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Inferno Canto V

INFERNO

CANTO V

 

 

 

(Treviso, Casa dei Carraresi 6 dicembre 2002)

 

Dante discende dal primo al secondo cerchio infernale e così ci descrive la scena che gli si para davanti. È l’immagine del giudice infernale che distribuisce le anime che si presentano (sarebbe più corretto dire: devono presentarsi) al suo cospetto nelle diverse regioni dell’Inferno.

 

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:

essamina le colpe ne l’intrata;

giudica e manda secondo ch’avvinghia.

 

Dico che quando l’anima mal nata

li vien dinanzi, tutta si confessa;

e quel conoscitor de le peccata

 

vede qual loco d’inferno è da essa;

cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa.

 

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;

vanno a vicenda ciascuna al giudizio,

dicono e odono e poi son giù volte.[1]

 

È questo l’esordio sonoro, scultoreo, drammatico di uno dei canti più letti, amati e visitati non solo nella cantica, ma nell’intero poema. E tuttavia questo canto V si dimostra sempre ricco di risorse e inesauribile di spunti critici, come del resto attesta la sconfinata e ininterrotta bibliografia sulle pagine che raccontano la vicenda di Paolo e Francesca.

È anche uno di quei canti che consentono di meglio misurare le variazioni del gusto del lettore e degli orientamenti critici nei riguardi del poema dantesco. Come non pensare alle appassionate e roventi letture dei critici romantici? Nell’Ottocento, in tempi, cioè,  in cui dalla tragedia al romanzo era obbligatorio raccontare amori fatali, assoluti, devastanti, Dante diventava una sorta di complice di Francesca e del suo mortifero amore, a sua volta irresistibilmente straziato e coinvolto dal destino di morte dei due amanti.

Si tratta con tutta evidenza di un modo di leggere datato, ma che conserva un notevole valore documentale.

Ben diversa è la lettura moderna, quella che si potrebbe sintetizzare nella categoria, elaborata da Natalino Sapegno, di verifica culturale. Questo insomma è un canto in cui Dante mette e rimette in discussione, perfino con ruvidità di modi, gli schemi mentali su cui aveva lavorato fino a quel momento, che aveva affrontato in sede teorica nel Convivio e sui quali funzionavano interi filoni dell’ideologia medievale.

Un rilievo, esterno ma molto indicativo, ci suggerisce subito l’atteggiamento di radicale revisione, di dubbio a tutto campo con cui Dante si accosta alla materia del suo narrare: il canto V dell’Inferno fornisce il primo esempio, nell’ambito della letteratura medievale italiana, di una vicenda in cui una donna è protagonista, in cui una donna prende l’iniziativa avviando una relazione che non potrà non avere sbocchi rovinosi.

Vedremo e sottolineeremo come sia proprio Francesca, ecco la novità assoluta, a rivendicare in modo reciso e indiscutibile la direzione e la responsabilità dell’intera vicenda.

Con un ribaltamento totale rispetto alle posizioni acquisite dalla letteratura amorosa medievale, sia narrativa che teorica.  Qui non troviamo un poeta, un uomo di cultura, un cortigiano, un raffinato cittadino della nascente civiltà comunale che canta la bellezza di una donna, ne sollecita le grazie e l’attenzione, la chiama a sé, le chiede favori fisici e spirituali.

Qui invece c’è una donna, Francesca appunto, che si colloca in primo piano, prende l’iniziativa e recita fino in fondo la parte che ha appreso leggendo i suoi libri preferiti.

Si comporta proprio come Ginevra, la bella e tormentata moglie di re Artù, che vede Lancillotto innamorato perdutamente di lei, e tuttavia  legato dal giuramento di fedeltà al re e anche intimidito dalla situazione affatto nuova. Allora Ginevra, come sappiamo dai racconti che si riferiscono al ciclo bretone, si avvicina a Lancillotto, lo prende per il mento, accosta la sua bocca a quella del cavaliere e lo bacia a lungo, con voluttà e con lo scopo preciso e sicuro di determinare il suo possesso su quell’uomo.

Questo è quello che fa Francesca, e nel suo agire è il nodo di questo canto, complesso e indecifrabile a dispetto di tutte le analisi cui è stato sottoposto.

