La copertina propone un acquerello del maestro Giuseppe Nalin, il grande oboista ispiratore del romanzo e personaggio del romanzo.
Come dall’altra parte di un ricamo,
di un tappeto, di un arazzo. Il loro rovescio.
Se guardi sotto l’immagine nitida del ricamo,
vedi fili disordinati, aggrovigliati.
Ma sono, anche quei fili, un’immagine.
Se li guardi con pazienza e voglia di capire
ci scopri un ordine,
i riferimenti alla figura che sta dall’altra parte.
Comprendi che quel disordine in realtà è un ordine.
La figura nitida e ben formata
ha bisogno del groviglio che le sta sotto.
(Gian Domenico Mazzocato, Il castrato di Vivaldi)
Vivaldi gli aveva raccontato un giorno
la storia di quel castrato al quale,
dopo aver ottenuto successo e denaro,
capitò di incontrare suo padre
in miseria e bisognoso di aiuto.
Alle richieste del vecchio,
lui gli porse una borsa vuota,
alludendo alla borsa
che gli pendeva inutilmente tra le gambe.
(Gian Domenico Mazzocato, Il castrato di Vivaldi)
Se si esclude un romanzo breve di Balzac, Sarrasine, mai il tema del castratismo, prima di questo romanzo di Gian Domenico Mazzocato, era stato affrontato dalla narrativa italiana ed europea.
E in realtà di questo fenomeno che attraversa i secoli e giunge fin quasi ai nostri giorni (della voce dell’ultimo castrato della cappella Sistina, Alessandro Moreschi, possediamo perfino alcune registrazioni) si conosce pochissimo.
Si pensa al divino Farinelli (che è uno dei mille personaggi che affollano il romanzo di Mazzocato), magari (o soltanto) grazie al film che ne racconta la vita. E poco altro. Lo stesso film nasce peraltro da una sceneggiatura originale e non da un libro.
Il castrato di Vivaldi narra la vicenda di Angelo Sugamosto, detto lo Zerino, nato vicino a Rovigo il primo giorno di ottobre del 1720. Castrato nella clandestinità notturna di un’isola della laguna veneziana per l’intervento del suo parroco che aveva intuito le potenzialità della sua voce purissima, Angelo Sugamosto ebbe fama e grandezza. Certo non quanto avrebbe voluto. E non quanto le sue doti avrebbero consentito. Su di lui, dopo la morte, scese una smemoria secolare. Che questo romanzo dirada.
Angelo Sugamosto canta nei più grandi teatri d’Europa. Vive a Venezia, Parigi, Londra. Conosce Vivaldi, Goldoni, Händel, Casanova. E il divino Farinelli, il castrato più famoso.
Ha infinite amanti perché i castrati perdevano la capacità di procreare ma non la virilità. Erano anzi compagni di alcova ricercatissimi dalle donne. Era una moda intrisa di proibito portarsi a letto i divi (amati per la loro bravura e irrisi per la loro condizione di non-uomini) del palcoscenico. Ma non solo. La tempesta ormonale che la castrazione scatenava, faceva di loro dei colossi possenti (anche due metri in epoche in cui la statura raramente superava il metro e sessantacinque). Non facevano correre il rischio di gravidanze e, non essendoci emissione di sperma, l’atto sessuale era prolungatissimo.
Il Sugamosto di Mazzocato è un eroe dolente e inquieto.
Odia la propria condizione che non gli consente una vita normale e la possibilità di avere dei figli. Odia i propri genitori.
Per tutta la vita ricerca qualcuno (un librettista, un musicista) che scriva in qualche modo la sua storia, che la porti sul palcoscenico, che ne faccia conoscere il dramma di solitudine e, talora, di disperazione.
La povertà e l’ambiguità dei rapporti umani. Riuscirà nel suo intento, ma in un modo inatteso. Sugamosto rivede in continuazione i ferri del rozzo chirurgo che lo ha castrato. Gli appaiono come il coltello che Abramo alza su Isacco per un obbligo che viene dalla divinità. Ma nella sua cruda realtà non esiste alcun dio che scenda a fermare la mano dell’orribile atto sacrificale.
