INFERNO
CANTO XXVII
(Treviso, Fondazione Cassamarca
Palazzo dell’Umanesimo Latino
10 aprile 2007)
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
chè de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi rinchiuso.
Ricordate? È il fatale, estremo naufragio di Ulisse raccontato dal protagonista stesso del folle volo. Siamo in Malebolge, il cerchio dei fraudolenti. E questa è l’ottava bolgia, quella in cui sono puniti coloro che hanno dato consigli bugiardi, che hanno consigliato inganni. Viaggiano, questi dannati, prigionieri di una fiamma che li avvolge. Una lingua di fuoco, come ci ricorda Dante, che è lo strumento della loro faticosa, farfugliante parola. Il poeta attinge l’idea probabilmente da un passo della Lettera di san Giacomo che identifica lingua, fuoco e peccato: “la lingua è una piccola parte del corpo, ma può vantarsi di grandi cose. Un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare!Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita”.
Serve riallacciarsi al passo biblico perchè il vero consigliere fraudolento della bolgia non è Ulisse. Il quale, è vero, fece cadere la città di Troia con i suoi menzogneri consigli, ma su cui pesa (e per questo è all’inferno) soprattutto il peccato di aver osato ciò che non si poteva osare. Ulisse ci viene presentato come l’autore del folle volo. Quasi un pretesto, verrebbe da dire, per introdurre il grande tema delle anime purganti quando ormai l’Inferno è già per la maggior parte esplorato. In effetti ci siamo dimenticati che Ulisse è lì per aver architettato la strategia mortale del cavallo di Troia. Il vero autore di consigli bugiardi lo incontreremo tra poco, nel canto che ci accingiamo a leggere. Aggiungiamo infatti che il vero protagonista della bolgia, colui sul quale pare confezionata la bolgia stessa e tagliato il brano della lettera di Giacomo, è Guido da Montefeltro. Guido è uno fra i tanti capi politici che segnarono la storia italiana tra Due e Trecento, accelerando la fine dell’esperienza comunale. Conflitti religiosi, conflitti familiari, conflitti dinastici, conflitti politici e di potere impastano le vicende esistenziali dei tanti Guido di questo periodo. Una stagione marcata dai colori aspri dell’odio, della vendetta, della violenza. O si è violenti o si subisce violenza. O si opprime o si è oppressi. Non c’è una terza via. O meglio: c’è ed è la scelta religiosa. Ma anche la religione è intricata al potere e alle lotte che esso richiede, in maniera indissolubile. Guido era un tiranno, come dice Dante, e ad un certo punto decide di farsi frate. Ma resta pur sempre un politico: astuto, maneggione, pronto al compromesso. La sua capacità di ragionare, pianificare, programmare su basi, si direbbe, oggettive e di rigore logico sono un fardello mentale che non lo abbandona e gli sarà esiziale.
Il canto che stiamo per leggere è strutturalmente molto semplice (parla un unico personaggio, Guido), ma ha una complessità che mette radici nella stessa psicologia del personaggio, nella sua vicenda personale, nel modo in cui egli architettava i suoi piani malefici, nella convinzione di essere, tutto sommato, nel giusto e che il male fosse negli altri. Guido rievoca con nostalgia dolente la sua Romagna di cui chiede notizia a Dante, pensando che sia un dannato giunto nella bolgia da poco tempo e quindi da poco morto. Ed è attraversato dal rammarico della sua situazione presente perchè pensa che se è lì, se si è indotto al passo fatale che lo ha perduto per sempre, la colpa non è sua. Il colpevole è un altro, e che colpevole: papa Bonifacio.
Nella sua contorta psicologia, Guido si crea ancora degli alibi. In lui c’è la rabbia ottusa e violenta di chi non sa leggere in se stesso e pensa che le proprie colpe siano originate dai peccati e dalle manchevolezze altrui. Lui, fine politico, ragionatore freddo, calcolatore astuto, non sa girare la pagina della sua esperienza esistenziale e cogliere in sé il nodo della colpa.
Avrete compreso. Stiamo per inoltraci in uno di quei canti in cui Dante dà il meglio della sua poesia scandagliando da una parte nell’animo umano e dall’altra facendo assurgere a simbolo, a paradigma, il protagonista della vicenda. Insomma: come Farinata, Ugolino, Brunetto sono intimamente e intrinsecamente Farinata, Ugolino e Brunetto, con la loro individualità sofferente, ma anche protagonisti di una vicenda esemplare, che può essere estesa a una più ampia sfera di umanità, così Guido è il tiranno che trama, combatte, inganna, ma è anche il prototipo di una ben precisa situazione politica e di altri personaggi simili a lui. Guido porta la sua storia personale e la storia di tanti altri che gli somigliano. Fatti dello stesso impasto feroce e aggressivo, diremmo.
