Editoriale Programma, euro 7, 90
Illustrazioni di Linda Simionato
TARQUINIO PRISCO, PRIMO RE ETRUSCO
TANAQUIL, FORMIDABILE FIRST LADY
Durante il regno di Anco arriva a Roma un etrusco cui la tradizione attribuisce il nome di Lucumone. Che è nome comune e generico. Con quel termine gli Etruschi indicavano la massima autorità delle loro città, insieme capo civile e religioso.
Il nostro Lucumone è uomo ricco e potente nella città da cui proviene, Tarquinia, una delle grandi capitali della nazione etrusca. Ma ha una tara, è un mezzosangue.
Etrusca è sua madre, ma suo padre è di origine greca. Demarato, un esule da Corinto, messo al bando dalla città dell’istmo perché vittima della tirannide di Cipselo.
Era approdato a Tarquinia, si era sposato, aveva avuto due figli, Lucumone e Arunte. Il suo prestigio era cresciuto anche perché aveva introdotto in Etruria la scrittura greca e la lavorazione artistica dei metalli preziosi.
Arunte era morto molto presto e così tutto l’enorme patrimonio di Demarato era andato all’unico figlio rimasto. Peraltro, prima di morire Arunte aveva generato un figlio, Tarquinio Arunte, detto Egerio perché nato povero. Egestas era la povertà. Demarato nemmeno ne conosceva l’esistenza.
Ritroveremo Egerio quando suo zio, ormai divenuto re, gli conferirà un incarico di prestigio e responsabilità.
Lucumone si sposò con Tanaquil, straordinaria first lady dell’antichità.
Tanaquil intuisce il talento politico del marito ma vede bene che la metà greca del suo sangue gli impedirà di far carriera nella conservatrice e classista Tarquinia.
Ma lì, a poche miglia, sorge Roma dove gli uomini novi sono bene accetti, hanno possibilità di affermazione e di carriera. Il posto giusto per un uomo forte e valoroso. A Roma, con un atto di valore, con una iniziativa indovinata, si era catapultati in cima alla scala sociale.
Tazio, un sabino, non era stato re con Romolo, l’eroe fondatore, in quella città? E Numa non era uno straniero, uno che veniva da fuori? E Anco, il re di quei tempi, non era forse figlio di una sabina? Nessuna preclusione agli stranieri.
Tanaquil già vede il suo uomo re di Roma. Lo convince a trasferirsi.
Salgono sul cocchio che li deve portare nella nuova città. Giungono nei pressi del Gianicolo.
E qui avviene un prodigio, un presagio anzi.
Un’aquila scende veloce dal cielo con le ali tese e artiglia il pileo di Lucumone. Il pileo è un berretto di forma conica, indossato dagli uomini liberi.
Il rapace compie alcune evoluzioni sopra il gruppetto di viaggiatori e poi discende una seconda volta, riponendo il berretto in capo a Lucumone.
Tanaquil è etrusca, di prodigi capisce quanto basta per interpretarli. Considera la regione del cielo da cui l’aquila è calata e pronuncia il suo responso.
È segno di Giove, fausto, carico di promesse. Una sorta di investitura perché il rapace ha strappato il cappello dalla testa di un uomo, lo ha portato in alto, vicino al padre degli dei, e lo ha restituito divinizzato.
Con queste speranze e con questi pensieri la famiglia entra in città. Prendono casa e Lucumone si registra come Lucio (che è il corrispettivo latino di Lucumone) Tarquinio. Come la città da cui proviene.
Tarquinio investe nel migliore dei modi il suo denaro. Si procura amicizie influenti, si rende popolare con regalie. È colto, ha modi gentili e gli inviti a casa sua sono ricercatissimi.
La fama di questo uomo generoso e cordiale arriva fino al re. La conoscenza diventa stima e poi amicizia. Tarquinio diventa una sorta di alter ego del re, sua inseparabile ombra in guerra e in pace.
Si impratichisce tanto della vita pubblica l’uomo venuto da Tarquinia, che Anco Marzio trova naturale nominarlo tutore dei suoi figli. E tutti pensano che sia un’ottima scelta.
E tuttavia Tarquinio del potere che gli veniva dato sui figli del re, saprà fare un uso spregiudicato.
