Il Trevigiano terra anche di scrittori
I successi di Mazzoccato
(intervista apparsa sul mensile di attualità
cultura e informazione della Giunta regionale del Veneto,
Veneto Globale (WEB), 09 settembre 2004)
La cultura a Treviso ha i suoi laudatores e pure i suoi detrattori. Da quando la città veniva chiamata la “piccola Atene” per il fiorire di talenti (uno per tutto, Giovanni Comisso) molta acqua è passata sotto i ponti che scandiscono lo scorrere placido del Sile. Ma a intervalli regolari, nuovi talenti si affacciano alla ribalta letteraria, riconfermando quell’appellativo che spesso sembrava usurpato. E’ il caso di Giandomenico Mazzocato, ormai dichiarato scrittore di razza grazie ad alcuni libri pubblicati, a opere teatrali e poetiche.
Mazzocato, nato a Treviso, laureato in lettere classiche con una tesi su Teofilo Folengo, poi insegnante in alcuni licei della città, ha iniziato la sua attività letteraria pubblicando varie raccolte di liriche; si è dedicato alla traduzione di classici latini pubblicando per la Newton Compton le opere di Tacito (Historiae, Germania e alcune minori), quindi la traduzione della monumentale opera storiografica di Tito Livio in sei volumi. Il successo è arrivato col primo romanzo “Il delitto della contessa Onigo” (1997, Santi Quaranta Editrice,Treviso)), anche dramma teatrale. Un successo confermato dal Premio Gambrinus/Mazzotti Finestra sulle Venezie, riconoscimento tra i più significativi del panorama italiano. Attento osservatore delle genti venete, è stato definito da Repubblica un “prestigioso biglietto da visita della cultura trevisana e veneta nel mondo”. Al primo romanzo hanno fatto seguito altri tre libri, tutti oggetto di critiche lusinghiere, sempre sul Veneto, “ Il bosco veneziano””Gli ospiti notturni” e “Il delitto Pavan” oltre a raccolte di poesie e racconti. Da tempo ha lasciato l’insegnamento per l’impossibilità di conciliare l’attività di scrittore, ormai in lui preponderante, a quella di insegnante. Mazzocato ha anche un sito Internet sul quale è possibile conoscere meglio la sua personalità (www.giandomenicomazzocato.it).
Cerchiamo intanto di conoscere meglio il Mazzocato-scrittore.
Da Tito Livio e dai classici latini al Delitto della Contessa Onigo. Come ti è venuta l’idea?
“È vero. Nasco latinista, ho tradotto l’intera opera di Livio e Tacito. Mi sono laureato in lettere classiche, in storia della lingua latina per essere esatti. Con una tesi su Teofilo Folengo, il geniale, splendido Merlin Cocai del Baldus. Il mio lavoro di latinista mi ha portato subito sulle rive del Mincio, dove Folengo contemplava, con la sua risata che è sempre specchio di una disperazione, il mondo dei diseredati, dei beffati e dei bastonati dal potere. Da Teofilo ad Angelo Beolco il passo è stato breve. La mia vocazione di scrittore si è precisata in una visione della storia che guarda agli eventi dalla parte degli ultimi. L’ultima cosa che ho scritto per il teatro, Mato de Guera, trova la sua paternità in Ruzante o in Bilora. Il protagonista, Ugo Vardanega, assomiglia molto al reduce ruzantiano. Il Mato de Guera, cui dà voce un attore magnifico come Gigi Mardegan, sta conoscendo un successo che mi lascia esterrefatto. Vince premi ovunque e si avvia alla centesima replica in poco più di due anni. Questo chiude il cerchio: si capisce perché, come narratore (ma anche come latinista), ho esordito raccontando la vicenda di Pietro Bianchet che nel profondo veneto prebellico del 1903 ammazza la sua padrona, la contessa Onigo, avara e sordida affamatrice. Però devo aggiungere la magistrale lezione di Tito Livio: il grande padovano mi ha insegnato a scrivere, ha conferito alla mia prosa un andamento secco e asciutto, l’ha vitalizzata e innervata con un afflusso poderoso di dialettismi. Livio era o non era un grande, immenso scrittore cui però i contemporanei rimproveravano il fondo veneto e terragno, la patavinitas?”
Come ti spieghi il successo di pubblico (che notoriamente non legge le critiche anche positive)?