Già era dritta in sú la fiamma e queta
per non dir piú, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.
Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.
Il canto si apre con questo lungo, articolato parallelo. Il riferimento è allo scultore Perillo il quale aveva costruito per Falaride, il crudele tiranno di Agrigento, un bue di rame all’interno del quale venivano introdotti i condannati e, quando il bue diventava rovente, le urla dei malcapitati si modificavano ad opera della struttura stessa e diventavano muggiti. Insomma: il dolore dei dannati diventava farfugliante rumore di fuoco battuto dal vento. Suoni confusi dapprima ma che poi si articolano in parole di pena e sconforto. Parole che con fatica trovano il viaggio, la strada per divenire intelligibili.
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’ io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ‘l giogo di che Tever si diserra».
I versi che abbiamo letto contengono uno dei problemi insolubili (problemi piccoli, ma ricorrenti) del poema. Dunque Virgilio ha appena congedato Ulisse dicendogli: “adesso vattene, non ti spingo più a parlare”, ma Guido che sta parlando dice che lo ha sentito parlare lombardo. Virgilio aveva raccomandato a Dante di lasciar parlare lui, perchè con Diomede e Ulisse bisognava parlare il linguaggio voluto da una diversa cultura e da una diversa situazione. Comunque sia l’attenzione si incentra tutta sul personaggio che ha preso la parola. Personaggio aduso alle formule cortesi (si scusa per il suo mancato tempismo) e dunque già grande, già scultoreo. Anche perchè non riesce a trattenere la domanda che gli urge dentro: “Come vanno le cose nella mia Romagna? Sai io vengo da quelle parti, sono nato tra Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere”. Eccolo il nostro personaggio. È Guido da Montefeltro, nato attorno al 1220, ghibellino romagnolo e feroce avversario dei guelfi bolognesi. Scomunicato e poi riaccolto dalla Chiesa, combatté per Pisa e, attorno al 1296, si fece frate francescano. Morì, forse ad Assisi, due anni dopo. Il tono del suo dire è dolente: nostalgico, ancora intriso di passione politica, segnato dall’accorata riflessione sulle sue colpe e sulle spiegazioni che non riesce o non vuole darsi. I tratti della sua biografia (più spirituale che fisica) si dilatano subito ai personaggi che ha conosciuto, contro cui ha tramato e combattuto: gente come lui, che ha calcato la sua stessa strada.
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Dante risponde, informato, preciso, rigoroso. Quadro più tragico non potrebbe esporre. Anche se al momento non ci sono conflitti aperti, la guerra alberga sempre nel cuore dei capi locali. Giocando sul parallelismo tra stemmi delle varie casate e azione politica dei membri di quelle casate, disegna un panorama avvilente e senza speranza (qui forse lo stesso Dante fatica a ricordare che dovrà venire il veltro a mettere a posto le cose), di crudeltà, di lotte di potere, di morte, sopraffazione, disperazione. Parafrasiamo e ripercorriamolo insieme. Ravenna è nella stessa condizione da anni; i Polenta che hanno l’aquila nel loro stemma, la tengono sotto le loro ali come una chioccia che cova. Le sue ali (qui indicate con il nome vanni, forse dal latino vannus, crivello, con riferimento al movimento delle ali stesse) si estendono anche a Cervia (la cittadina garantiva il rifornimento di sale a Ravenna). La città di Forlì che ha dovuto sostenere il lungo assedio dei Francesi e ne ha fatto un orribile massacro, ora è sotto gli artigli del leone verde degli Ordelaffi. Il massacro dei Francesi cui si fa cenno, risale al 1283 quando la città fu assediata da truppe inviate da papa Martino IV. A difendere Forlì c’era proprio Guido. E Malatesta da Verrucchio (il vecchio mastino) e Malatestino (suo figlio, il nuovo mastino) che fecero terribile strazio del ghibellino Montagna, continuano ad usare i loro denti come un succhiello a Rimini, dove da tempo fanno così. La città di Faenza, sul Lamone, ed Imola, vicino alla quale scorre il Santerno, sono sotto il dominio del piccolo leone in campo bianco che cambia partito da una stagione all’altra. Si tratta di Maghinardo Pagani da Susinana, signore di Imola e Faenza nel 1300. La città di Cesena, bagnata dal fiume Savio, come si trova tra Appennino e pianura, così è sempre tra tirannia e regime comunale. In quel periodo era