LA TERRA DI POLIFEMO
LA DOLCE MALATTIA DEGLI OCCHI
Il fare statue di eroi
e costruire simulacri degli dei
procura agli occhi
una dolce malattia.
(Gorgia da Lentini
Encomio di Elena, 18
letta a Castello Ursino di Catania,
in apertura della mostra
il KOUROS RITROVATO)
17 GIUGNO 2019
Egle ed io arriviamo al Fontanarossa di Catania in un pomeriggio di afa tremenda. Apriamo i cellulari e ci raggiunge la notizia delle gravissime condizioni di Andrea Camilleri. Amiamo entrambi questo scrittore che ci ha fatto innamorare ancor di più (se possibile) di questa splendida Sicilia e della sua gente. Di lui possediamo tutto, ma proprio tutto. Non solo Montalbano, naturalmente.
Ci stiamo recando nella casa di un suo cugino, il filosofo Elio Camilleri. Un amico da sempre, un fraterno amico. Una quercia, una forza della natura. Ma in una situazione di oggettiva fragilità. È cieco per una malattia degenerativa ed ereditaria (probabilmente la stessa che ha colpito Andrea) e da qualche mese ha perso la sua amatissima Francesca. Ho voglia di vederlo e di stare con lui. Ci ha organizzato questa settimana che stiamo per vivere, ci ha aperto l’attico della sua casa. Lo sguardo, dalla grande terrazza, spazia ovunque. Da una parte il panorama dell’Etna fumante, dall’altra il golfo catanese.
Tutto è straordinariamente bello.
Pensando ad Andrea Camilleri, annoto: “FORZA ANDREA. Con Egle mi trovo a Catania, ospite di un mio amico da sempre, il filosofo Elio Camilleri, famoso per aver scritto un libro sulle storie di una Sicilia mai raccontata (Schegge di storia siciliana). Elio è un lontano cugino di Andrea. Stamattina dalla terrazza dell’appartamento che occupo vedo l’Etna che fuma. A lui, il vulcano, alla forza di questa terra straordinaria, agli dei che la abitano, al Dio di noi cristiani chiedo di tutelare il nume di Andrea. Scrittore immenso, voce della coscienza etica di questo paese. Non ci lasciare Andrea”.
Abbiamo a nostra disposizione una macchina affittata dalla B-Rent. All’ufficio dell’azienda, in aeroporto, viviamo un’esperienza niente affatto piacevole. Una attesa lunghissima, due ore e passa. Ma come? Abbiamo fatto tutto online, dovremmo solo firmare le carte e ricevere le chiavi. Un paio di minuti, non di più. Invece la fila fuori dell’ufficio si allunga e scalpita. Con i nervi un po’ tirati arriviamo finalmente a parlare col funzionario. Gentilissimo, sconta con eccezionale fairplay le mie proteste. Però il peggio deve ancora venire. Scopriamo che l’assicurazione che ci siamo fatti (una trentina di euro per 5 giorni, più che giusto, non li recupereremo mai) non vale niente. Ci vengono fatte varie proposte alternative. Uno stillicidio. Il funzionario traccia cifre su cifre su un foglio. Una dietra l’altra, velocemente. Sono disorientato, non lo seguo e non capisco granchè. La cosa che più mi dà fastidio sono gli accenni nemmeno tanto velati ai pericoli del traffico catanese. Lo sperimenteremo. Decisamente caotico, precedenze e semafori rossi sono assolutamente degli optional. Il pericolo grande sono gli scooter che ti sfiorano a destra e a sinistra in continuazione. Finirò col restituire, prima di imbarcarmi per il ritorno, la macchina senza un graffio e capirò che è una piccola impresa. Ma questo che mi sta davanti usa un malessere della sua città per condurmi (nulla di scorretto per carità, anzi, è paziente e gentile) a pagare una polizza Kasko da quasi 170 euro per meno di una settimana.
