LUIGI LONGHIN
IL 29 LUGLIO QUANDO CHE MATURA IL GRANO
STORIA DI UN PARÀ, DA FASCISTA A RESISTENTE
EDIZIONI ISTRESCO
(Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana), euro 12
PREFAZIONE DI GIAN DOMENICO MAZZOCATO
DAL NAZIONALISMO AL PATRIOTTISMO
Il ventinove luglio / quando che matura il grano / è nata una bambina / con una rosa in mano. Affiorano alla bocca di Luigi Longhin i versi sonori di questa anonima canta alpina. Gli riportano altri 29 luglio della sua vita. Gli riportano soprattutto, nell’orrore, nelle incertezze, nella fragilità della guerra atroce, immagini gentili, di idillio. Rasserenanti. Prosegue la canta: Vicino alla marina, / dov’è più bello stare, / si vede i bastimenti / a navigar sul mare.
È il respiro possente di questo libro esile nel numero di pagine, avvolgente nel suo impianto e nel percorso, fisico e morale insieme, che propone. L’autore non lo voleva pubblicare ma negli ultimi anni, fattosi più convinto del valore del ricordo e della sua personale testimonianza, aveva mutato idea. Perplesso davanti alla smemoria di tanti, ha premesso la breve nota che il lettore troverà all’inizio della narrazione.
Chiave di lettura importante che, in questa prefazione, si tenterà di integrare tracciando la linea emotiva di chi ha ripreso in mano il ricordo di Luigi Longhin. Il diagramma di una scoperta significativa, lo spessore di un racconto che trascina in una sorta di complicità col parà di Mussolini approdato alla lotta per la libertà.
La guerra, ogni guerra grande o piccola, è un tristo arnese impastato d’odio. Nell’odio mette radici e di odio si nutre. Ed è una grande cosa raccontare, come fa Luigi Longhin, una vicenda di odio senza ricorrere all’odio. Con disincanto, con lontananza, con umanità, cercando di capire. Per quanto ingombrante viene in mente un paragone, Le mie prigioni, il sempre citato e mai letto capolavoro di Silvio Pellico. Longhin muove dal nazionalismo e approda al patriottismo. Afferma di volerlo raccontare alle nuove generazioni. Quanto di simile insegnamento ci sia bisogno, lo tocchiamo con mano ogni giorno.
Pagine toccanti e ruvide, mai banali. Il giovanissimo e tremante soldato tedesco cui Longhin fa una carezza sulla carrabile Catanzaro-Cosenza. Il soldato tedesco che a Soveria Mannelli piange e mostra la foto di moglie e figli. Si toglie la dentiera per far vedere in che condizioni quel pazzo sanguinario di Hitler lo ha mandato al fronte. Il soldato polacco che, alle porte di Lucca, dice che combatte per Hitler perché è ricattato, perché la sua famiglia è in un campo di concentramento. E qualche istante dopo inscena una manovra diversiva grazie alla quale Luigi e i suoi amici possono sfuggire ad un agguato.
E i film western dell’infanzia tornano alla memoria. Quanta voglia di lieto fine, quanto desiderio che tutto il bene stia da una parte e tutto il male dall’altra. Che siano facilmente riconoscibili. Ma non è duello tra cow boy quello che si combatte sull’Appennino.
Lì, tra forre e dirupi selvaggi, ci nascondiamo nel fitto bosco, lontano dalla mulattiera, vegliando ciascuno sul sonno degli altri.
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Si deve la conservazione e la proposta del manoscritto alla figlia Hilde, rintracciata da Lino Cusinato, studioso e biografo di Andrea Giacinto Longhin (Fiumicello di Campodarsego, Padova, 22 novembre 1863 – Treviso, 26 giugno 1936), vescovo di Treviso in anni terribili di guerra e pace difficile, dal 1904 alla morte, e beato. Lino Cusinato, alla ricerca delle diramazioni dei Longhin, si è imbattuto in Hilde, insegnante e persona sensibile agli stessi valori che hanno informato la vita del padre. Un ritrovamento importante che va ad alimentare, in modo originale e autonomo, la grande memorialistica partigiana e bellica. Un po’ diario, un po’ romanzo di formazione.
La famiglia Longhin. Da sinistra. Maria (seconda moglie di Antonio, il papà di Luigi), Luigi, Antonio (Cappella Maggiore, 15 agosto 1880 – Verona, 16 marzo 1964), Caterina Chiaradia (moglie di Luigi), Hilde Longhin (figlia di Luigi).
Un testo importante per le informazioni che ci dà. Quando, dopo la scuola di paracadutismo, viene mandato in Sicilia, gli Alleati stanno già sbarcando. Per lui è subito ritirata. Il racconto di quello che avviene nel porto di Messina, i forsennati e disperati tentativi di imbarco, le bombe e la strage, l’ufficiale che finisce a pistolettate il commilitone in orribile agonia mentre si sta facendo il segno della croce, tutto fa pagina in un’aura di autenticità assoluta e drammatica. O, ad esempio, le figure femminili come Norma, spigoloso capo partigiano.