Il romanzo, da questo punto di vista, è dunque anche irrituale e spesso brutale ricerca del sacro. Il dio di Angelo Sugamosto è un dio terribile. Nel protagonista nascono odio e desiderio di vendetta. Che solo l’amore per una donna che viene a sua volta da un’esperienza terrificante (un processo per stregoneria, un delitto, la partecipazione ad una banda di tagliagole) riesce ad addolcire.
Ma il romanzo è soprattutto inchiesta sulle infinite sfumature della sessualità.
A Parigi, clandestino, fuggiasco, costretto a nascondersi in quella sorte di corte dei miracoli che era il mondo galleggiante dei barconi della Senna, Sugamosto conosce una singolare figura di travestito, il Cavaliere d’Eon (al secolo Charles-Geneviève-Louis-Auguste-André-Thimothée d’Eon de Beaumont) col quale ha un drammatico dialogo. Sull’ambiguità, sul rapporto col mondo “normale”, un rapporto di amore e odio.
Gli dice d’Eon: “Tu sei un castrato, et moi, je suis un travesti. Noi siamo il male che la gente vuole togliersi da davanti gli occhi. Ma riemergiamo sempre e mandiamo a ribaltoni il buon senso, la morale, le regole. La reazione è che ci vorrebbero cacciare, buttare in un angolo buio. Non ce la fanno. E sai perché? Noi mettiamo alla prova la pazienza della gente, il modo in cui si è organizzata.”
Nel finale, in uno spiazzante dialogo con Casanova (colto in pieno declino umano e fisico) il tema trova sviluppi inediti.
Il romanzo ha i modi del feuilleton.
Cioè dei romanzi d’appendice che i giornali pubblicavano a puntate e che avevano lo scopo di fidelizzare il lettore il quale si sentiva obbligato a comperare il numero successivo per vedere che piega prendevano gli eventi e in quali nuove avventure eroi ed eroine si imbarcassero. Le curiosità, le fotografie d’ambiente, il ritratto di grandi e piccoli personaggi storici fanno del romanzo un grande affresco epocale.
Il mondo delle corti (da Parigi a Pietroburgo), il mondo della borghesia, il mondo del popolo minuto costretto a vivere di espedienti spesso truffaldini. Il mondo dei grandi teatri rutilanti di luci e, ad esempio, la Parigi dal grande ventre, la brulicante e verminosa Parigi sotterranea.
Il castrato di Vivaldi ha peraltro anche il movimento del romanzo d’indagine.
Infatti alla vicenda del castrato che attraversa tutto il Settecento, si accompagna e si alterna la vicenda di un protagonista moderno che racconta in prima persona.
Costui acquista in un mercatino dell’antiquariato (da qui prende le mosse il romanzo) un quadro. Un ritratto di musicista, una crosta o poco di più. Ma quel ritratto comincerà a renderlo inquieto fino al punto di intraprendere un’indagine tesa a svelarne il mistero.
Romanzo di formazione, inoltre.
L’adolescenza e la giovinezza veneziane, alla scuola prima del maestro liutaio Pignata, poi del grande Antonio Vivaldi e nella sodalità con il più anziano Carlo Goldoni, prefigurano la tormentata parabola esistenziale del futuro cantante.
Romanzo colto e popolare insieme.
Un romanzo di colori e chiaroscuri. Di odori e sapori. Di drammi esistenziali dipinti a tinte forti. Si rivolge non solo a chi ama la musica. Anche a chi ama le avventure e le vicende d’epoca. A chi ama la letteratura di intrattenimento. E anche a chi ha la passione di andare per mercatini a rovistare tra le robe vecchie facendosi sorprendere dall’imprevisto.
How dark, O Lord, are Thy decrees
Come sono oscuri, o Signore, i tuoi decreti
(dal libretto di Thomas Morell
per l’oratorio Jephtha di Georg Friedrich Händel)
Caro lettore,
di Angelo Sugamosto, nato vicino a Rovigo il primo giorno di ottobre del 1720, si erano perse completamente impronte e memoria.