“Certo, il pubblico non legge le critiche. Ma ama i buoni libri. Voglio dire, le belle storie, magari ruvide e abrasive ma che ricollegano alla storia, a quello che tutti si recano dentro, magari in modo inconsapevole, in termini di eredità e memoria storica. Io ho avuto la fortuna di esordire con un libro, Il delitto, che è piaciuto subito a tutti. Ha tirato decine di migliaia di copie, ha vinto un premio importante, il Gambrinus Mazzotti, è diventato una piéce teatrale di successo. Un grande della nostra narrativa, Fulvio Tomizza, ha scritto che io avevo inaugurato la saga dei “vinti” veneti. Poi questa storia, che è la storia di un processo, in cui la vittima finisce per diventare la vera colpevole, massacrata dalle testimonianze dibattimentali, intriga e tira dentro. Ha funzionato il passaparola. La gente legge e io mi sono costruito uno zoccolo duro di lettori. Anche i due romanzi successivi, Il bosco veneziano e Il caso Pavan hanno trovato lettori e buona critica”.
Finora hai scritto un trittico di romanzi sulle genti venete. Pensi di continuare su questa strada?
“Devo dire che, accanto ai tre romanzi, c’è anche una silloge di racconti Gli ospiti notturni, in cui racconto altre storie venete e trevisane e in cui mi riconosco molto. Alla fine dello scorso anno, poi, assieme a Il caso Pavan, ho pubblicato fuori commercio un romanzo breve, Delitto a filò, che un settimanale ha allegato come strenna al suo numero natalizio. Per rispondere alla domanda, con molta umiltà: non riuscirei a scrivere altro. Raccontare questa gente, questa terra, questa storia mi porta a scoprire spazi che la narrativa italiana e veneta non ha mai coperto. È un po’ il segreto della mia forza”
Ti senti più scrittore o poeta?
“Non avverto questo dualismo. Ho pubblicato le mie raccolte poetiche che ora mi sembrano documento di una ricerca di linguaggio e di delimitazione del mondo che volevo raccontare. Piuttosto mi chiedo sempre se sono più giornalista o più scrittore (se mai ha senso dividere una cosa dall’altra). Mi rispondo che senza la mia esperienza di giornalista non sarebbe mai nato il narratore. Ho acquisito negli anni capacità di inchiesta, di indagine, fiuto dell’essenziale. Qualcuno ha scritto che il mio ultimo romanzo Il caso Pavan è prima che ogni altra cosa una grande inchiesta sul Settecento Veneto, tra montagna e laguna, tra Trevigiano e Veneziano. Credo sia vero. Del resto il processo Onigo, in qualche modo, lo racconto come un cronista di giudiziaria che assiste al dibattimento. Lo hai scritto tu, recensendomi per la terza pagina del Gazzettino. Poi la dimensione della narrazione consente di entrare nel profondo del personaggio, di capire di quali fantasmi si nutre il suo comportamento, di come influisce l’ambiente sulle cose che fa e pensa. Come si vede tutto questo appartiene anche al buon mestiere di giornalista. Il narratore amplifica, trova spazi ulteriori”.
Cosa pensano in famiglia dello scrittore Mazzocato?
“Beh, entriamo nel privato. I miei figli e mia moglie amano il mio modo di raccontare. Miriam, mia figlia, anche un po’ patrizza. Con un racconto si è appena segnalata ad un concorso internazionale ad Amsterdam. Mia moglie Egle, lettrice esigentissima, è la prima che legge un manoscritto appena finito e mi consiglia, mi fa tagliare, fa aggiungere. E capisce quando ho qualcosa nella testa che prima o poi diventerà scrittura: dice che mi chiudo e non interagisco più con l’ambiente. Che vivo in un mondo parallelo, che parlo da solo. A me non pare, ma se lo dice lei…”
Progetti futuri. Altri delitti?
“Sto lavorando a molte cose. Ma come narratore ho tra le mani due straordinarie storie venete. Come al solito attinte dal più grande repertorio di romanzi che esista, la realtà. E, devo dire, raccontano entrambe di molti delitti. Non solo perché in me alberghi uno scrittore di gialli, come ha scritto un critico del calibro di Luca Desiato, ma perché è il meccanismo stesso del delitto che mi fagocita (vorrei dire quasi mi cannibalizza) e mi rende pensoso. Se penso a come è nato Il delitto della contessa Onigo: c’è un contadino miserabile che uccide la sua padrona. È reo confesso e ha ammazzato davanti a molti testimoni: non dovrebbe proprio esserci processo. Ma nella mente dei giudici, forse, si insinua l’idea che accanto alla punizione bisogna anche tener conto anche delle condizioni di miseria, sfruttamento, ignoranza in cui il delitto ha messo radici. Un labirinto in cui lo scrittore deve muoversi con perizia e delicatezza. E allora…”