sotto Galasso da Montefeltro, cugino di Guido: tiranno ma sedicente capitano del popolo, e pertanto ecco le oscillazioni tra signoria e comune. Dunque lacerante violenza, dissidi che covano sotto la cenere, orrore e crudeltà. La correlazione, fin troppo insistita e meccanica tra stemmi e azioni violente, ha un suo significato preciso, non gratuito o didascalico. È in questo contesto torbido e intessuto di faziosità che si collocano l’opera e la personalità di Guido. È ora che egli si dichiari e infatti Dante si appresta a chiedere al suo interlocutore chi egli sia. Nelle consuete forme cortesi gli fa notare che egli ha parlato con dovizia di particolari e, nell’augurargli il persistere della sua fama nel mondo, gli fa capire che si aspetta risposte altrettanto ampie. Quando, con fatica, la fiamma prende a farsi parola, comincia a delinearsi la complessa psicologia di Guido che ragiona con il rigore logico di un programmatore: “Sto per farti delle rivelazioni importanti, ma siccome tu sei un dannato come me, non potrai certo tornare nel mondo dei vivi e propagarle”. Eccolo il nostro personaggio: pervicacemente ragionatore e programmatore. Ma la realtà è altra cosa, infinitamente più variegata, articolata e frastagliata di quanto lui possa pensare. Dante è ben vivo, lì portato da preciso disegno provvidenziale. Come Farinata, Guido è ancora energico e determinato e, come lui, dolente e angosciato. Si preoccupa ancora della sua fama nel mondo. Si rivela uomo di mondo, accorto parlatore, convincente interlocutore. Un gigante, insomma. Guido è stato combattente e poi frate francescano.
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.
I propositi di Guido erano buoni. La sua scelta religiosa nasce dalla volontà di fare ammenda dei suoi peccati. Ma ecco il dramma: non riesce a rompere con il passato, non riesce a cambiare abito mentale. Anzi: una rottura irrevocabile, un cambio di rotta definitivo non rientra nemmeno nelle sue capacità di elaborazione. Pensa che anche col saio addosso vigano le stesse regole, che ci si debba comportare con astuzia e attenzione alle insidie. E allora ecco il colpevole della sua perdizione, il papa. Il gran prete, come mugghia e con nota di sarcasmo e disprezzo, lo principe d’i novi Farisei, come dirà tra poco. Sfugge a Guido che se la sua conversione fosse stata autentica e profonda, nessuno, nemmeno il gran prete, avrebbe potuto deviarlo o sviarlo. Il papa è Bonifacio VIII, del quale abbiamo già sentito nel canto XIX una inappellabile condanna. Bonifacio è atteso di lì a poco nella bolgia dei simoniaci, per essere punito insieme con tutti gli altri papi per il commercio e la prostituzione fatti della Chiesa. Ed ecco cosa è successo.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Parafrasiamo. Finché io, anima, fui forma del corpo, fatto di quella carne che mia madre mi diede, le mie opere non furono suggerite dal valore del leone ma dall’astuzia della volpe. Il mio subdolo modo di agire mi rese famoso in tutto il mondo, ma giunto alla vecchiaia, mi pentii, mi confessai, mi feci frate. Avevo fatto una cosa utile per me ma incrociai le richieste del principe dei nuovi Farisei, cioè il primo tra gli ecclesiastici che ripropongono oggi la stessa ipocrisia dei Farisei, i condannatori di Cristo. Bonifacio stava conducendo una guerra personale non contro Saraceni e Giudei, cioè contro i nemici della fede, ma proprio nel cuore della Chiesa stessa, vicino al Laterano. Contro cristiani, e non certo colpevoli di aver aiutato i Saraceni nella conquista di San Giovanni d’Acri (l’ultima roccaforte crociata in Oriente, caduta nel 1291). E nemmeno colpevoli di aver contravvenuto alle disposizioni di papa Niccolò IV il quale aveva promesso la scomunica a chi avesse commerciato con gli infedeli. Bonifacio non ebbe rispetto né per il suo ruolo di vicario di Cristo, né per gli ordini sacri, né per il cordone francescano che un tempo era solito rendere più magri coloro che lo cingevano. Notiamo che Guido dice quando mi vidi giunto, non quando giunsi. Guido riflette sullo scorrere del tempo, sull’avvicinarsi della morte, sulla necessità di rendere conto ad una giustizia superiore del suo operato. Dante ne coglie il delicato momento psicologico. Guido poi, con perfetta coerenza, usa la metafora del calar le vele e raccoglier le sarte, facendo intendere come la vita sia viaggio, peregrinazione, esplorazione. Non