Il martirologio romano ricorda in questa data san Romano il Melòde, siriano del VI secolo, autore di inni e kontákia. Omelie in metro, fatte apposta per essere cantate. In uno di essi Isacco urla disperazione, inconsapevolezza e innocenza: “Perché, padre, alzi il tuo coltello su di me?”
Un castrato famoso, non famosissimo. La sua memoria è rimasta a lungo avvolta da un polveroso oblio.
È capitato a me, affetto da inguaribile balbuzie per tutto ciò che concerne lessico, storia, tecnica della musica, scoprirne le tracce.
Angelo, Anzoletto, Angioletto (a seconda dei documenti che ne riferiscono, in scoordinati lacerti, l’esistenza) ebbe una vita di odio, disperazione, rassegnazione.
Costretto dagli eventi -e dalla famiglia- al sacrificio della propria virilità.
Una vita ad inseguire un equilibrio e una pace che non arrivarono mai. A trovare qualcuno in grado di scrivere un libretto che desse corpo alla sua voglia di vendetta e rivalsa, fiato alla voce della sua anima.
La sua voce. Una voce da coltello, come i contemporanei definivano lui e quelli che condivisero la sua sorte per i più diversi motivi.
Chi pagava il biglietto per il teatro in cui si esibiva un castrato, era spinto dall’ammirazione per la voce ultraterrena ma anche animato dal disprezzo per un uomo che aveva perso la sua virilità.
Una voce che tagliava l’anima.
E tuttavia una voce frutto del lavoro grossolano e feroce di chirurghi, cerusici e barbieri. Voce da coltello, appunto.
Mai il padre e la madre di Angioletto si interrogarono su di lui. Mai risposero alla domanda che Isacco aveva rivolto ad Abramo.
A me è accaduto di ritrovare indizi della sua avventura esistenziale nei modi che racconto in questo libro.
La scintilla per l’indagine mi è venuta dall’invito muto e implicito (ma stringente) che ho colto nelle parole di Violet Paget, la romanziera inglese scomparsa nel 1935. Firmava le sue opere con il nome de plume di Vernon Lee e dedicò un libro alla “Vita musicale nell’Italia del Settecento”.
Parlando di un grandissimo castrato, Gasparo Pacchierotti, la scrittrice si lascia prendere da un “senso indefinibile d’insoddisfazione perché noi non l’udremo mai”.
È la stessa “malinconica invidia”che aggredisce anche noi moderni che nulla conosciamo del meraviglioso cantare di una voce bianca emessa dalla bocca di un adulto.
Angelo Sugamosto ebbe fama e grandezza.
Certo non quanto avrebbe voluto. E non quanto le sue doti avrebbero consentito. Su di lui, dopo la morte, scese una smemoria secolare.
Per dirla con Vernon Lee.
Una di quelle “figure di cantanti dimenticati che sorgono, nebbiose e tremule, dalle pagine sbiadite di spartiti e di biografi, evocate da una parola intensa d’ammirazione o da un commovente squarcio melodico”.
1
La religione cristiana
è fondata sulla caduta degli angeli.
(Voltaire, Dizionario filosofico)
Sovrappensiero. Semaforo rosso, freno di colpo.
Accidenti ai bancarellai dei mercatini. Maledetti loro, sempre troppo furbi. Sul sedile posteriore, la cornice si muove, scricchiola. Vuoi vedere che dopo aver contrattato tutta la mattina, pure si rompe?
“No, guarda, a me interessa solo la cornice, il quadro è proprio una crosta. Sarà anche Settecento, ma crosta resta. Senti, mi dai la cornice, ci tiri fuori la tela e te la tieni. Magari la vendi a qualcuno un po’ meno sgamato di me”.
Duro quello. La cornice continua a muoversi, metto una mano dietro per assicurarmi che sia stabile. “No, ti prendi tutto, tela e cornice o non se ne fa niente”.
Trovo a tasto la cartaccia di giornale in cui il venditore ha involtolato il quadro. Malvolentieri, almeno a giudicare la faccia.
Non lo avevo mai visto in altri mercatini.
“Cossa voto da mi, te me vò ciucciare el sangue
Uno della Bassa, dall’accento e dalla sintassi, del Polesine voglio dire. Ma quella cornice è proprio quello che mi serve. Stucchi barocchi, amorini ai quattro cantoni, doratura ancora in stato discreto.
