisti: eccezionali, senza riserve.
Pernottiamo ancora nell’area di Campobasso.
SEPINO / ALTILIA
La pianta di Sepino / Altilia e il teatro
A Saepinum / Altilia ci portiamo il mattino seguente. Anche questa una scoperta assoluta: un tesoro archeologico di altissimo livello che conoscono praticamente solo gli addetti ai lavori. Nome osco: saep è radice che significa recinto e allude a mercati di merci varie, soprattutto animali.
Il nucleo originario di Saepinum è Terravecchia, di costruzione sannita, in posizione strategica fra l’Apulia a sud ed il Sannio Pentro a nord e fra Tirreno e Adriatico. Il villaggio (950 metri sul livello del mare) sorse tra il Magnaluno e il Saraceno, due modesti corsi d’acqua. Dopo la guerra sociale la città divenne un centro amministrativo romano. Da Terravecchia a Sepino, in pianura. Gli scavi risalgono a metà del Novecento. Il visitatore si accorge subito che nell’area urbana sono sorte delle case coloniche costruite con materiale di recupero. Oggi alcune sono adibite a sede di un lapidario e di uffici. Non manca qualche cortile popolato da galline e conigli.
Saepinum è la classica città romana esemplata sul castrum. Gli scavi si sono concentrati sul decumano maggiore e sul cardo massimo sui quali si aprono le quattro porte (tre conservano ancora il loro arco originale): porta Benevento, porta Terravecchia, porta Bojano e porta Tammaro. Il foro, a pianta rettangolare, reca la pavimentazione a lastroni di pietra. Attorno la curia, il Capitolium e la basilica con le sue venti colonne circolari di ordine ionico e a fusto liscio che circondavano un peristilio. Alle spalle della basilica, il macellum (mercato). Vicino a porta Bojano ecco una delle tre terme. Camminando verso porta Benevento troviamo i resti di una pavimentazione marmorea e un pozzo coperto. Sempre da queste parte notiamo i muri perimetrali di un edificio (forse l’abitazione di un artigiano) con diverse vasche sotterranee e una ruota di un mulino (ovviamente ricostruita). Vicina è la fontana, detta del Grifo, dalla figura dell’altorilievo da cui zampillava l’acqua.
Porta Bojano e il colonnato della basilica adiacente al foro
Non si smetterebbe di fotografare, cercare scorci inediti, salire in cima ai bastioni. Questa città è praticamente una croce. Mettendosi nel punto in cui cardo e decumano si incontrano si vedono le quattro porte. Un gioiello. Molto ben conservato è il teatro con scena e platea in pietra lavorata. Poteva ospitare forse tremila spettatori. Attorno corrono dei camminamenti (con lapidi e capitelli inseriti nelle pareti) destinati all’afflusso e deflusso degli spettatori. Fanno da cornice alcune case coloniche. Poco fuori porta Bojano e porta Benevento sorgono due mausolei, il primo intitolato ai Numisi ed il secondo a Caio Ennio Marso.
Davvero una mattinata che vola via. Ed è come camminare nel passato, tra foro e strade lastricate da una porta all’altra. Aiuta la quiete, visto che i visitatori sono pochissimi.
ISERNIA
In tarda mattinata partiamo per Isernia. L’area camper, in zona piscine, inaugurata in gran pompa non molto tempo fa, appare già in disarmo. E la zona, ci viene detto, non è molto sicura di notte. Ci aiutano a cercare un posto perfino i carabinieri, ma non troviamo nulla di soddisfacente. Intanto facciamo provviste nel centro commerciale ai margini della città. Detto in margine: pochissimi centri commerciali da queste parti, praticamente una zona ancora vergine rispetto alla grande distribuzione. Non sono sicuro che sia un gran male.
Ci portiamo nel centro storico di Isernia. La cattedrale è ermeticamente chiusa, nonostante lo scorrere delle ore. Raccogliamo qualche informazione nei negozi circostanti. In farmacia ci assicurano che apre, apre di sicuro, ma tutti aggiungono che purtroppo il sacrestano è malato. Infatti non apre. In compenso arriva, gentilissima e molto brava a farci da guida, la signora che custodisce l’accesso agli scavi sottostanti alla cattedrale: era esattamente quello l’obiettivo della nostra visita, del resto. Impressionante: ci sono i resti di un antico battistero del V secolo e soprattutto, integro, il basamento del preesistente tempio romano dedicato a Zeus con, ben visibile, la cappella della triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva. E c’è perfino il tecnologicamente perfetto acquedotto che portava acqua alla zona sacra e a questa parte della città.