può non venirci in mente l’esperienza diversa e in qualche modo complementare di Ulisse che, ad un certo punto della sua vita, decise di alzarle le vele, le vele fisiche e concrete della sua nave, per esplorare il mondo oltre il limite invalicabile delle Colonne d’Ercole. La tensione delle parole di Guido sta crescendo. L’invettiva contro il papa si colora dell’immagine corposa dei frati non più resi magri dai digiuni e dalle penitenze, si estende alla solita, poderosa, mai scontata o casuale polemica contro Chiesa ed ecclesiastici. Come Costantino, malato di lebbra, mandò a chiamare papa Silvestro I dal monte Soratte dove aveva trovato rifugio e fu da questi miracolosamente guarito con il battesimo, così Bonifacio mi fece chiamare perchè lo guarissi dalla febbre della sua superbia. Richiesta apprezzabilissima, ma Guido la giudica frutto del ragionamento di un ubriaco. Bonifacio rivela subito il suo vero progetto. La similitudine con la vicenda di Costantino è giocata con rarissima abilità su quella che potremmo chiamare una antifrasi mentale. Nella vicenda di Silvestro e Costantino troviamo miracolo, fede, capacità di umiliarsi, sofferenza e anche una grande vittoria della Chiesa cristiana. Tra Guido e Bonifacio è esattamente il capovolgimento: l’abiezione di un progetto politico spregevole, la mercificazione della religione, l’acquiescenza del frate che non sa dire di no al furfante diabolico vestito da papa.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso ‘l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.
Le parole terribili, suadenti e perditrici di Bonifacio, la sua orribile macchinazione, il suo uso blasfemo della parola sacra. Se è vero che la condanna di Bonifacio è nel canto dei simoniaci, qui sono l’abisso della sua malvagità, la sua contorta personalità, il suo diabolico metodo. Non ha bisogno di Guido frate, ma di Guido fine politico e consumato stratega. “Non esitare, dice a Guido, se pensi che col tuo consiglio commetterai peccato, io ti assolvo fin da ora. Tu però insegnami come posso abbattere Palestrina e distruggere la potenza dei Colonna”. E poi, in terribile spirale, il delirio di onnipotenza che Dante sottolinea mettendo in bocca al papa parole solenni, come se parlasse ex cathedra. “Io scomunico e assolvo: posso pertanto chiudere e aprire le porte del cielo. Le chiavi sono dunque due ma il mio predecessore, Celestino V, abdicò dimostrando di non averle care”. Guido, il calcolatore di sempre, comincia a fare i suoi conti. Valuta che tacere, non dare il consiglio richiesto cioè, sarebbe la soluzione peggiore e risponde: “Se tu mi assolvi, io ti dico di promettere molto e mantenere poco. Questo ti darà la supremazia nella lotta per il soglio pontificio”. Situazione di grande disagio dottrinale e teologico. Qui si parla di un peccato che viene rimesso prima di essere commesso. Come può reggere una condizione in cui manca il pentimento? È una contraddizione patente. E infatti, alla morte di Guido, si presentano san Francesco e il diavolo. È la situazione delle sacre rappresentazioni coeve a Dante, così come era normale sentire nelle piazze. Una forma diretta di catechismo. Attraverso l’enumerazione dei meriti e dei demeriti recitata a turno da Francesco (o magari da un angelo o un altro santo) e dal demonio, scaturiva una distinzione chiara tra lecito e non lecito. In altre parole tra ciò che spianava la strada al paradiso o ciò che apriva le porte dell’inferno. Qui, è ovvio, vince il demonio che si fa beffe del grande stratega, del ragionatore, del pianificatore. Lo sbaraglia con una battuta fulminante proprio sul piano preferito di Guido: “Forse/
tu non pensavi ch’io löico fossi!”. Dante e Virgilio decidono di procedere oltre. Li attende la nona bolgia, quella dei seminatori di discordie. Ci resta, dolente e tormentata, questa scultorea raffigurazione di Guido da Montefeltro, per sempre condannato al fuoco che lo avvolge. …sì vestito, andando, mi rancuro dice malinconico l’extiranno ed exfrate, poi tace per l’eternità.
Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ‘ miei meschini
perché diede ‘l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand’ elli ebbe ‘l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ‘l corno aguto.
Noi passamm’ oltre, e io e ‘l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
che cuopre ‘l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.