“No, guarda proprio la tela non la voglio. E poi che razza di soggetto è? Non se ne sa niente. E potrebbe essere stata fatta anche l’altro ieri”.
Tira e molla. Lui è bravo, storce gli occhi in modo da farmi capire che ha anche altri clienti potenziali. Conosco le manovre e non mi muovo. Io diffido di quelli della Bassa. No, per essere onesto: di quelli che vedi una volta a un mercatino e poi mai più.
“Che mercatini fai?” gli chiedo per metterlo alla prova.
Lui snocciola il rosario.
“Non ti ho mai visto, dove ti ripesco se mi tiri il pacco?”
“Ti do il mio biglietto” ed estrae dal taschino della giacca un pezzo di carta. Con sussiego.
Fatto in casa con la stampante, mi dico.
Mi è simpatico e io la cornice la voglio. Magro, allampanato, pochi capelli. Giovane, sui trenta. Mi piace la gente che fa sta scelta da zingaro. Magari la domenica. Poi di giorno, vuoi vedere, è un impiegato del catasto. Fuma senza filtro, ha i vestiti impregnati. Si sente l’odore e ha le mani gialle. Si muove con eleganza, sfiora con le dita il profilo della cornice. Calcolo. La tela sarà un trentaperquaranta e dunque la cornice proprio della misura che mi serve. Ci devo mettere dentro una ducale veneziana che mi hanno regalato anni fa e che mi è saltata fuori riordinando vecchie carte. Una bolla uscita dalla segreteria di un doge Mocenigo. Giovanni, visto che la data è il 1485, proprio l’anno in cui si prese la peste per la seconda volta e ne morì. Un documento bellissimo, carta grossa e scabra, una gioia per i polpastrelli. Col segno del piombo di stampa che basta metterci vicino una lampada con la luce che taglia e vedi tutti i rilievi. Alto e basso, come il plastico di una città. No, accidenti, la voglio quella cornice. Sobria, anche, per essere del Settecento.
Provo a resistere.
“Dai, è proprio un soggetto che non si è mai visto e sentito”.
Me ne faccio una ragione. La tela non gliela lascio, me la devo tenere. Così provo a buttarla giù di valore.
“Ma scherzi, il soggetto strambo potrebbe essere proprio il suo pregio”.
Ma quanto ci mette a passare sto rosso. Ho voglia di arrivare a casa, buttare la tela nel sottoscala e provare a incorniciare la mia bolla.
Castrato con oboe, ma quando si è mai visto o sentito? Chissà chi ha scritto col carboncino dietro la tela il titolo.
“Per caso sai chi è sto castrato?”
Lui è anche spiritoso.
“Vuoi comperare o scrivere un libro di storia dell’arte?”
Meno male, si sta spazientendo. Fra poco si conclude. Il gioco delle parti finisce. Contento io, spero contento anche lui.
“Ti chiamo se mi servono ancora cornici. Perché ne hai vero?”
“Eh, questa viene da una casa patrizia, una gran villa. Così non ne trovo altre. Stai tranquillo, hai fatto un affare”.
Lo so e sono tranquillo.
Verde, finalmente.
2
Gradirà il Signore
le migliaia di montoni
e torrenti di olio a miriadi?
Gli offrirò forse il mio primogenito
per la mia colpa,
il frutto delle mie viscere
per il mio peccato?
Uomo ti è stato insegnato ciò che è buono
e ciò che richiede il Signore da te.
(Michea 6, 7-8)
Il 21 ottobre 1728 Angelo Sugamosto finì il suo ottavo anno di vita. Lo sapeva solo il prete che aveva redatto l’atto di battesimo.
Don Mira camminava poco davanti a lui con passo spedito, suo padre dietro.
Quel giorno il bambino dalla voce purissima avrebbe cantato nel coro della messa grande per l’ingresso del nuovo vescovo.
…
Angioletto non era un bambino come tutti gli altri. La sua vita cambiò quando il parroco del paese si rese conto del tesoro che c’era in lui.