Accetto perché non ne posso più e non vedo l’ora di andarmene.
Finalmente raggiungiamo Elio. Un abbraccio lungo, io mi commuovo e faccio una lacrima. Alla sera ci porta a mangiare una delizia. “Non potete non iniziare con la pasta con le sarde”, ci dice. Ha proprio ragione. Mi cercherò la ricetta e la farò nella mia Treviso.
18 GIUGNO
IL CASTELLO SULLA LAVA
IL SICILIANO RESPINTO DA UNA TREVISANA
Il giorno di Aci Castello e Aci Trezza. A favore del secondo borgo marinaro giocano le memorie di Verga e dei Malavoglia. Ma lo scrigno, il luogo di fascino assoluto è Aci Castello col suo maniero costruito su uno sperone di roccia che anticamente era un’isola e che poi una colata di lava vulcanica ha saldato al continente.
Si narra che Aci Castello e le altre Aci traggano la propria origine da Xiphonia, misteriosa città greca scomparsa, probabilmente oggi in comune di Aci Catena. Virgilio e Ovidio edificano il mito della fondazione legandolo alla vicenda d’amore tra la ninfa Galatea e Aci, un pastore. Sfidando le ire di Polifemo, a sua volta innamorato della ninfa. Si parla di una città romana, Akis, e anche di un corso d’acqua con questo nome.
Visitiamo la fortificazione da cui si irradiò il centro abitato nel medioevo. Durante i Vespri siciliani, fu assoggettata alla signoria di Ruggero di Lauria, quindi in epoca aragonese fu di Giovanni di Sicilia ed infine degli Aragona. Ha subito infiniti assedi. Oggi ospita un piccolo museo.
Prima dell’ingresso, sulla sinistra, una catena di lucchetti, pegno di amore. Ormai è uno stereotipo.
Visitiamo le splendide terrazze e ne conosciamo l’imperiale custode, Davide Aricò. Un poeta, un disincantato osservatore della vita, uomo di vastissima cultura. Fraternizziamo in pochi secondi. Snocciola massime e versi in continuazione. Faccio tempo ad annotarmi qualcosa.
“L’arte della perdita non è mai un disastro”. Davide ha avuto una storia d’amore con una ragazza di Treviso, intensa. Quando, innamoratissimo, l’ha raggiunta al Nord, si è sentito dire “ma era solo una storia estiva”. E lui è diventato il cantore della perdita che non è mai un disastro. Mi dice anche “parlo per tappare la bocca al silenzio”. Da non credere.
Le terrazze offrono un panorama dilatato sul mare aperto. E sulle scogliere, frutto delle ire di Polifemo che si è sempre divertito a scagliare sassi. Come è noto, i giganti dall’unico occhio erano personificazione dei vulcani che coi loro improvvisi risvegli e sussulti trasformavano il territorio.
Ma soprattutto le terrazze riservano la sopresa di un immenso giardino tutto fatto di piante grasse. Una gioia, una delizia. Colori e spini, forme dritte e contorsioni assolute. Mai visto nulla di simile.
Poi ad Aci Trezza, paese di pescatori che innalzano monumenti alla loro attività con le spoglie di vecchi e malandati pescherecci. Parcheggio proprio nel porticciolo, un po’ fatiscente a dire il vero, della cittadina. I parcheggi costano molto poco, ma se non paghi, i vigili sono implacabili. Giusto, mi piace.
Un cartello ci informa che qui si trova un’antica scuola di maestri d’ascia.
Il lungomare è ventilato e spazioso. Visitiamo la chiesa incombente sul porto dedicata a san Giovanni. Sul sagrato motivi decorativi che richiamano la cultura araba qui onnipresente. Siamo nei giorni della ricorrenza e, come sempre al Sud, si attende la festa patronale con luminarie. Sulla collina si arrampicano stretti vicoli. La gente è simpatica, ospitale.