Quando Anco muore, Tarquinio inizia la sua campagna elettorale non trascurando alcun dettaglio. A tutti ripete gli argomenti che lo abilitano ad essere il nuovo re. Non è certo il primo straniero ad ambire e a ottenere il trono di Roma. Numa era stato chiamato nonostante ignorasse del tutto i problemi di una città così complicata come Roma. Lui invece…
Lui conosceva il diritto e i riti. Lui aveva portato tutta la sua famiglia e a Roma aveva ormai trascorso molto più tempo che nella sua patria di origine. A Roma aveva trasferito tutto il suo patrimonio e, in ogni incarico che gli era stato affidato, aveva dimostrato capacità, generosità, estrema fedeltà e obbedienza al re.
I figli di Anco non sono ancora maggiorenni e lui, come tutore, nei giorni in cui il popolo si raduna in assemblea per i comizi, fa in modo che si trovino a caccia in campagna.
Viene eletto con larghissimo consenso.
Il suo primo provvedimento mira a crearsi una maggioranza solida e favorevole in Senato. Nomina cento nuovi senatori traendoli probabilmente dalla parte plebea della popolazione. Forse non con la stessa pienezza di diritti e poteri dei senatori della prima ora, ma comunque cambiando radicalmente la composizione del massimo organo dello stato.
Trasforma la sua prima campagna militare in una macchina di consenso e propaganda.
La conduce contro i Latini di Apioli (forse nell’Agro Pontino, forse da identificarsi con Suessa Pometia) riportandone un bottino clamoroso. Per celebrare la vittoria, organizza i giochi più ricchi che si siano mai visti da quelle parti. Soprattutto corse di cavalli e incontri di pugilato con atleti ingaggiati senza badare a spese in Etruria.
I giochi vengono celebrati sulla spianata tra Palatino e Aventino, dove più tardi sorgerà il Circo Massimo. Vuole la tradizione che qui anche Romolo organizzasse i giochi durante i quali avvenne il ratto delle sabine.
Con Tarquinio la struttura è già abbastanza ben definita con posti riservati e palchi che le famiglie più ricche possono allestire a proprio piacimento.
Capisce, il re, che le pietre sono pubblicità e denaro. Ripartisce fra privati la zona attorno al Foro perché vi costruiscano le loro botteghe e la abbelliscano con porticati.
Pone mano alla costruzione di una possente cinta muraria, ma deve subire un inatteso attacco da parte dei Sabini. L’esercito nemico passa all’improvviso l’Aniene e si presenta sotto Roma. La guerra si trascina per un po’. Molto sangue viene versato, ma nessuno dei due contendenti riesce a prevalere.
I Sabini si ritirano e Tarquinio analizza la situazione strategica e militare. Trova che ad essere carente è soprattutto la cavalleria. Non bastano le centurie arruolate da Romolo. Ne vuole aggiungere altre e magari battezzarle col proprio nome.
Ma non si può. L’augure Atto Navio dice che sacra era stata l’istituzione delle prime centurie ed eventuali altre potevano essere aggiunte solo in presenza di auspici favorevoli.
L’ostacolo fa infuriare il re che prende a ridicolizzare l’arte divinatoria. Sfida Atto Navio: “Tu che tutto sai e tutto puoi, prova a tagliare in due una cote con un rasoio”.
E Atto Navio opera sotto i suoi occhi il prodigio procurando eterna fama alla categoria sacerdotale degli auguri, tanto che una statua posta sulla destra della Curia ricorda ai posteri la figura di Atto Navio, rappresentato col capo velato.
Ci vuole altro per scoraggiare Tarquinio. Se non può aggiungere nuove centurie, raddoppia quelle già esistenti facendo raggiungere ai cavalieri il ragguardevole numero di 1800 elementi.
Ora è lui ad attaccare a fondo i Sabini. Comincia con una azione dimostrativa. Sulla riva dell’Aniene è accatastata una gran quantità di legname. I suoi genieri allestiscono degli zatteroni, vi caricano rami e tronchi, vi appiccano fuoco, li lasciano alla corrente.
Il fuoco si comunica al ponte che i Sabini hanno costruito per rimanere stabilmente collegati ai loro alleati etruschi. L’attacco arriva subito dopo.
La fanteria romana disposta al centro sembra cedere, ma la nuova e potenziata cavalleria schierata alle ali chiude a tenaglia i Sabini. Chi non resta ucciso sul campo muore annegato nel vano tentativo di riattraversare l’Aniene.
Tarquinio innalza un enorme tumulo con le spoglie nemiche e vi appicca il fuoco. Nei giorni seguenti i Sabini tentano in qualche modo di contrattaccare, ma hanno poche risorse, sono demoralizzati e stanchi. Chiedono la pace.