Se suo padre Bartolomeo si trovava in tasca qualche soldo di stravìa, era proprio perché glieli metteva in mano il parroco. Don Mira si era innamorato della voce di Angioletto. Pura come quella di un angelo, fresca come un fiume a primavera. Avrebbe fatto qualunque cosa per renderla duratura, per evitare che l’adolescenza la distruggesse. La stagione della voce bianca è brevissima.
“Non potevano metterti un nome più indovinato, la tua è una voce da paradiso. Vicino a Dio e davanti a lui cantano i Principati, le Virtù, le Dominazioni e i Troni e tutte le gerarchie angeliche che nemmeno conosciamo e che devono essere infinite. Il grande teologo scozzese Duns Scoto dice di averli contati, gli angeli. Sono mille milioni”.
Angioletto era frastornato e non capiva. Men che meno l’astrusità di quel numero enorme.
“E tutti cantano. E tu sei come uno di loro. La tua voce è il trillo infinito del primo uccello che abbia squarciato il silenzio del paradiso terrestre” lo incalzava don Mira.
Il prete lo portava vicino all’organo, gli faceva tenere note lunghissime e poi gli diceva di non preoccuparsi perché con quella voce avrebbe sempre trovato di che mangiare.
Purché… e abbassava gli occhi. Gli guardava là sotto, tra le gambe.
Angioletto non riusciva a comprendere.
La chiesa di paese era lunga e stretta, con vetrate alte, un altare al Santissimo e uno alla Madonna. La voce dell’organo si spandeva bassa e si sentiva lontano sopra le onde del Po, rimbalzava sul filo della corrente. E quando Angioletto esercitava i polmoni e la gola, era come se le note che uscivano dalle canne dell’organo ricevessero un rinforzo poderoso che le spingeva ancora più in là. Occupavano tutta la superficie del fiume, chiudevano il Polesine sotto una campana vibrante di cristallo.
Don Mira aveva la passione dell’oboe e gli insegnava anche l’uso di questo strumento. Gli diceva come appoggiare le labbra sull’ancia, come muovere le dita sui fori dello strumento, come preparare il corpo a modulare le emissioni del fiato. Come raccogliere l’aria nei polmoni e tenere a lungo la stessa nota.
“L’oboe ha voce umana, sa raccontare, trasporta lontano”.
…
Nell’ottobre del 1728 Angelo Sugamosto, soprannominato Angioletto, fece i suoi otto anni. Proprio in quei giorni doveva insediarsi in diocesi un nuovo vescovo. Avrebbe scelto Adria o Rovigo per il suo solenne ingresso? Il nuovo prelato, molto gradito al Veneto Senato, preferì Rovigo e Angioletto, su raccomandazioni e insistenza di don Mira che aveva mosso montagne e mari, fu nel coro che doveva accompagnare la grande messa cantata.
Poi forse sarebbe seguita una cerimonia analoga ad Adria, per non scontentare nessuno. Forse.
Era chiaro che il vescovo aveva scelto i giorni in cui Rovigo era il centro del mondo, per dare maggior risonanza al proprio ingresso.
Ottobre era un mese importante per la città, con la grande fiera bovina che richiamava gente da Ferrara, da Bologna, da Mantova, Padova, Vicenza e Verona. Buoi ma anche cavalli, di ogni razza. Con il marchio delle famiglie di allevatori impresso a fuoco sulla coscia o sulla mascella. I cavalli polesani erano i più ricercati e i meglio pagati. Si diceva che il grande Giulio Cesare, al tempo dei romani antichi, si fosse fermato da quelle parti prima di passare il Rubicone e volare a Roma. E in quell’occasione i cavalli romani avevano fatto razza. Bestie dure come la gente di quelle parti, esercitate a macinare lavoro, abituate all’acqua che sale e marcisce tutto.
Dei cavalli polesani si diceva che potessero stare tra le stanghe di una carrozza anche per vent’anni. E che sapessero tirare fuori dal fango carretti stracarichi di ogni fardello.
“Non ti preoccupare se non hai mai cantato in questo coro, tu ascolta e poi segui il tuo istinto. Ho già parlato col maestro”.
Angioletto si sentì schiacciare dalla paura.