L’esordio che abbiamo letto è rigorosamente funzionale alla culminazione drammatica di questo canto, lo scontro/incontro tra Dante e Francesca. Il contrasto è su toni alti: Dante proviene dal limbo e dall’atmosfera di melanconica nostalgia che lo pervade. Ai sospiri del limbo si contrappongono subito il ringhio di Minosse e l’urlo dei dannati sferzati dalle pene infernali.

Il clima è violento, duro, conflittuale. Questo sarà, in una escalation di momenti sempre più drammatici, il canto di Francesca, delle contraddizioni di cui essa è incarnazione fisica, della riflessione sul peccato, in particolare il peccato d’amore. Anzi sull’amore, tout court.

L’immagine di Minosse giudice viene assunta da Dante dal canto VI dell’Eneide: tuttavia, là è un giudice rigoroso e autorevole, qui è mostro grottesco, degradato, con la sua coda lunghissima e il suo ringhio, a triviale entità demoniaca, ridotto ad automa: ascolta e poi decide immediatamente quale sito infernale deve ospitare il dannato. Lo indica con il gesto animalesco di attorcigliarsi attorno al corpo la coda. Prende la parola e, sulla scorta di quanto Dante ci ha detto, pensiamo che essa sia rauca, volgare, dissonante. Dante ha di sicuro negli occhi certe sculture romaniche che rappresentano il diavolo con la coda puntuta e quasi protesa come un’arma.

 

“O tu che vieni al doloroso ospizio”

disse Minòs a me quando mi vide,

lasciando l’atto di cotanto offizio,

 

“guarda com’entri e di cui tu ti fide;

non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”

E ‘l duca mio a lui. “Perché pur gride?

 

Non impedir lo suo fatale andare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare”.[2]

 

La scena è consueta ai lettori di Dante. I custodi infernali tentano di dissuadere il pellegrino. Il motivo è chiaro: il viaggio provvidenziale di Dante (fatale andare, cioè cammino voluto dal fato, abbiamo appena letto) costituisce un affronto alle potenze infernali, una dichiarazione esplicita della loro impotenza, una anticipazione sicura della vittoria del bene sul male. Perché il ristabilimento della giustizia e dell’equilibrio universale è lo scopo primo del viaggio del poeta nell’oltretomba.

Comprendiamo subito il tratto distintivo della cantica, appena oltrepassato il limbo: qui tutto è degradato, deforme, alienato rispetto all’umano, tutto è incline alla violenza bruta e irrazionale. Tutto: è una condizione che coinvolge dannati e demoni, per così dire, carcerati e carcerieri.

Minosse ne è l’emblema: giudice come era in vita, ma abbruttito e involgarito. Mostro, bestia, frustrato amministratore di una giustizia in cui la decisione veramente significativa (cioè la dannazione o la salvezza eterne) è stata già presa da un tribunale infinitamente più autorevole. Tanto è vero che Virgilio sbriga la pratica, se possiamo fare una battuta, doganale con una scudisciata morale a Minosse.

Parafrasando e restando sul tono di battuta: guarda che la decisione di compiere questo viaggio è già stata presa da Dio, cioè da colui che realizza ogni cosa che decide di realizzare. Tu stai zitto, non ti impicciare.

Virgilio vuol far sentire e rimarcare la distanza tra le potenze demoniache e la volontà divina che regge il mondo. E Dante è attratto e coinvolto nella nuova realtà, ne avverte la sconvolgente, straziante diversità.

In funzione del modo in cui ho scelto di raccontarvi questo canto, cerchiamo di non dimenticare mai come esso si conclude. Teniamo anzi gli occhi puntati su quel terribile finale.

 

                              …di pietade

io venni men così com’io morisse.

 

E caddi come corpo morto cade.[3]

 

Dante che sviene, sconvolto al contatto con una realtà che devasta, che lo costringe ad una revisione del suo mondo culturale, della sua sfera sentimentale, del suo stesso metodo di approccio alla realtà. Tutto è nel segno del nuovo, dell’inizio, del cominciamento.

 

Or incomincian le dolenti note

a farmisi sentire; or son venuto

là dove molto pianto mi percuote.

 

Io venni in loco d’ogne luce muto,

che mugghia come fa mar per tempesta,

se da contrari venti è combattuto.

 

La bufera infernal che mai non resta,

mena li spirti con la sua rapina;

voltando e percotendo li molesta.[4]

 

Le tre terzine poggiano e ruotano su alcune robustissime immagini. Notiamo la sinestesia violenta (questo è un luogo muto di luce) e l’analogia tra il girone e un mare in tempesta, mugghiante (e questo ci richiama non a caso il ringhio di Minosse), squassato da venti che vanno in direzioni contrarie e contrapposte.