E a proposito di acqua non si può fare a meno di ammirare, poco discosta, la fontana Fraterna considerata una delle più belle fontane monumentali d’Italia. La fontana, che trae il suo nome dal rione in cui si trova, il largo della Fraterna, fu costruita nel 1835 utilizzando i resti di due fontane preesistenti andate distrutte. Ma il monumento incorpora materiale di provenienza eterogenea. Acqua freschissima e buonissima in un pomeriggio che più afoso non si potrebbe.
Una delle statue che fanno da sentinella all’arco di san Pietro e la Fontana Fraterna
Torniamo sui nostri passi. Vuoi vedere che nel frattempo la cattedrale ha spalancato i suoi splendidi portali bronzei? Macché. È metà pomeriggio ma la chiesa resta inaccessibile. Così ammiriamo l’arco di san Pietro che altro non è che la base della torre campanaria della cattedrale, singolarmente posta a cavallo del principale asse viario della città. Ai quattro angoli interni sono poste, a mo’ di sentinella, quattro splendide statue togate romane. Statue decisamente acefale, cui con disinvoltura sono state poste sul collo teste di provenienza, credo, eterogenea. L’angolo resta comunque molto suggestivo.
PIETRABBONDANTE
Dai 450 metri di Isernia ci arrampichiamo (ahimè, scegliamo la strada più brutta, ma del senno di poi…) ai 1050 di Pietrabbondante, il cui etimo non ha certo bisogno di spiegazioni. Passato di grande splendore. Durante l’occupazione longobarda fu addirittura capitale di contea. Ci ha portato qui la notizia dell’esistenza di un complesso archeologico di tutto rispetto.
Il teatro sannita (sullo sfondo il tempio maggiore) e la morgia sotto la quale si trova la cattedrale dedicata all’Assunta
Ma è l’insieme a rivelarsi una scoperta grandiosa. Il paese ci si svela dopo una curva incorniciato dai caratteristici contrafforti rocciosi che qui chiamano morge (e la morgia è nello stemma comunale). Sotto una di esse c’è la chiesa di santa Maria Assunta che visitiamo grazie alla cortesia del giovanissimo parroco, don Leonardo. Sorge, maestosa, in cima ad una erta scalinata. Ha un portale barocco ed è il frutto della trasformazione di una antica cappella gentilizia.
Ma, intanto, fermata ai margini del paese per visitare il teatro-tempio che rappresenta la più alta e compiuta testimonianza archeologica della civiltà sannita presente da queste parti già 2500 anni fa. Il biglietto di appena 2 euro è perfino imbarazzante rispetto alla bellezza, all’imponenza e al valore storico del posto che stiamo per conoscere.
Il sito è molto ben curato e, apprenderemo dopo, sede stabile di stage per studenti e docenti della facoltà romana di archeologia. Il visitatore compie una bella passeggiata che parte dal cosiddetto Tempio Minore, l’edificio più antico del complesso, e raggiunge poi il Tempio Maggiore che ingloba il teatro splendidamente conservato e dall’acustica perfetta, tanto che ogni anno qui si svolge una apprezzata stagione teatrale. La parte di gradinata dotata di spalliere stupisce per la modernità di concezione: le spalliere sono anatomiche e rendono piacevolissimo l’intrattenervisi.
In asse col teatro sorge il tempio Maggiore, il più grande del Sannio. Non sappiamo a quale o quali divinità fossero dedicati il tempio e le due are poste davanti alla gradinata, ma la parte già ricostruita è di una maestosità imponente. E altri scavi e lavori sono in programma per restituire a questo santuario della cultura sannita tutto il suo splendore.