Di quanto fosse importante quella giornata aveva una vaga sensazione. Sapeva che tra Rovigo e Adria si stava combattendo da anni una guerra per stabilire chi avesse diritto a dare sede stabile al vescovo. Nella lontana Venezia il Senato aveva il suo bel da fare a tenere sotto controllo gli animi, a non scontentare troppo una delle due cittadinanze a colpi di ducali ed avogaresche. E i Consultori della Serenissima dovevano correre come matti dall’uno all’altro e prodigarsi per trovare compromessi e smussare gli angoli.
Angioletto aveva addosso già la sua brava veste bianca. Don Mira gli fece strada e cercò di attirare l’attenzione del maestro del coro che era un uomo enorme, grosso come un maiale, con una ridicola corona di capelli tutta attorno ad una lucida testa glabra. Sudava come una fontana e bastavano le sue occhiate di fuoco per ottenere obbedienza.
Con un gesto della mano indicò al bambino spaurito che veniva dal Molinazzo e che secondo don Mira era dotato di una voce miracolosa, l’ultima fila.
Se lo diceva lui che il miracolo ce l’aveva perfino nel nome.
Mira stava per Miracoloso Crocefisso, quello che veniva portato in processione tutto attorno alla piazza, quando, alla Boara, l’Adige andava qualche oncia sopra le borozze e minacciava la rotta. O ai Granarazzi o alla Volta Foscarina o alle Beverare, nel padovano. E quando, nel ferrarese, il Tartaro rompeva e passava la sua acqua per Pincara. O magari il Po minacciava sfracelli alla Panarella. E l’immenso popolo che stava in Polesine doveva guardare impotente l’acqua crescere, cercare di salvare le poche cose che possedeva, prepararsi a fare i conti con tutti i Ciavapan ladri e bastardi di questo mondo. Per sopravvivere.
Il Santissimo Sacramento esposto in Duomo e il Miracoloso Crocifisso della Beata Vergine della Concezione che guidava preghiere e litanie in piazza.
Così quel prete la gente se lo teneva caro. Era come un esorcismo in carne e ossa per loro che vivevano sempre col fiato sospeso, assediati dalla paura. Quando, in autunno, le piogge tiravano così in lungo che bisognava prendersi proprio all’ultimo con le semine, e qualche volta neppure si potevano fare, i contadini di quella porzione di Polesine andavano a far dire messa a don Mira.
“Tieniti in corpo tutto il fiato e sputa l’anima quando arriva il Gloria” gli aveva detto don Mira.
Il Gloria di Antonio Vivaldi, nientemeno. Il Gloria in re maggiore, una delle prime esecuzioni pubbliche. Vivaldi lo aveva composto per il Conservatorio della Pietà di Venezia e per un coro di voci femminili perché allora il Conservatorio era un istituto di beneficenza per orfanelle.
“Vivaldi è un prete, prete come me. Poche messe, ma che musica” scuoteva la testa don Mira.
Il prete rosso, con la sua chioma fulva, per i pochi che lo avevano visto senza parrucca. E raccontava che se per caso gli veniva in mente un’aria mentre stava sull’altare, magari con l’ostia già in mano, correva in sacrestia per annotarsi un appunto. Per trascrivere la sua ispirazione. E che Gesù stesse facendosi carne e sangue, gli scappava di mente.
Per quel Gloria non erano previste voci maschili. Il prete rosso lo aveva scritto per le orfanelle e, dunque, solo voci femminili. E se il registro di basso doveva essere affrontato più alto di un’ottava, pazienza. Angioletto chiuse gli occhi accogliendo in sé il mare impetuoso della prima parte. Il coro a quattro voci e l’orchestra d’archi. Sentì la voce della tromba e dell’oboe. Fu con le onde del coro, ritrovandosi alla perfezione. Il maestro lo seguiva, attento. Poi il soprano intonò il Domine Deus accompagnato dall’oboe.
Alla fine della messa il maestro del coro fece un cenno a don Mira. Davvero una gran voce.