Non è solo un modo per suggerirci il contrappasso che del resto è abbastanza evidente: queste anime sono travolte da una tempesta fisica così come in vita furono travolte da una tempesta morale. Ed è facile pensare che i contrari venti alludano allo scontro, a sentimenti fortemente contrapposti, destinati a creare disagio e dramma.

No, il fatto è che, per la prima volta, Dante incontra chi ha violato una norma morale, un preciso comandamento. Per porre il lettore e se stesso davanti al problema e a tutta la sua terribilità, sceglie il versante più arduo, il peccato non solo più complesso ma anche più vicino all’esperienza quotidiana e al centro di un articolato, variegato dibattito culturale.

Il tema dell’amore.

Il tema di come esso sorge, di come si manifesta, di come si sublima, di come decade, di come finisce per travolgere chi lo vive in modo clandestino e non corretto.

Proviamo a ricordare.

Dante proviene da una esperienza giovanile che lo ha visto vicino a Guido Guinizzelli e a Guido Cavalcanti, maturando e discutendo con loro le tematiche amorose. L’amore è un’esperienza che affina, sublima, innalza. Ma ha in sé le premesse stesse di una rovinosa caduta.

Il testo di riferimento è il De amore di un Andrea cappellano. Costui è quasi sicuramente Andrea de Luyères, cappellano della contessa di Champagne, il quale compose la sua opera attorno al 1185, dando una sistemazione alla sensibilità diffusa attorno a questo tema in tutta la poesia troviero-trobadorica e più in generale nella società feudale. L’amore non può che essere adultero, extramatrimoniale e mette radici in una società galante, abituata agli agi, raffinata, dominata dall’ideale alto della cortesia.

Tornando a Dante e al circolo dei suoi amici, da quell’esperienza era uscito il capolavoro della letteratura stilnovista, il primo grande romanzo dell’età moderna, la Vita Nuova. Lo stilnovismo, soprattutto nella interpretazione dantesca, aveva fatto della donna un tramite tra uomo e Dio. Proprio verso Dio volava l’uomo peccatore grazie alle ali della sua donna angelo.

Ecco il problema, il dramma con cui qui si scontra Dante.

Se l’amore purifica, eleva, nobilita, fa emergere e risaltare gli aspetti più alti dell’animo umano, come è possibile che esso sfoci nel peccato e porti alla dannazione eterna? Se Dante alla fine di questo canto cade nel deliquio è proprio per la pesantezza senza soluzione di questo problema.

Cosa corrode e vanifica tutto ciò che nell’esperienza amorosa conduce verso la purezza, la bellezza e la nobiltà? Cosa contamina tale esperienza? Quando scatta questa contaminazione? È in qualche modo evitabile o bisogna accettarne l’ineluttabilità?

Il nodo duro del canto è tutto qui. E come si vede, allude alla direttrice primaria del viaggio dantesco: il rapporto tra il bene e il male, la strategia per assicurare la vittoria del primo e la sconfitta del secondo. Il Dante che sviene è un Dante ancora senza risposte, drammaticamente mutilo, ancora lontanissimo dalla luce (di cui, come abbiamo visto, qui più che in altre parti si sottolinea l’assenza), dunque ancora separato dalla verità.

Bisogna aggiungere che il problema non è astratto, lontano. È umanissimo, concreto, quotidiano. Dante conferisce a Francesca una verità poetica di assoluta vitalità. Accostiamoci a lei e al momento in cui proporrà la sua storia, seguendo i due poeti.

La bufera infernale passa davanti alla ruina, ad un cumulo di macerie che sono verisimilmente indizio del terremoto generatosi alla morte del Cristo. Se è così si capisce perché

 

bestemmian quivi la virtù divina.[5]

 

Quelle rovine sono l’emblema della loro morte spirituale, della loro esclusione dalla resurrezione e dalla salvezza. Quanto alle anime che gli turbinano davanti, preda della bufera, si tratta, Dante lo capisce in questo momento, dei peccator carnali[6], coloro cioè

 

che la ragion sommettono al talento.[7]

 

Detto così è facile, come lo sono tutte le enunciazioni di principio. Questi sono i lussuriosi, che si lasciarono prendere dagli appetititi sessuali, danno ascolto al loro talento, e insomma rinunciano all’elemento razionale che avvicina a Dio, preferendo scadere al livello dei bruti. Condannare è semplice, meno semplice è riflettere. Dante allora smorza il tono di invettiva violenta o quanto meno di enunciazione dottrinaria, e sceglie il taglio della malinconia.