Il re vincitore non fa sconti. Secondo il formulario vuole che vengano in potere suo e del popolo romano “tutta la gente e la città e la campagna e l’acqua e i confini e i templi e le cose private e ogni cosa divina e umana”.
Ai Sabini fu tolta Collazia (corrispondente forse all’odierna località del Castellaccio) con tutto il territorio circostante. A comandare il presidio romano è messo Egerio, il nipote del re.
Qualche giorno a Roma per celebrare il trionfo, poi intraprende una campagna militare che lui progetta risolutiva. Attacca sistematicamente una ad una tutte le cittadelle dei Latini per assoggettarne definitivamente la nazione. Prende Corniculo (forse l’odierno Sant’Angelo Romano), Ficulea vecchia (sulla Nomentana, oggi forse la località detta Monte della Creta), Cameria, Ameriola (altre due città scomparse), Crustumerio, Medullia e Nomento (l’attuale Mentana).
Instancabile Tarquinio. Dopo le campagne belliche, le opere civili, grazie agli ingenti capitali accumulati con la preda di guerra. Riprende la costruzione delle mura interrotta dall’attacco dei Sabini, vengono prosciugate le zone paludose della città, vengono tracciate con la dovuta pendenza le cloache. E si gettano sul Campidoglio le fondamenta del tempio di Giove.
È sempre tempo di prodigi, peraltro. Nella reggia di Tarquinio se ne manifesta uno clamoroso, presagio di eventi futuri non tutti favorevoli.
Un bambino, Servio Tullio (il futuro sesto re di Roma), ha il capo circondato di fiamme. Si trova nella sua culla e il fuoco sembra non disturbarlo affatto. Tanaquil, la regina maga, blocca chi vorrebbe gettare dell’acqua. E infatti le fiamme si estinguono spontaneamente.
La regina si apparta col marito. “Hai visto?, gli chiede, è presagio divino. Il bambino sarà un giorno il lume dei nostri occhi, la nostra difesa, la sicurezza”.
Servio, dice la gente, è figlio di uno schiavo. Non è così. È il figlio di Servio Tullio, re della città di Corniculo appena espugnata da Tarquinio. La diceria è nata perché la madre è giunta in città assieme alle altre donne asservite ai vincitori. Ma Tanaquil ne ha fatto un’amica e una confidente.
Servio Tullio verrà allevato come un figlio e Tarquinio gli darà in sposa sua figlia.
Figlio di re, cresciuto come un re. Il trono è nel suo destino. Ma il potere gli sarà conferito da un evento tragico, da un delitto.
Tarquinio regna per 38 anni.
Il suo prestigio è immenso, la sua autorità assoluta e indiscussa. Ha fatto guerre, ha instaurato la pace. Ha reso Roma la città più grande, bella e ricca di tutto il Lazio.
Ma i nemici, il re, li ha in casa. Sono i due figli di Anco Marzio che si sentono derubati del trono. Vittime di un raggiro terribile.
Forse se ne starebbero tranquilli se avessero prospettive di riprendere quanto spetta loro per discendenza. Ma ormai è evidente che Tarquinio ha designato in Servio Tullio il proprio successore.
E tramano per uccidere il re.
Tarquinio è solito amministrare la giustizia personalmente nell’atrio del proprio palazzo. Dirime piccole e grandi controversie. È saggio e giusto, ha il dono del discernimento e del buon senso. I suoi verdetti vengono accettati di buon grado dalle parti in causa.
I figli di Anco Marzio hanno assoldato due pastori. Viso selvaggio e barba incolta, vengono da fuori. Nessuno li conosce. Uno reca una scure, dice che dopo dovrà tornare a lavorare nel bosco vicino a casa.
Quel giorno il re ha appena compiuto il dovere di giudice e si è ritirato nelle sue stanze. I due reclamano la presenza di Tarquinio con strepiti e urla. Fingono di essere in contrasto fra loro. A stento il littore li calma. Il re esce e prende ad ascoltare il primo rivolgendosi dalla sua parte. Ed è fatale, perché l’altro gli si avventa contro e lo ferisce mortalmente con un colpo di accetta. Poi i due si dileguano.