Pomeriggio nel centro di Catania. Piazza Duomo è un salotto. Entro nella cattedrale per un doveroso omaggio al grande e amato Vincenzo Bellini, che qui dorme il suo sonno eterno.
Il punto focale della piazza è il liotro, l’elefante con l’obelisco sopra. Fu messo insieme dall’architetto Gian Battista Vaccarini nel 1737. C’era una città da ricostruire dopo il disastroso terremoto dell’11 gennaio 1693. La statua in pietra lavica esisteva già, ma era stata danneggiata dal sisma. Vaccarini aggiunse gli occhi in pietra bianca e le zanne issandola poi sulla fontana monumentale con la proboscide rivolta verso sant’Agata. L’obelisco fu probabilmente portato a Catania durante le crociate da Syene e poi collocato sopra il pachiderma. L’elefante è, già nelle antiche leggende locali, una entità apotropaica contro i terremoti e le eruzioni dell’Etna. Il nome sembra venire da un mago Eliodoro, un esperto alchimista che si divertiva a tormentare i Catanesi con le sue stregonerie. Fu lui, forse, a scolpirlo nella lava dell’Etna.
Sui gradini della fontana del liotro siede e chiacchiera una umanità variopinta e simpatica. Un musicista di strada raccoglie qualcosa spaziando da Bob Dylan a Capossela.
Ci è guida Gianni Sineri, un attore espertissimo dell’antica Opera dei Pupi (che lui ha anche diretto), il quale ci porta alla scoperta di una Catania segreta e poco nota. Ci avvolge con le sue storie per un intero pomeriggio. Difficile ricordare tutto. Resta impressa la sua polemica con chi dice che la fontana alimentata dalle acque sotterranee dell’Amenano (ad uno dei vertici di piazza Duomo) è detta acqua a linzolu per l’effetto a velo che fa l’acqua scendendo dalla cornucopia retta dal dio fluviale. Sineri dice che l’idea del lenzuolo viene dall’abitudine in uso un tempo di stendere in quel luogo, i panni ad asciugare. Peraltro, a contraddirlo, c’è anche la didascalia su un cartello.
E poi il singolare graffito sul muro del palazzo municipale sempre in piazza Duomo: una tomaia e una tegola. Sono le unità di misura del Settecento siciliano. La tomaia misurava le pelli e la tegola le stoffe. La gente poteva, in tal modo, controllare la reale misura della merce acquistata.
Alla sera, cena alla Putia dell’Ostello. Mangiamo una favolosa tagliata di tonno al sesamo. In un contesto molto particolare: siamo in un sotterraneo e vicino a noi scorre l’Amenano prima di andare ad alimentare la fontana del lenzuolo.
19 GIUGNO
LA MERIDIANA
E LA MADONNA DELLA MONNEZZA
Il giorno da dedicare ad un monumento straordinario che, come dice Nicola, la nostra simpatica e preparatissima guida, nemmeno i Catanesi conoscono bene. Il monastero dei Benedettini, oggi sede della facoltà di lettere con la sua favolosa biblioteca dislocata nei vari sotterranei.
Cominciamo dalla chiesa più grande di Catania e della Sicilia intera, l’adiacente san Nicola (nota anche come chiesa di san Nicolò l’Arena). Imponente. Più tardi, visitando il monastero, ne conosceremo qualche segreto.
105 metri di lunghezza e 48 di larghezza, con un’altezza di 66 metri alla cupola. Di fatto ricostruita dopo l’eruzione dell’Etna del 1669, subì anche le conseguenze del terremoto del 1693. Marcate le somiglianze con la basilica romana di san Pietro. I pilastri che reggono le navate con le paraste corinzie e i cornicioni, le finestre, soprattutto la pianta a croce latina e a tre navate. Strano e affascinante connubio tra tardo barocco siciliano e il più lineare neoclassicismo, si affaccia su piazza Dante con la sua facciata costruita sul progetto di Carmelo Battaglia Santangelo, nipote e allievo di Francesco Battaglia.