 

E come li stornei ne portan l’ali

nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

così quel fiato li spiriti mali

 

di qua, di là, di giù, di su li mena;

nulla speranza li conforta mai,

non che di posa, ma di minor pena.[8]

 

Dante contempla la tragedia degli esclusi dalla salvezza. Vivono in un freddo tempo, in un inverno perpetuo, sballottati, senza speranza di un minimo sollievo. La bufera, in questo quadro triste e molto terreno, è diventata quel fiato. I dannati formano massa, schiera larga e piena.

Ma dalla folla di dannati Dante vede staccarsi una schiera ordinata in lunga riga, tanto che deve chiedere a Virgilio di chi si tratta. Virgilio risponderà indicando questa e quello, facendo un lungo elenco. Noi comprendiamo che, nel più vasto ambito dei dannati per il peccato d’amore, questi sono coloro che hanno cominciato a pagare la loro deviazione già in vita, con una morte violenta.

Ancora una similitudine gentile tratta dal mondo degli uccelli.

 

E come i gru van cantando lor lai,

faccendo in aere di sé lunga riga,

così vid’io venir, traendo guai,

 

ombre portate dalla detta briga.[9]

 

Briga qui vale ancora bufera, ma di solito significa zuffa, lite, rissa. È un indizio: stiamo tornando alla categoria del contrasto e del dissidio, di cui è archetipo la prima delle anime indicate da Virgilio, Semiramide, la regina degli Assiri, sposa di Nino cui succedette sul trono, che, secondo la notizia tramandata da Paolo Orosio,  promulgò una legge che autorizzava l’incesto per giustificare le sue stesse perversioni sessuali.

 

“fu imperatrice di molte favelle.

 

a vizio di lussuria fu sì rotta,

che libito fé licito in sua legge,

per tòrre il biasmo in che era condotta.[10]

 

Non è casuale lo stare in primo piano di Sammuramat (nota a noi occidentali col suo nome greco, Semiramide): la regina rappresenta una sorta di caso limite. Se l’amore si colloca fuori del controllo della ragione e, serve aggiungere, anche della prospettiva religiosa, assume leggi proprie che sono trasgressive, che ribaltano il lecito nell’illecito.

Possiamo dire: l’amore, non tenuto dentro gli argini della razionalità e soggetto al solo talento, non sorvegliato, chiede di essere vissuto con le sue regole, esattamente come i mistici vivono il loro annegarsi in Dio. Bisogna accettare, insieme alle nuove regole, le conseguenze: perdita della libertà personale, della capacità di scelta, fatale coinvolgimento nell’amore che un innamorato ha concepito verso un’altra persona.

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende[11]

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,[12]

 

Amor condusse noi ad una morte.[13]

 

enuncerà  tra poco Dante in rapidissima sequenza. E non si tratta d’altro che della enunciazione delle regole di questa esperienza e del suo naturale, rovinoso sbocco. Perché l’amore, una volta accettato, una volta che ha messo radici nel cor gentil non può essere diviso, parcellizzato e nemmeno analizzato o combattuto. E per esempio, come si evince dal secondo verso che ho citato, l’amore non consente che chi è oggetto di una passione amorosa non ami a sua volta, non vi sia in qualche modo coinvolto. È un principio cardine dell’amor cortese. Il De amore di Andrea cappellano, infatti, recita esattamente così e Dante non fa altro che parafrasarlo.

È un’esperienza, quella amorosa, assoluta, globale, senza ritorno. Semiramide, se possiamo dire, ha avuto il coraggio di arrivare alla razionalizzazione di questa situazione, mettendola per iscritto, trasformandola in legge. Naturalmente Dante condanna e suggerisce al lettore che quello di Semiramis è un caso estremo, un obbrobrio assoluto, e la capacità di peccare è una sorta di baratro senza fondo.