Ma le sorprese non sono finite. Cerchiamo un posto per la notte e, come sempre, troviamo chi ci fa strada in macchina. Entriamo nel paese, transitiamo per piazza Vittorio Emanuele (dove la statua bronzea alta due metri di un guerriero sannita ci ricorda l’orgoglio antiromano di queste genti), ci lasciamo sulla destra il monumento e approdiamo su una incredibile terrazza naturale dalla quale si domina tutta la valle del Trigno. Un panorama indescrivibile. Ecco il Verrino, un torrente che dà luogo a suggestive cascate, che vi confluisce da sinistra. Sul pendio antistante al nostro e nella vallata vediamo i paesi allungarsi e distendersi come animali pacifici o come aquiloni pronti a prendere il volo. Le immagini più belle e forti. Giriamo lo sguardo sull’orizzonte immenso e inondato dal sole del tramonto: Agnone, Capracotta che domina dai suoi 1400 metri, Belmonte, Castelverrino, Poggio Sannita (che un tempo si chiamava Caccavone, forse per via dei coccavi -le pignatte, dal latino caccabus-, forse dall’antico toponimo Cucumone. Certo è che, come recita la delibera del cambiamento di nome del 1921, Caccavone faceva proprio ridere), Castiglione Messer Marino (in provincia di Chieti, qui corre il confine con l’Abruzzo), Schiavi d’Abruzzo, Trivento, Salcito, Bagnoli.
Si gioca a tressette davanti alle osterie di Pitrabbondante sotto lo sguardo severo dell’antico guerriero sannita
Sulla terrazza di roccia troviamo un altro camper. Sono i genitori di una archeologa in stage che ha telefonato ai genitori … di avere poche coperte e molto freddo la notte. Noi, invece, della notte di Pietrabbondante, sperimentiamo il vento che arriva a raffiche fortissime e scuote il camper. Difficile prendere sonno.
È il maestrale di cui parlano Carducci e Pascoli, impetuoso e rapace. Ma qui lo chiamano il capracottese perché spira dalla direzione di quel comune che conta nemmeno 1000 abitanti ed è il secondo più alto del Molise dopo Rocca di Cambio.
Hanno un rapporto particolare da queste parti col vento. Che sia maestrale, che sia tramontana. La sera, un vecchio seduto sulla porta di casa, mi dice con fare misterioso “aspettiamolo, aspettiamolo, il vento”. E infatti arriva, a fare da colonna sonora ai nostri tentativi di prendere sonno. E d’inverno? “Noi speriamo che sia bufera, mi dicono fuori di un’osteria chiamando le prese del tressette, perché così muove la neve”. Muove la neve? Che vuol dire? “Che così la neve fa uno, due metri. Se no arriva alle finestre del secondo piano”. Accidenti.
Se di giorno il panorama allarga cuore e polmoni, di notte fa tornare in mente miti di luce, presepi cristiani, misteri avvolgenti. Le finestre illuminate disegnano una trama che l’occhio percorre da una parte all’altra della vallata.
Al mattino vediamo, nella parte di vallone che si trova alle nostre spalle, il moderno edificio del museo sannita in fase di avanzata costruzione. “Così i musei romani e napoletani smettono di portarci via le nostre cose più belle” mi dice un addetto del comune che sta sistemando una stradina.
AGNONE
Agnone è la cittadina che da Pietrabbondante abbiamo visto allungarsi come una testuggine nella vallata del Trigno. È il paese delle campane, per le quali è noto in tutto il mondo.
Ma non solo. La sua storia millenaria ne ha fatto un museo a cielo aperto, riconosciuto anche dalla bandiera arancione del TCI. Lungo e stretto. Ci arrampichiamo fino alla punta estrema protesa nella vallata: la monumentale chiesa di san Francesco dal severo portale gotico (attiguo è il convento dei padri conventuali); la chiesa barocca di sant’Emidio; la chiesa dedicata a san Marco Evangelista che all’interno esibisce la statua di san Cristanziano, patrono della città, assieme alle reliquie dell’altra patrona, santa Teodora. Proprio sulla punta del paese l’antico arco Semiurno (ora porta Napoli), un tempo l’accesso principale al nucleo urbano.
Campane davanti alla Pontificia Fonderia Marinelli
Naturalmente siamo qui soprattutto per visitare la fabbrica e il museo delle campane. È la Pontificia Fonderia Marinelli che ha realizzato la grande campana per il Giubileo del 2000. La visita guidata è fissata alle 12. Noi abbiamo parcheggiato nell’ampio spazio che serve sia l’ospedale che lo stadio. La zona è proprio bella e tranquilla, facciamo un pensierino per la notte. Tuttavia non c’è un metro quadro che sia in piano e nemmeno una fontanella per l’acqua fresca.