Tanaquil porta il suo uomo nella più tranquilla e custodita delle stanze. Capisce che il re sta morendo. E tuttavia resta impassibile, si comporta con calma assoluta. Rimane accanto al giaciglio in cui Tarquinio sta consumando la sua dolorosa agonia. Ma a tutti, anche ai più fidati servitori, dice che il re sta bene, che si riprenderà in fretta.
Anzi, per rendere più credibile la finzione, fa giungere dal monte Soratte i sacerdoti famosi per la loro conoscenza delle erbe medicinali e delle tecniche mediche.
Intanto gestisce la successione al trono. E, lungimirante, la gestisce contro i propri figli. Chiama Servio Tullio. Trema, ha paura per sé e per la sua famiglia. Dice al genero di non lasciare invendicata la morte del suocero, di non abbandonare lei, Tanaquil, nelle mani dei nemici. Lo esorta a non esitare, a essere risoluto nelle sue scelte.
Poi si presenta al popolo radunato davanti al palazzo. Sorride, tranquilla. Afferma che il re è ancora un po’ stordito, ma si sta riprendendo. La ferita è stata lavata, gli organi vitali non sono stati toccati. Nel frattempo tutti debbono obbedire a Servio Tullio. Sarà lui ad amministrare la giustizia e ad assolvere alle altre incombenze regali.
Servio avanza in mezzo alla folla indossando la trabea, il mantello bianco orlato di porpora, insegna del potere regale. Accanto a lui procedono i littori.
Decide personalmente su alcune questioni, per altre dice di volersi consultare con Tarquinio. Consolida la sua posizione, tutti pensano a lui come al nuovo re.
Quando dal palazzo si alza un urlo d’orrore, tutti comprendono che Tarquinio è morto. Il Senato accetta e conferma che c’è un nuovo re.
Servio Tullio è dunque il primo a regnare senza che la sua candidatura sia stata vagliata dal popolo attraverso i comizi.
DAL PICCOLO PRONTUARIO DI VITA ROMANA
ACCAMPAMENTO / CASTRUM
I Romani furono grandi costruttori di accampamenti. Sapevano sfruttare a loro vantaggio ogni conformazione del terreno. La forma era quadrata con lato che poteva arrivare anche a 700 metri. Sull’asse mediano, verso il fondo rispetto alla porta principale di ingresso, stava il praetorium, cioè “il quartier generale”. Sede del comando e altare per sacrificare agli dei. Davanti al pretorio passava il cardo, cioè la via principalis, che incrociava ad angolo retto il decumanus. Dietro al pretorio stava il quartiere delle truppe ausiliarie. Davanti, nella parte centrale, tra la via principalis e il fronte, nello spazio diviso in rettangoli da vie parallele alla principalis e da vie perpendicolari a questa, erano le tende dei legionari. Sui due lati quelle degli alleati. Il tutto era organizzato in modo che i soldati uscissero dall’accampamento già con uno schieramento utile alla battaglia. I campi potevano essere volanti o stabili. Nel secondo caso consentivano lo scorrere di mesi o stagioni nello stesso luogo (hiberna, “i campi invernali”; aestiva, “i campi estivi”).
AERARIUM / AERARII
Da aes, “moneta”, “denaro”. Il tesoro dello stato e il luogo in cui viene conservato. Si trovava nel tempio di Saturno dove si custodiva anche tutta la documentazione pubblica. Aerarii erano i cittadini tenuti a pagare le tasse sui loro beni mobili. Non essendo proprietari fondiari non erano compresi nelle classi e nelle centurie. Dunque non avevano diritto di voto ed erano esclusi dall’esercito.
ALBUM
Un muro o una grande tavola su cui erano esposti gli annunci per il popolo. Esisteva, esattamente come oggi, un album praetoris, l’albo dei decreti dei pretori. Vi si potevano leggere liste di giudici, di magistrati, di candidati, di condannati. Il nome viene dall’abitudine di passare una mano di calce bianca (alba) quando lo spazio era pieno.
ALFABETO
Gli alfabeti italici derivano dall’alfabeto greco importato attraverso le colonie e gli Etruschi. Il monumento più antico recante una iscrizione si trova nel lapis niger (“pietra nera), un sito archeologico nel Foro di Roma a poca distanza dalla Curia Iulia. L’iscrizione risale al 575-555 a.C. e ha andamento bustrofedico (vale a dire che chi scrive si muove alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra, come i buoi che arano il campo). Pochi i caratteri intelligibili. L’alfabeto latino in origine aveva 21 segni. Solo più tardi furono introdotte Y e Z.