Ecco la galleria delle vittime d’amore: Didone e Cleopatràs lussuriosa[14], un personaggio letterario messo sullo stesso piano e dotato della stessa vita di un personaggio storico. Due suicide, a dire il vero, e quindi potenzialmente destinate a far compagnia a Pier delle Vigne. Ma collocate qui a dimostrare il rigore del ragionamento dantesco. Didone, tradendo il giuramento fatto sulla tomba del marito, per Enea

 

ruppe fede al cener di Sicheo;[15]

 

Cioè si pone fuori delle regole, infrange quelle vecchie e se ne pone di nuove. Dovrà accettarne le conseguenze.

Ragionamento analogo potremmo fare per Elena, che ha tradito la casa, la famiglia, l’onore di Menelao; per Achille colpevole di essersi innamorato di Polissena, figlia di Priamo, re della nemica Ilio; Paride, il seduttore di Elena; Tristano, il cavaliere del ciclo arturiano innamorato di Isotta, moglie di suo zio Marco. Tutti devono rompere regole, infrangere limiti.

Non è ancora il momento di Paolo e Francesca.  Virgilio

 

                             … più di mille

ombre mostrommi e nominommi a dito,

ch’amor di nostra vita dipartille.

 

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito

nomar le donne antiche e’cavalieri,

pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.[16]

 

Quest’ultimo verso è fondamentale. Dobbiamo intendere pietà in senso ampio. Cioè: turbamento, angoscia. Nessuna attenuazione della condanna morale. È il disagio che assale chi considera le rovinose conseguenze del peccato. Dante, su questa strada, arriva allo smarrimento, alla perdita del controllo di sé: deve infatti confrontarsi con una dimensione diversa della passione amorosa, violenta e rovinosa, così lontana e antitetica rispetto a quella che gli consegnavano la lirica provenzale, la lirica siciliana, la stessa lirica stilnovista.

Dante e Francesca hanno in comune le stesse, identiche letture.

Anche Dante ha provato fremiti particolarissimi nei libri in cui ha letto di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda, delle loro imprese e delle loro vicende amorose, di Ginevra e di Lancillotto. In questo stesso canto accenna alla vicenda di Tristano. Alla raffinata società feudale di cui queste avventure sono espressione lui, uomo impegnato nella vita politica del libero comune di Firenze, guarda come un modello.

Così farà Petrarca, così farà soprattutto Boccaccio.

Quindi deve sapere, deve approfondire, deve interrogare. Chiede il permesso al suo dottore.

 

Ed elli a me: “Vedrai quando saranno

più presso a noi; e tu allor li priega

per quello amor che i mena, ed ei verranno”.[17]

 

L’amore, la bufera cioè, li mena: un verbo molto forte che allude al turbine, al travolgimento. La situazione fisica è un tutt’uno con la condizione psicologica. Solo in nome di questa passione travolgente, solo sintonizzandosi su questo sentimento devastante, Dante otterrà la loro attenzione.

Eccoli finalmente. Sono Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio, e Paolo Malatesta. Famiglia ravennate la prima, riminese la seconda. Di Paolo, Francesca aveva sposato il fratello Gianciotto (o forse era stata a lui promessa in matrimonio) nel quadro di un’alleanza politica fra le due famiglie. Forse nel 1285, forse qualche anno prima, Francesca era stata sorpresa da Gianciotto mentre era in compagnia del cognato, del resto a sua volta già sposato. Paolo e Francesca erano stati uccisi.

 

Quali colombe dal disio chiamate

con l’ali alzate e ferme al dolce nido

vegnon per l’aere, dal voler portate;

 

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,

a noi venendo per l’aere maligno

si forte fu l’affettüoso grido.[18]

 

Terza similitudine tratta dal mondo degli uccelli e anche qui Dante gioca con un intenso retroterra culturale e simbolico: l’immagine gli viene consegnata da Virgilio, ma qui giocano anche l’iconografia cristiana e più in generale tutti quei testi di carattere religioso in cui la colomba viene assunta come simbolo della purezza e della delicatezza dell’amore.

Ricordo che quel 1285 è lo stesso anno (o pressappoco) in cui Dante sposa Gemma Donati, in virtù di un contratto che il padre aveva stipulato quando il poeta aveva 12 anni. Sono, questo già ci interessa molto di più, anche gli anni del secondo incontro con Beatrice, dell’amicizia con Cavalcanti, dello stil novo. Non è da escludere che il fatto di cronaca abbia influito non solo sulle discussioni tra amici sulla genesi e gli sviluppi della passione amorosa ma anche sulle nubi che Dante vede addensarsi sul suo rapporto con Beatrice.