A mezzogiorno comincia la visita. Si inizia da un video che illustra le varie fasi della costruzione di una campana. Le stesse fasi poi ci saranno illustrate dal vivo nella fonderia che occupa una decina di persone, tutte consapevoli del privilegio di collaborare a cose uniche al mondo. Fondere una campana è operazione complessa. Richiede abilità ed esperienza, fantasia e inventiva, tempo e pazienza. E anche un po’ di fortuna. “Il flop è sempre dietro l’angolo e praticamente inevitabile, sorride la nostra guida, ci auguriamo solo che sia rarissimo e che, quando viene, riguardi piccole campane e non pezzi importanti. Io, di flop, nella mia carriera ne ho avuti almeno due e mi bastano”.
Le diverse operazioni coinvolgono settori diversi della sfera emotiva. La speranza che tutto vada bene si sostanzia in preghiere ed invocazioni. Nei pochi secondi in cui il bronzo fuso esce dalla fornace si condensano (e si mettono il gioco) mesi di lavoro cui hanno contribuito tutti, dall’operaio che spala la terra nella fossa di fusione all’artista che ha disegnato le decorazioni. Nel museo vediamo campane antiche, fuse quando la fusione di una campana non era ancora una scienza esatta utile ad ottenere esattamente quella nota e a costruire uno strumento perfettamente in proporzione. Finisce con un concerto: la nostra guida martella su una serie di campane una antologia di motivi che spaziano dal natalizio Jiingle Bells al Fratelli d’Italia. Con i 5 euro del biglietto godiamo anche dell’esperienza unica di un concerto campanario.
Nel tardi pomeriggio muoviamo il camper. Verso la nostra ultima tappa.
TRIVENTO
Pochi chilometri, l’attraversamento di una vallata ed ecco la luminosa Trivento (600 metri sul livello del mare), appoggiata a mo’ di sella su due contrapposti pendii. Per il parcheggio e la notte ci sarebbe la grande piazza vicino alla stazione dei carabinieri, in centro. Ma il giorno dopo si tiene, proprio in quegli spazi, quella che qui si chiama “fiera” e che scopriremo essere un grande mercato di bancarelle. Allora ripieghiamo sul tranquillo parcheggio vicino agli impianti sportivi. Il centro resta pur sempre a neanche 10 minuti a piedi.
La scalinata che porta nel cuore di Trivento
La salita alla parte antica di Trivento avviene su una lunga scalinata che si snoda fino alla cima. Ogni volta che Egle ed io ci fermiamo a prender fiato attacchiamo discorso con qualcuno, magari seduto fuori della porta o anche in una stanza a piano terra. Non è difficile, qui la gente vuole parlare ed esserti utile. Si respira aria antica. Trivento è stata prima sannita, poi romana, poi longobarda e normanna. Nel IV secolo fu una delle prime diocesi del Molise. In cima alla scalinata ci attende il massiccio castello.
Ma la nostra meta è la cattedrale neoclassica, consacrata subito dopo il 1000 e dedicata ai santi Nazario e Vittore. Sotto di essa, nel 1928, fu scoperta una cripta grazie alla ricerca promossa dall’allora vescovo Adinolfi. Il parroco è molto disponibile, ci apre il cancelletto che porta alla ripida scaletta di discesa, ci accende le luci. L’ambiente non è immenso, ma di grande suggestione. Il fitto colonnato sostiene le volte in mattoni. Le colonne sono di epoche e fogge diverse perché la cripta rappresenta l’ultima evoluzione di un antico luogo sacro (un oratorio probabilmente) che custodiva le reliquie di Casto, primo vescovo della diocesi e martire. Ho contato quasi una ventina di capitelli, tutti differenti l’uno dall’altro. Splendida la lunetta in bassorilievo che, sull’altare, raffigura con intenso simbolismo la Trinità, tra due angeli e due delfini. Sulle pareti tracce cospicue di affreschi risalenti al XIV secolo. Intensa la crocifissione, straordinario l’ecclesiastico ritratto a fianco dell’altare.
L’antica cripta sotto la cattedrale e la lunetta con la raffigurazione della Trinità
Sopra la cattedrale, il castello e il Belvedere dal quale si spazia sulla valle del Trigno fin quasi alle foci.
Al mattino seguente siamo alla “fiera”: grande provvista di verdura e frutta (proviamo in particolare un cetriolo locale, il pelosello, molto croccante e gustoso: deve il suo nome alla buccia che non è liscia ma molto pelosa) e ci mettiamo in viaggio per il ritorno. Alla fine, il nostro risulterà un vagabondaggio di quasi 2mila chilometri. Esperienza che non dimenticheremo e faremo ripetere ai nostri amici.
Bella terra, bella gente: è il Molise
(le foto sono di Egle e mie)