*****
Angioletto non sapeva bene cosa volesse dire tutto ciò che gli era accaduto in quel giorno confuso. La sveglia presto, la corsa sul birroccio verso Rovigo, la folla immensa in piazza, per le strade, in chiesa. Poi gli altri bambini del coro. Tutti con la sua stessa voce o la sua aveva qualcosa di diverso? E alla fine il maestro lo aveva preso da parte e gli aveva chiesto se se la sentiva di intonare lui il Domine Deus.
Don Mira a muovere le dita sull’oboe e lui dominedeusrexcoelestisdeuspateromnipotens così come gli aveva insegnato il vecchio prete. Dominefiliunigeniteochriste. Chiaro e terso come una primavera nascente. Il maestro del coro aveva socchiuso gli occhi con un respiro fondo.
Poi erano usciti in mezzo alla confusione della piazza.
“Non son spettacoli per noi. Andiamocene. Torniamo a casa” disse secco don Mira.
L’attenzione di Angioletto fu attratta da un recinto, tavole e pali sul lato opposto della piazza.
Bartolomeo, suo padre, rimasto silenzioso tutto il giorno neanche allora spiccò parola. Ma il bambino non voleva decidersi a camminare. Quel giorno, per qualche misterioso motivo, sapeva di poter chiedere. Di essere lui il centro di quanto avveniva nella sua famiglia e nei rapporti col vecchio parroco. Con gli occhi implorò.
Nel recinto furono portati prima dei buoi, poi dei cani, infine un toro maestoso. I cani erano affamati, si capiva bene. E avevano la schiuma che colava dalle fauci perché erano stati costretti a ingerire bocconi che gli bruciavano lo stomaco e li facevano cattivi. Tutto attorno al recinto un gran strepitare di tamburi, raganelle, bastoni percossi l’uno contro l’altro. E uno sventolare continuo di drappi rossi, gialli e verdi. Sbattuti sul muso degli animali.
Fu chiaro subito che era una lotta a chi portava l’ultimo attacco. A chi restava vivo. L’ultimo animale che rimaneva in piedi. Cani di tutte le razze, alcuni simili a lupi, altri più grossi e apparentemente più impacciati. La minore agilità era compensata da enormi bocche dalle zanne affilate come coltelli da macello. Ogni volta che addentavano, lasciavano squarci profondi. Una cinquantina di animali forse, una confusione orribile, la sabbia che si intrideva di sangue. Polvere nell’aria, mista al puzzo della carne in decomposizione.
La gente, ai bordi del recinto, urlava e incitava…
…
Nel recinto entrò, un lungo e acuminato accoratoio in mano, il beccaio. Scosse la testa, nemmeno il toro poteva essere salvato. Grande giornata per l’imbonitore, nessun vincitore. Il beccaio finì il toro andandogli a cercare il cuore.
Tirò fuori con un gesto rapido l’accoratoio, nero di sangue, e lo piantò nel terreno. Strattonò per le zampe il mastino, per separarlo dal corno che lo aveva trapassato. Il cane sembrò avere un ultimo spasimo.
Il beccaio estrasse un coltello dalla fodera che recava alla cintola. Praticò sul collo del toro una incisione profonda per tagliargli la testa. Prima, però, fece un mezzo girò su se stesso, frugò con le mani tra le zampe della bestia, introdusse il coltello e lavorò qualche istante. Gli occhi socchiusi, non gli serviva guardare. In ginocchio, senza dire parola. Alzò al cielo un grosso sacchetto nero, buttò il coltello e con la mano rimasta libera vi frugò dentro.
L’accoratoio, ancora impiantato nella sabbia del recinto, proiettava una lunga ombra nel sole pallido del crepuscolo. Lo gnomone di una meridiana che segnava il tempo del dolore.
Alla gente che guardava, il macellaio esibì i coglioni della bestia appena morta. Li agitò come un campanaccio senza voce.
Angioletto, solo allora, ebbe un brivido.
Nel romanzo si immagina che Carlo Goldoni faccia dono al protagonista Angelo Sugamosto di un ex libris, un’acquaforte incisa Da Gian Antonio Canal. L’acquaforte è stata realizzata espressamente per IL CASTRATO DI VIVALDI dalla più importante exlibrista italiana, la scrittrice e pittrice Bruna Brazzalotto.