Dante, dunque, sottolinea che ad attirare Paolo e Francesca sono l’intensità, l’affetto, la compartecipazione che essi sentono vibrare nel richiamo del poeta.

 

“O animal grazïoso e benigno

che visitando vai per l’aere perso

noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

 

se fosse amico il re dell’universo,

noi pregheremmo lui de la tua pace

poi c’hai pietà del nostro mal perverso”.[19]

 

Francesca presenta subito la sua condizione di dolore, di separatezza, di lontananza. Ringrazia l’interlocutore e gli dice che pregherebbe per lui ma la sua preghiera non sarebbe accettata. Non le è amico il re dell’universo.

Si noti su quali toni malinconici, sospesi tra elegia e tragedia, si sviluppa la parola di Francesca. Anche quando deve presentare il suo luogo di origine, Ravenna (che allora si trovava sul mare), lo fa con accenti particolarissimi.

 

Siede la terra dove nata fui

su la marina dove ‘l Po discende

per aver pace con i seguaci suoi.[20]

 

Siede è termine che evoca pace, quiete. In questa direzione va anche l’immagine del Po, reso umano, nel suo andare verso il mare, non tanto a sfociare, quanto, con grande e umanissima intensità, a trovare pace assieme ai suoi affluenti. E marina è molto più ampio, evocativo, nostalgico di mare. Nata fui ha qualcosa di più temporalmente remoto di nacqui.

Poi, il motivo centrale di cui si diceva prima. Francesca enuncia le regole dell’esperienza d’amore, le regole che l’hanno travolta e condotta alla dannazione assieme al suo amante.

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.[21]

 

Il primo verso della terzina è notissimo, nel senso che è un luogo fisso, una sorta di postulato generale della poesia stilnovista. Guinizzelli aveva detto Al cor gentile rempaira sempre amore e, in altro luogo del suo canzoniere, Foco d’amore in gentil cor s’apprende. Lo stesso Dante, ancora giovanissimo poeta, aveva detto Amor e ‘l cor gentile sono una cosa.

Insomma, il riferimento è preciso. Francesca collega la sua esperienza d’amore, la sua scelta di abbandonarsi ad un amore non legittimo, alla sua gentilezza, alla sua condizione di nobile donna, nobile e selettiva negli affetti e nei sentimenti, cioè, figlia di una cultura raffinata ed elegante.

Ma, come abbiamo detto, qui c’è qualcosa in più: la consapevolezza degli effetti rovinosi di una simile scelta.

Francesca ribadisce la finezza della sua anima ricordando di essere ancora offesa, danneggiata dal modo in cui i fatti si sono svolti. Vorrà alludere, più che alla brutalità del delitto e alla sua condizione di dannata per l’eternità, al fatto che quell’amore ancora la tiene incatenata, avvinta al suo uomo.

Poi le altre due enunciazioni, già viste, con Amor al centro.

Francesca va delineando e precisando la sua condizione sentimentale. Ci viene quasi il sospetto che questo incontro con Dante le sia in qualche modo utile per razionalizzare, analizzare, catalogare quanto le è successo: solo un fuggevole sospetto, per carità, perché tanto nulla potrà cambiare nel suo stato, per tutta l’eternità.

Sarà evidente ora come Dante abbia costruito in questo canto non solo una situazione di assoluta emozione poetica, ma anche un meccanismo perfetto e rigoroso in cui ogni parte è necessaria ed esattamente nella misura in cui l’ha dosata il poeta.

Tra l’altro, proprio in questo canto V Dante inaugura il metodo che lo sorreggerà per tutto il poema: in questa sua risalita ad un mondo ordinato e restituito ai dovuti rapporti ideologici, la conoscenza è fondamentale. E allora chiede.

Manca ancora qualcosa a questo perfetto meccanismo. Potrei sintetizzare con una serie di domande: quando, perché e soprattutto come Paolo e Francesca hanno deciso di darsi queste nuove regole di comportamento? Indagare su questo terreno significa chiedersi come insorge il peccato e prima ancora la volontà di peccare. Problema, come tutti sanno, centrale all’intero poema.

Francesca ci ha già anticipato qualcosa quando ci ha detto che Paolo è rimasto folgorato prima e incatenato poi dalla contemplazione della bella persona, ma non basta a spiegare questa giustificazione che la donna regala al suo rapporto illegittimo.

