Dove urla il vento
(di Franco Vivian)
Gigi è l’ultimo abitante di Colcervér. Lo vediamo, nella scrittura di Franco Vivian, appeso alle campane della chiesetta, nel paese abbandonato. Folle di solitudine, ubriaco di nostalgia.
Arnoldo è un sopravvissuto alle cacce ai camosci. Altri tempi. Si improvvisa cacciatore d’orsi per salvare il suo villaggio e l’esito dell’impresa ha finale tragicomico. E Bruno, l’eroe della memoria: vince un gara di slalom che assomiglia tanto alla vita stessa. Spesa tra i paletti.
Mahendra è un monaco saggio che vive tra le cime himalayane del Nepal e distribuisce la sua antica e semplice saggezza al visitatore.
Franco Vivian ci porta, con il suo avvolgente narrare, su montagne vicine (le Dolomiti) e tra montagne lontane (Patagonia e Nepal).
Racconta la vita, grazie alla sua capacità di dare voce ai piccoli protagonisti delle microstorie che proprio tra le montagne trovano la loro eco.
“Piccole storie”, non imprese straordinarie. Vi circola un’aria intima di umanità, si respira il soffio della speranza.
Se la prima neve che senti scendere in una notte di novembre
è un invito a raccogliersi nei ricordi o nella lettura,
la prima pioggia di aprile che ascolti battere sul tetto
ti dà ristoro e distensione,
ritrovi un amabile sonno
e poi, al mattino, il desiderio di andare,
di uscire fuori a camminare in libertà
e senza una meta perché la primavera non ha confini.
(Mario Rigoni Stern, Stagioni)
Ha un bel passo -calmo, misurato, cadenzato- la scrittura montanara di Franco Vivian. Si innerva dei valori di umanità autentica che la montagna ispira, si nutre di paesaggi, sembra risvegliarsi ogni mattino col brivido della curiosità per una nuova scoperta (latente o immanente), trae linfa dalla filosofia che fa di ogni istante un’occasione per guardare.
E, a dire il vero, il guardare di Vivian si potrebbe declinare in tutte le possibili accezioni: vedere, osservare, scrutare, ammirare. Perfino divorare con gli occhi.
Tuttavia, prima che ogni altra cosa, la scrittura di Vivian cerca l’uomo, l’incontro, la conoscenza. Quante volte, facendoci prendere per mano da lui, ci accostiamo ad un uscio, bussiamo ad una porta, proviamo a sillabare una parola per presentarci ad un estraneo e costruire un rapporto. E perché no, del resto?
Funziona con Betti, la vicentina dalle mani intirizzite, conosciuta in Patagonia alle falde del Fitz Roy. E funziona perfino con Mahendra, il monaco nepalese che apre l’anima all’attesa/ricerca della montagna proibita grazie al miserabile lessico che due culture lontanissime tra loro riescono a regalarsi a vicenda.
Non esiste territorio morale tra due persone che non possa in qualche modo essere percorso da una lingua franca, da una comunanza di sentimenti. Ed è questo, certamente, il nervo che tende l’anima dello scrittore. La fa pulsare, diastole e sistole dell’universo intero.
E che dire di Gigi, l’ultimo abitante di Colcervér, una sorta di naufrago del tempo, sopravvissuto -lui e la moglie- alla diaspora di tutti i compaesani? Gigi chiude la sua vita appeso alle campane del paese morto, in una disperata ribellione alla solitudine. Dopo l’atto estremo che disorienta e incollerisce i soccorritori, lo attende la zona grigia della follia.
Oppure l’uomo misterioso che, nella nebbia, parla della montagna che c’era una volta e ora non esiste più. Travolta da un franare continuo che allude senza mediazioni all’inesorabilità con cui scorre il tempo.
Vivian procede con misura, con buon senso e di colpo il lettore ha la sensazione di trovarsi, senza tempo e senza spazio, a ridosso di una nostrana Shangri-La. Ad un palmo da essa. Il territorio perduto, l’orizzonte che certamente esiste e dove le cose della vita si leggono in altro modo, godono di luce chiara, sono più facilmente decifrabili.