Ma ciò che colpisce il visitatore è la grande meridiana che attraversa tutto il transetto ed è stata disegnata dagli astronomi Wolfgang Sartorius von Waltershausen e Christian Peters, tedesco il primo, danese il secondo. Fu completata nel 1841 e si segnalò subito per l’accuratezza dei calcoli e la sua bellezza, tutta scandita dalle immagini dei segni zodiacali. Lo gnomone, cioè il foro praticato sulla volta del transetto, è posto a 23 metri, 91 centimetri e 7 millimetri di altezza. Sulla fascia marmorea, il cui tracciato si estende per circa 40 metri tra le due cappelle di san Benedetto da Norcia e san Nicola di Bari, sono segnate le ore, i giorni e i mesi. Davvero peccato che la lapide che reca l’iscrizione dedicatoria sia completamente rovinata e quasi del tutto illeggibile.
Entriamo nel monastero dei Benedettini, 5 euro di ingresso. Niente, se si pensa all’esauriente e coinvolgente spiegazione della nostra giovane guida.
Nella sua storia il monastero ha combattuto contro la lava e, anzi, è in parte costruito sulla e nella lava.
Fu fondato da monaci provenienti dall’omonimo monastero situato nei pressi di Nicolosi. A metà del XVI secolo chiesero al senato cittadino l’autorizzazione a edificare entro le mura, perché minacciati dalle eruzioni dell’Etna e dai briganti. Occupa un rettangolo di 210 metri x 130 ed è il secondo monastero benedettino più grande d’Europa (secondo solo al monastero di Mafra, Portogallo).
Visitiamo le antiche cucine, le cantine. Di ampio respiro i chiostri, usati anche come luogo di spettacolo.
Il primo chiostro, quello di levante, si presenta nelle forme di un giardino denso di vegetazione ed è circondato per intero da portici retti da pilastri e archi a tutto sesto, con una terrazza continua soprastante. Il secondo chiostro o chiostro dei marmi, a ponente, è il più antico e fu costruito sulle rovine dell’edificio precedente, di cui sono riconoscibili alcuni tratti delle fondazioni cinquecentesche nei sotterranei. In origine non ospitava come l’altro chiostro un giardino, bensì un lastricato monumentale in ciottoli e pietra lavica di cui ancora si intravvedono alcune parti sotto lo sterrato, mentre al centro sta ancora la grande fontana marmorea seicentesca.
Straordinario il Refettorio Grande, ora aula magna, anche per le sue memorie letterarie. La costruzione destinata ad ospitare i novizi del monastero, tutti di provenienza aristocratica e dunque in grado di portare cospicua dote, fu cominciata da Francesco Battaglia che riprodusse specularmente l’impianto dei due chiostri esistenti con il corridoio affacciato sul chiostro e le stanze dei novizi allineate sulla facciata esterna. Lungo tutto il perimetro della sala corre una sorta di marciapiede, in cotto siciliano. Così lo definì Federico De Roberto.
Lo scrittore verista, nel suo romanzo / saga I vicerè, traccia un ritratto impietoso della vita che vi si svolgeva.
«Ci staresti sempre, al convento?» «Sì,» rispose egli. «È bello stare a San Nicola!…». I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un melone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Le cantine di San Nicola erano ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d’oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale.
L’ampia volta ci guarda con un affresco di Giovanni Battista Piparo, una Gloria di san Benedetto, unica, tra le decorazioni pittoriche della sala, ad essere giunta fino a noi.
Nicola ci conduce attraverso un passaggio segreto. Sbuchiamo dietro l’altar maggiore della chiesa di san Nicola e dominiamo dall’alto, da una sorta di terrazza celata alla vista da un graticcio in legno, il grande organo barocco costruito da Donato Del Piano (2450 canne, 72 registri, 3 console).