Scuola elementare di Cappella Maggiore, primi anni Venti. Luigi Longhin è in prima fila (quinto da sinistra, vestito alla marinara).
Come dice Longhin, il diario è soprattutto il contributo alla conoscenza di chi è approdato nelle file dei resistenti dal nazifascismo, con l’uniforme dell’esercito addosso. Verissimo, se ne parla poco.
Il libretto personale del Regio Esercito Italiano di Luigi Longhin (4° reggimento Genio, Compagnia Radio).
Si capisce bene che durante la sua guerra, Longhin aveva un taccuino e annotava con assiduità. Ricordi precisi, nitidi. Scanditi, quando serve, ora per ora e perfino minuto per minuto. Con diligenza. La quotidianità, il giorno dopo giorno, la vita da difendere ma anche da inventare ad ogni istante, la lenta e inarrestabile presa di coscienza dei valori di libertà e tolleranza che sono alla base della Resistenza e del riscatto nazionale dall’orrore nazifascista.
Ne esce un racconto senza enfasi, antiretorico, distante dall’epopea. Un non professionista della scrittura, dallo stile disadorno e talora perfino ingenuo, che proprio per questo offre una testimonianza senza mediazioni, diretta. Che convince ed emoziona il lettore.
Il falso documento di identità rilasciato a “Lucchese” Luigi, dal comune di Minucciano (Lucca), per interessamento del nucleo partigiano di Gorfigliano (che di Minucciano è frazione). Si noti che data di nascita e nomi dei genitori sono esatti, per non incorrere in errori se fosse stato interrogato.
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Luigi Longhin nasce a Cappella Maggiore, alle pendici del Cansiglio, il 30 agosto 1915. Stesso cognome del vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin e del resto Giacinto, come nome di battesimo, è ricorrente tra i Longhin. Il padre Antonio è benestante, ha una grande casa al centro del paese. Ma si lancia in investimenti fallimentari che sprofondano la famiglia nei debiti. Luigi, per tappare il buco, lascia la scuola enologica di Conegliano (già allora rinomata) e nel ’37 si arruola tra i volontari che combattono in Spagna a fianco del dittatore Franco. Fardello pesante. Dice la figlia Hilde: “Un dramma che lo segnò per tutta la vita, una colpa che non superò mai. Era di idee progressiste ed egualitarie e andare a combattere con i franchisti…”. Manda a casa soldi, ma suo padre, invece che pagare i debiti, brucia anche quelli. Lui torna e trova impiego come maggiordomo presso una nobile famiglia di Napoli. Possiede le physique du rôle. Ha modo di conoscere anche Enrico De Nicola, futuro presidente della repubblica. Guadagna abbastanza e questa volta paga personalmente i creditori. Una nuova guerra è alle porte. Si trova ad un bivio: partire con la spedizione italiana in Russia o arruolarsi come paracadutista. Sceglie il paracadute. Dalla sua esperienza militare esce questo diario di guerra. Il titolo originale del manoscritto è Umane vicende di un parà in guerra. Nel dopoguerra si trasferisce a Bolzano, impiegato alle poste e impegnato nell’associazionismo e nel sociale. Molto sportivo, nel 1998 è travolto da un’auto durante un’escursione in bicicletta. Muore il 12 aprile 2003 per i postumi di quell’incidente.
Il foglio di “licenza illimitata” rilasciato a Luigi Longhin il 21 aprile 1945 a Faenza. La destinazione è Casoli in provincia di Chieti. Ma è destinazione del tutto fittizia perché Luigi Longhin prenderà la strada del nord, in direzione di casa. Non potrebbe perché il Veneto è ancora zona nemica.
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Luigi Longhin prova sulla sua pelle e nel suo vissuto il significato dell’espressione “lotta fratricida”.
Torna dalla brutale esperienza della guerra e trova la famiglia lacerata. Affida alla scrittura i suoi ricordi. Medita “sull’immane tragedia in cui era precipitato il mio paese, una lotta fratricida nel mio caso da prendere alla lettera”.
Con risvolti profondamente umani. A fine aprile 1945 Luigi è a Faenza col suo reggimento Nembo. Spera in una licenza. Ma nel Veneto, ancora zona di guerra, non si può andare. E lui chiede la licenza per Chieti. Naturalmente non va a Chieti.
Torna a nord, a casa. 19 maggio 1945: a Cappella Maggiore scopre che una sorella, collusa coi fascisti, è in mano ai partigiani. L’altra si è nascosta a Venezia perché era ufficiale nel servizio sanitario della repubblica di Salò. La sorella è fascistissima: Luigi ne deve anche subire l’ironia. Suo fratello più piccolo, di leva nel genio telefonisti, è stato fatto prigioniero dei Tedeschi in Grecia e deportato in Germania. E suo padre giudica partigiani, fascisti e nazisti ugualmente fanatici, rozzi e volgari. Come stiamo dicendo: guerra orribile e fratricida. Con gli anni decide di dare profilo compiuto alle note frettolosamente stilate nelle marce notturne, nei riposi con un occhio solo nei rifugi più improbabili, tra il grandinare dei proiettili, nelle ritirate precipitose, nelle missioni che gli vengono affidate.