Ha bisogno di trovare, in qualche modo, un accordo tra ragione e talento diverso da quello abituale, convenzionale, legittimo.

E parla. Racconta della sua terra, della sua storia, delle letture che faceva.

Cerca la impossibile quadratura del cerchio facendo coincidere talento (cioè i desideri sensuali)  con la ragione (cioè la purezza e la corretta tensione morale), in un sistema suo.

Dante per riproporre il mondo di Francesca la cala in una situazione quotidiana, usuale. Lei, la ragazza di nobile famiglia, ben educata, che legge un libro assieme ad un uomo.

Questa concretezza è stata sottolineata molto dalla critica contemporanea. Un critico come Gianfranco Contini definisce Francesca un’ “intellettuale di provincia”, vittima di un libro galeotto. Insomma: una sorta di M.me Bovary del Duecento, dominata da letture che eccitano in lei passioni e sentimenti non legittimi.

Aggiungiamo noi: se Dante alla fine sviene, adesso possiamo ben comprenderne il motivo. Quelle che hanno perduto Francesca sono le sue stesse letture giovanili, quelle su cui ha sognato e si è formato. Impossibile non entrare in crisi.

Il disagio di Dante crea problemi anche a Virgilio, che lo deve scuotere.

 

Quand’io intesi quell’anime offense,

china’ il viso, e tanto il tenni basso,

fin che ‘l poeta mi disse “Che pense?”.[22]

 

Ecco allora Dante che chiede.

 

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri

a che e come concedette amore

che conosceste i dubbiosi disiri?”.[23]

 

In bocca a Francesca Dante pone un concetto che deriva da Severino Boezio (quando si è infelici è terribile il ricordo della felicità) e un’espressione che è già in Virgilio:

 

Ma s’a conoscere la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,

dirò come colui che piange e dice.[24]

 

Paolo e Francesca stanno leggendo un libro che racconta una vicenda del ciclo arturiano. Dante conosce questa storia forse dal Lancelot di Crétien de Troyes, forse dalla Historia di Lancillotto del Lago che fu al tempo di Artù  che ne è la versione in volgare che comincia a girare in Italia nei primi anni del Trecento.  Per quanto riguarda i due amanti, è invece probabile che stessero leggendo una delle tante riduzioni in volgare dell’opera di Crétien.

Eccoli mentre leggono e interrompono, con tremore, la lettura di tanto in tanto perché sentono ingrandirsi il sentimento che li lega e non sanno come controllarlo. A questo punto, non sanno neanche se è giusto controllarlo. Sono all’interno di nuove regole.

 

Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancialotto come amor lo strinse;

soli eravamo e senza alcun sospetto.

 

Per più fïate li occhi ci sospinse

quella lettura, e scolorocci il viso;

ma solo un punto fu quel che ci vinse.

 

Quando leggemmo il disïato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,

 

la bocca mi basciò tutto tremante.[25]

 

Nel rapporto tra Ginevra e Lancillotto, chi funge da intermediario tra i due è il siniscalco Galehaut. Dunque tra i due, il libro è il vero galeotto, perché li costringe a rivelarsi.

Questo avviene, come spero di aver dimostrato, all’interno di un sistema di regole che i due amanti elaborano autonomamente, illudendosi di giustificare il loro rapporto. Un equilibrio difficile perché l’amore è comunque un mistero che ha in sé una ambiguità, un bifrontismo che ora nobilita ora degrada. E il confine, misterioso appunto, non è mai chiaro, mai percepibile fino in fondo.

Davanti a questa complessità sentimentale, davanti a questo coacervo di emozioni, Dante rivive la sua stessa vita, le sue stesse scelte. Non regge all’impatto.

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,

l’altro piangëa; sì che di pietade

io venni men così com’io morisse.

 

E caddi come corpo morto cade.[26]

 

 


 

[1] If V 4-15

[2] If V 16-24

[3] If V 140-142

[4] If V 25-30

[5] If V 36

[6] If V 38

[7] If V 39

[8] If V 40-45

[9] If V 46-49

[10] If V 54-57

[11] If V 100

[12] If V 103

[13] If V 106

[14] If V 63

[15] If  V 62

[16] If V 67-71

[17] If V 76-78

[18] If V 82-87

[19] If V 88-93

[20] If V 97-99

[21] If V 100-102

[22] If V 109-111

[23] If V 118-120

[24] If V 124-126

[25] If V 127-136

[26] If V 138-142

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