Usciamo percorrendo le gradinate dello scalone monumentale.
In una via adiacente scopriamo un altarino (ma il nostro amico Elio Camilleri ci aveva dato le dritte giuste) di cui pochi Catanesi sanno fornire indicazioni. Anzi non sanno proprio che esista.
È dedicato alla Madonna della Monnezza. Si narra che un netturbino trovasse un giorno un’immagine della madonna nella spazzatura. La salvò e le chiese una grazia. Che fu esaudita. E le dedicò questo altarino. Trovarla non è stato facile, ma ne è valsa la pena. Capita di rado di vedere simili documenti della pietà e della religiosità popolari.
20 GIUGNO
IL MONTE DI VULCANO, EOLO E RE ARTÙ
IL CRATERE IN CUI SI TUFFÒ EMPEDOCLE
È il giorno dell’Etna.
Ma è anche il compleanno della mia donna straordinaria, Egle. Lo festeggeremo con i succulenti piatti di pesce della Terrazza Balsamo di Ognina, sul lungomare di Catania. Qualche difficoltà, al solito, a trovare parcheggio, ma un posteggiatore, rigorosamente abusivo, che ti reperisce un buchetto dove infilarti si trova sempre.
Intanto ci inerpichiamo verso la cima del vulcano, con destinazione la stazione di partenza della funivia che porta al cratere. Panorama unico. La lava nera domina il paesaggio.
Io ripenso a Pindaro, il poeta greco che, nella Pitica, celebrò questi luoghi: l’Etna nevoso, colonna del cielo / d’acuto gelo perenne nutrice / lo comprime. / Sgorgano da segrete caverne / fonti purissime d’orrido fuoco, / fiumi nel giorno riversano / corrente di livido fumo / e nella notte rotola / con bagliori di sangue / rocce portando alla discesa / profonda del mare, con fragore.
È il Mongibello degli arabi: Da Mons Gibel, latino mons e arabo jabal, entrambe le parole significano monte. Insomma il monte monte per eccellenza.
Terra di leggende e miti. Efesto / Vulcano ha qui la sua fucina. Eolo imprigionò i venti nelle caverne dell’Etna. Qui abita il gigante Tifone, la cui ira fa eruttare il vulcano. Un altro gigante, Encelado, sconfitto da Atena, giace con la bocca alla base del vulcano che tuona ogni volta che lui urla. Anche i Ciclopi avevano qui una fucina e vi fabbricavano le saette scagliate da Giove.
Una leggenda fa morire Empedocle ( V secolo a.C.) con un tuffo nel cratere che vomitava lava. Il grande filosofo e scienziato voleva carpire al vulcano i suoi segreti.
Durante l’eruzione del 252, il popolo di Catania fermò la lava opponendovi il velo di sant’Agata rimasto miracolosamente intatto dalle fiamme tra le quali era sta martirizzata la fanciulla l’anno prima.
Poteva mancare re Artù? Quandomai, il mitico re dei Britanni vive, eterno, ancora qui in una delle tante grotte del vulcano. E qui aleggia l’anima di Elisabetta I d’Inghilterra: ha fatto un patto col demonio per governare il suo paese.
Qui risuonano i versi della Teogonia di Esiodo e le parole di una tragedia perduta di Eschilo, Le Etnee.
Saliamo per Nicolosi e scendiamo dalla parte di Zafferana Etnea. La strada è bella, ampia, senza particolari pendenze. Anche i tornanti sono molto agevoli.
21 GIUGNO
TROIANE, CON OMAGGIO ALLA CARNIA
Il giorno del teatro greco di Siracusa e delle Troiane di Euripide.
Suggestione unica. Autostrada scorrevole (e gratuita) fino alla città di Archimede e Dionisio.
Il teatro greco risale, nella sua prima costruzione, al V secolo a.C.