Ildegonda Frassinelli, madre di Luigi. A sinistra la figlia Lidia e a destra l’altra figlia Mary. Luigi è davanti con la sorellina Anna morta a 12 anni.
Lui, reduce dalla guerra di Spagna affrontata controvoglia per pagare i debiti di casa, si era arruolato tra i parà. Il diario di guerra nasce dalla riflessione sul ventennio fascista sfociato nella guerra. E la storia personale del parà Longhin comincia nell’aprile del ’42 all’Istituto Aeronautico “Cesare Balbo” di Ferrara. 45 giorni di corso duro. Serve fare presto, tempi abbreviati rispetto alla normale preparazione. Il primo lancio da un Savoia-Marchetti 79, il brevetto, la costituzione della divisione Folgore. Poi diverse dislocazioni nella penisola. Frequenta un corso per radiotelegrafisti alla Allocchio Bacchini di Milano.
Il 28 luglio è sul ferry per la Sicilia. Proprio in quel decisivo luglio 1943. Il 10 gli Alleati sono sbarcati conquistando Pachino, Noto, Avola, Cassibile. È l’Operazione Husky che pochi giorni dopo vede l’ingresso alleato in Palermo. Il 25 il Gran Consiglio destituirà Mussolini.
Per i parà appena giunti nell’isola comincia l’odissea del ritorno in un paesaggio stravolto. “I bengala lanciati in gran numero trasformavano la notte in giorno”. Sullo stretto ci si azzuffa per prendere un traghetto e riguadagnare il continente. Piovono bombe ed è strage: “Vidi numerosi corpi orrendamente mutilati che si contorcevano negli ultimi spasimi dell’agonia”.
Il 3 settembre gli Americani sbarcano in Calabria. Le umanità si mescolano. È qui che Luigi incontra il soldato in lacrime che si toglie di bocca la dentiera. Seguono mesi convulsi, inverno di guerra e fame. Ma c’è già un “corpo italiano di liberazione” che il 31 marzo 1944 combatte vicino a Cassino, tra Molise e Lazio, la battaglia del monte Morrone (o delle Mainarde). Luigi è a Chieti, poi all’Aquila. Un’avventura dietro l’altra. Approda alla Battle School britannica a San Vito dei Normanni. Il 29 luglio si imbarca all’aeroporto di Brindisi per l’operazione che gli inglesi chiamano Batepiste, un massiccio aviolancio nell’Appennino Emiliano alle spalle dello schieramento tedesco. Luigi e i suoi compagni: sbandati, male armati, costretti a rinunciare alla loro divisa e a travestirsi da pastori. Entrano nelle bande partigiane del CentroSud, ricevono la missione di attraversare la linea gotica per recare messaggi. Voglia di libertà e tanta paura. Rischi enormi, c’è chi è preso e passato per le armi.
Luigi Longhin con alcuni commilitoni in diverse fasi della sua carriera di militare /resistente.
Il diario di Longhin è impetuoso, pieno. Ma rigoroso e asciutto. Quadro indimenticabile con situazioni ed eventi poco noti. Anche la realtà partigiana viene raccontata in modi non consueti nella memorialistica sulla Resistenza. Spie vere e spie presunte, scaramucce diurne, agguati notturni, contrasti fra le diverse formazioni partigiane, fame e sete, lunghi trasferimenti. Storie che si incrociano con altre storie. Documento per certi aspetti impressionante.
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E documento umanissimo. Luigi Longhin ha valori chiari, ben delineati. Dalla sapienzialità antica di mamma Ildegonda più che dall’intransigenza talora miope di papà Antonio. Nulla gli è più alieno della violenza, della prepotenza e della sopraffazione. Risale la penisola. E si rende conto che i valori in cui crede sono “dall’altra parte”. Li precisa, conferisce loro nitidezza di contorni. Si guarda attorno, legge dentro di sé. Si fa consapevole. E il soldato del duce diventa un militante della Resistenza.
Al suo ritorno trova una famiglia in diaspora. E incattivita, soprattutto l’anima di suo padre. Distanze fisiche distanze morali. Insanabili. E lui, nonostante tutto e in condizioni difficilissime, lavora per ricostruirla, la sua famiglia. Per rifare e ricostituire il nucleo del sangue e degli affetti. Non un riflusso nella dimensione privata, ma la volontà di sancire che la pace è proprio nel riallacciare legami, smussare e oltrepassare le diversità.
Come quel notturno, nel cielo di Lucca, in una pausa della guerra. La pioggia cessa, il temporale si allontana, le nuvole si rompono e la valle è illuminata dalla luna. Emozionante.
La guerra è finita, no?
Bologna 1963. Papà Luigi e mamma Caterina (Rina) Chiaradia con Hilde e Silvano.
Treviso, febbraio 2020