Ancora. Bruno, l’eroe inarrivabile che vince (siamo in una Caviola d’altri tempi, poche case e pochi uomini) una strapaesana gara di slalom. Così bravo che, dopo aver saltato una porta, fa tempo a risalire e a stracciare comunque i tempi di tutti gli altri concorrenti.
Il paradigma di questa ricerca viene fornito dall’autore nel primo racconto della silloge, L’orso di Fornesighe.
Racconto perfetto, con il giusto dosaggio di tutti gli elementi narratologici utili al caso.
Il paese (che nella scrittura diventa l’unico luogo popolato della terra, quasi un pianeta alieno), la minaccia che incombe e impaurisce, la cerca del possibile risolutore, il farsi avanti di Arnoldo, un po’ guascone, un po’ eroe sul serio. Col suo vecchio archibugio ad avancarica -dunque bisogna sparare solo a colpo sicuro, sicurissimo anzi- in vita sua non ha cacciato che camosci.
Ma che sarà mai un orso se non un camoscio un po’ più grande? E magari nemmeno così agile e pertanto bersaglio più agevole. Però il vecchio archibugio, immagine di Arnoldo stesso, da tempo lontano dall’azione concreta, fa cilecca. E lo sparatore mancato non si riprenderà più dall’orrore della morte vicina.
Vivian ha mano ferma nel delimitare territori, nel raccontare vicende, nel tratteggiare volti, nel descrivere emozioni. Che sono poi le pulsioni prime dell’uomo. Arnoldo si offre per generosità e di generosità delusa (andata a male, verrebbe bonariamente da annotare) muore.
Racconto perfetto, si diceva, perché è perfetta la metafora che descrive. Nel villaggio montano è raffigurata l’umanità intera attraversata da paure, minacciata in un attimo nella sua sicurezza faticosamente costruita negli anni. Così si comincia a capire il senso del titolo di questa silloge che si lega al frusciare, sbattere, correre del vento.
Si sa, il vento è un “luogo” letterario preciso. Vasto ed evocatore.
Vento è il titolo di una novella di Luigi Pirandello. “E vento, e vento, e vento! Da quindici giorni, affabula lo scrittore siciliano, non cessava un minuto, né dì né notte. Fischiava, mugolava, ruggiva in tutti i toni, ed era in certe scosse lunghe e tremende di tanta veemenza, che pareva volesse schiantar le case e portarsele via”. E Tommaso Landolfi gli fa in qualche modo eco nel suo primo romanzo (La pietra lunare): “Il vento il vento! Esso scoppia all’improvviso come fruscio di torrente, scroscia come pioggia, e cessa d’un tratto. È un’ala immensa che è passata…”. Si potrebbe continuare all’infinito, dai venti danteschi della Divina Commedia in qua.
Ma quel che serve annotare è che il vento si autodescrive in mille azioni diverse, si connota in infiniti rumori. Si fa, se si può dire in modo piuttosto rozzo, carico e trasportatore insieme. Diventa, in certi contesti, la metafora delle metafore, la metafora che comprende tutte le altre.
A dire il vero, il vento soffia di più e più potente nella seconda parte di questa silloge, quando l’autore trasferisce se stesso (e noi lettori) dalle lande alpine ai luoghi miracolosi e sconosciuti del Nepal e della Patagonia.
Altre montagne, diverse pianure, identica anima.
Però qui il vento si insinua ovunque. Come dire: il viento patagonico soffia ad ogni latitudine, attraversa tutte le longitudini. Non conosce steccati, paletti, delimitazioni. Avvolge il pianeta che è poi, a ben vedere, l’uomo stesso.
Il vento spira fino all’ultima riga. E trasporta il messaggio primario di questa scrittura. Non esiste nebbia che non si diradi, notte che non abbia fine, viaggio che non si possa riprendere. In questo modo, con Vivian, ci svegliamo al mattino così in un rifugio alpino come in un villaggio nepalese e scopriamo che il vento ha spazzato via brume e nebbie, che il mondo ha trovato una sua rinnovata verginità, che è consentito rimettersi in cammino.
Con le dovute cautele, si intende. Con la consapevolezza che viene dal pericolo appena trascorso. Perché, come ci ammonisce la fiducia immortale e serena del vecchio sergente nella neve, la primavera non ha confini.
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
(Treviso, gennaio 2010)