IL CASTRATO DI VIVALDI
UNA INDAGINE POLIZIESCA
CHE ATTRAVERSA I SECOLI
Una dote inaspettata, una violenza indotta dalla miseria e dall’ignoranza che portano a fama e grandezza. Ma anche – e soprattutto – odio, disperazione, solitudine.
Il castrato di Vivaldi di Gian Domenico Mazzocato racconta la vicenda di Angelo Sugamosto detto lo Zerino, che nasce nel 1720 in Polesine – una terra assediata dalla fame e dall’acqua – viene educato a Venezia da Antonio Vivaldi, conosce Goldoni, calca i più importanti palcoscenici d’Europa, frequenta Händel, Casanova, i Tiepolo. Ciononostante Angelo Sugamosto è un eroe dolente e turbato, e in lui nascono risentimento e desiderio di vendetta: odia la propria condizione che non gli consente una vita normale e la possibilità di avere figli; odia i propri genitori. Sarà l’amore per una donna, che viene a sua volta da un’esperienza terrificante, ad addolcire le sue pene. Il ritmo è quello di un’indagine poliziesca e la narrazione procede su due piani diversi. La vicenda del castrato che attraversa tutto il Settecento è alternata alla storia di un protagonista moderno che racconta in prima persona: dall’acquisto in un mercatino d’antiquariato di un ritratto di musicista – poco più di una crosta, che però genera in lui inquietudine – prenderà il via un’avventurosa e incalzante ricerca tesa a svelarne il mistero. Le curiosità, le fotografie d’ambiente, il ritratto di grandi e piccoli personaggi storici fanno del romanzo un grande affresco epocale dove il mondo delle corti europee, della borghesia, dei grandi teatri si contrappone al mondo del popolo minuto costretto a vivere di espedienti spesso truffaldini.
SAVIARA, BELLISSIMA E MALEDETTA
La donna di Angelo Sugamosto, il protagonista, si chiama Saviara. La sua vicenda esistenziale, dopo un’infanzia serena, prende una svolta tragica.
Ovviamente e assolutamente innocente, subisce un processo per stregoneria.
Ecco la pagina in cui, dopo le terribili torture, riesce ad evadere.
Gli aguzzini non trovarono nulla. Rivestirono la donna e la gettarono in una cella della prigione in attesa della sentenza.
Saviara aveva freddo e non toccava il poco cibo che le passavano. Sperava di morire in fretta. Anche la notizia che il suo corpo non recava alcun segno demoniaco girò per tutta Bergamo e cominciarono le proteste di coloro che non avevano visto di buon occhio l’accusa formulata contro Saviara e la tortura cui era stata sottoposta. Tra i magistrati di Bergamo c’erano brave persone che sapevano che un supplizio sapientemente inflitto può ottenere qualsiasi confessione. Qualcuno pensò che forse sarebbe stato meglio risparmiarle altro dolore.
Così, quattro giorni dopo la sua ammissione, Saviara trovò, nella brocca d’acqua, uno stiletto. Comprese il tacito invito a farla finita rapidamente. Ma capì anche che uccidendosi avrebbe spianato la strada ai suoi aguzzini, li avrebbe tolti dall’imbarazzo. Nascose lo stiletto nella manica, avrebbe potuto sempre farvi ricorso.
Nella notte tra il quarto e il quinto giorno Saviara udì uno scalpiccio insolito fuori della cella. La porta si aperse ed entrò il carceriere reggendo una torcia. Dietro di lui la figura esile dell’inquisitore. Il frate congedò il suo accompagnatore, gli disse di attendere fuori della porta. Discosto qualche passo, quello che avrebbe detto doveva restare un segreto. La fiamma della torcia aveva uno sfrigolio, come di insetti striscianti. Illuminava il volto di Saviara e lasciava nell’ombra quello del frate. L’inquisitore prese a parlare con la sua voce di metallo, avvicinandosi all’orecchio della donna. Disse che il diavolo si presentava in molti modi e a lui bastava sapere con quale volto e in quale forma lo aveva conosciuto. Voleva una confessione piena, circostanziata e dettagliata. Forse poteva salvarle la vita. La donna era disgustata dalla vicinanza ma non si ritrasse. Stringeva lo stiletto celato nella manica.
Il frate parlò a lungo, senza inflessioni. …voleva sapere con quale nome il diavolo si era presentato a lei. Ma qui la sua voce monotona e uniforme si spezzò in un sospiro. In un ansimare del tutto inaspettato. Saviara capì che il frate la stava desiderando. Che la vicinanza del suo corpo lo turbava.
Com’era possibile?
L’inquisitore l’aveva vista nuda, aveva toccato ogni luogo del suo corpo, aveva indugiato con le dita sulle sue parti intime, le aveva sfiorato la pelle in cerca del marchio diabolico, le aveva accarezzato il volto per osservare meglio il neo. Come poteva desiderarla? Il suo corpo era tutto una piaga, era già un cadavere che non assomigliava in nulla alla donna bellissima che era solo pochi giorni prima. Era calva, emaciata, debole. Uno scheletro vestito di pelle. Era il frutto della tortura operata dall’uomo che aveva vicino.
Di colpo Saviara comprese. Era proprio quella debolezza, quel suo corpo sfibrato e ferito, quella sua testa piagata e purulenta, quella bruttezza infinita, quella sua mancanza di grazia, quella vicinanza fisica alle immagini del demonio ad agitare il frate, a provocarlo, a infiammarlo. Era la repulsione che Saviara incuteva a eccitare il desiderio del frate.
Lei lo sfiorò con la sua tunica, accennò a una carezza. Prima che l’inquisitore si ritraesse, Saviara gli passò il cuore con lo stiletto. Proprio nel momento intenso del desiderio di lui. Lo uccise mentre il desiderio lo faceva peccare.
Il frate si afflosciò nel suo saio senza un lamento mentre la sua anima precipitava all’inferno. Il riverbero della torcia fu l’ultima cosa che vide assieme al volto esterrefatto di Saviara.
La donna si tolse la tunica e la cambiò col saio del frate. Gli strappò l’amuleto che aveva al collo. Con fatica ne trascinò il corpo adagiandolo sul pagliericcio. Si tirò sul volto l’ombra del cappuccio. Bussò alla porta. Il guardiano aperse e poi la scortò fino all’ingresso del carcere. Pioveva forte e da nord, dalle sue valli, spirava una tramontana di ghiaccio. Saviara rabbrividì. Stringeva in mano il sigillo di Salomone che era appartenuto all’inquisitore. Si allontanò nel buio senza luna e nessuno seppe più nulla di lei.