Il bastone
-cavo, riempito di semi,
raccolti tutti nella foresta-
agita piano lo sciamano.
Ha voce di cristallo.
Evoca pioggia,
volto assorto, rivolto all’orizzonte
dove gli Yamanà accendono fuochi,
rughe scavate dal vento
nella piana sconfinata di Patagonia.
Invoca fecondità
lo sciamano dagli occhi di pietra.
È qui il bastone della pioggia,
migrato da altra stagione di mia vita
e lontana ormai.
Nella casa del ritorno.
Apro il suo grembo
e semi antichi riaffiorano alla luce.
Lo sciamano ha scrutato il futuro,
verdi occhi di giada.
Il pendio, erto, dietro la casa del ritorno.
In ginocchio.
Dolcemente apro la terra,
gesto di sacerdote, solo mani.
Sussurro una nenia, preghiera o quasi,
parole al ventre profondo della terra.
I frammenti di ciò che fu mia vita.
Un soffio, un alito, come di un dio primigenio.
Rinchiudo, carezza al declivio fiorito.
Traccia eterna di me,
quando di mia povera scrittura
tutto sarà vaporato e perduto nella notte del futuro.
Io, esile ombra, in qualche landa degli dei,
terra elisia, a raccogliere semi.
Mi terrà per mano lo sciamano petroso,
dio della forza e della fertilità.
Voce di ossidiana,
dove vibra e chiama e invita
il cuore vivo della foresta.