Avevamo avuto occasione di vederlo qualche anno fa, vuoto. Ora la vita lo pervade ovunque. Non solo per il formicolare di spettatori ma per lo scenario immaginato e realizzato dall’architetto Stefano Boeri. Che ha dichiarato: “Ho pensato all’immagine terribile delle migliaia di alberi deposti dalla furia del vento sui monti della Carnia nello scorso ottobre. Con la regista Muriel Mayette-Holtz e con l’assistente alla scenografia Anastasia Kucherova, abbiamo deciso di dare per un’ultima volta a quelle piante morte il diritto ad essere presenti, erette, ancora nobili entro la geometria classica del palcoscenico del teatro greco, poste di fronte ad un doppio pubblico: quello degli umani sulle gradinate e quello degli alberi dietro al palco. Questo sciame di alberi schiantati, una volta trasportato a Siracusa e portato sul palcoscenico, percorso dai corpi e dalle voci delle donne troiane disperate e furiose, è diventato un bosco senza vita di colonne lignee: eretto, seppur impietosamente decimato. Nobile e ordinato, seppure destinato ad una nuova vita nelle falegnamerie siciliane”.
Una invenzione geniale, di forte impatto.
La tragedia narra il dramma delle donne troiane dopo la sconfitta. Saranno sorteggiate e andrano a servire, schiave, nelle case dei greci vincitori. Straziante. Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba ad Odisseo.
Dalle braccia di Andromaca, vedova di Ettore, viene strappato il piccolo Astianatte. Il bambino fa paura, potrebbe volersi vendicare una volta diventato adulto. E viene buttato giù dalle mura della città.
In qualche momento lo spettatore è portato al pianto, è coinvolto fino alla commozione profonda.
Ecuba è Maddalena Crippa, molto vera, molto convincente.
Grande Ecuba / Crippa. È lei che sostiene con Elena, davanti a un Menelao visibilmente di parte (Graziano Piazza), una sorta di confronto giudiziario. Scontro di ragioni e azioni che, infine, lascia indenne la vituperata Elena, la colpevole per antonomasia. È lei che compone il corpo del piccolo sacrificato (Riccardo Scalia) nello scudo del padre, in una scena di vivida emozione.
Impressionante l’interpretazione di Marial Bajma Riva nel ruolo della forsennata e danzante Cassandra. Davvero la folle profetessa non comprende quanto sta accadendo? O è proprio lei a capire davvero? Grandezza eterna di Euripide.
Molto brave Elena Arvigo (Andromaca) e Viola Graziosi (Elena).
Decisamente spaesato il comico Paolo Rossi nei panni di Taltibio, il plenipotenziario greco che tratta con le donne di Troia. Qualche perplessità anche sulle musiche scelte per il coro (il capocoro è Elena Polic Greco, mentre il capocoro di vecchie prigioniere troiane è Doriana La Fauci) con la presenza di una chitarra in scena, forse fuori registro.
Si comincia con la luce del tramonto (ora prevista le 19, ma tutto slitta di mezz’ora) e si finisce con il buio della notte di Siracusa illuminata dallo spettacolare falò di Troia che brucia. Indimenticabile.
Ritorno a Catania e pastasciutta a casa di Elio, dalla terrazza che guarda Catania.
22 GIUGNO
LA PESCHERIA, UN MONDO
LA TESTA CHE RITROVA IL SUO CORPO
In centro a Catania.
Non volevamo perdere il rutilante mondo della pescheria. Proprio dietro piazza Duomo, preannunciato dalla mitica fontana del lenzuolo e del dio fluviale Amenano. Il vociante, odoroso microcosmo della pescheria. Re incontrastato il pesce spada, ma c’è di tutto, dall’argenteo pesce spatola alle anguille vive e guizzanti, dalle cernie ai crostacei. Le grida dei venditori, i gesti rapidi di chi taglia tranci di pesce, la gente che contratta… i prezzi che ci fanno invidiare questo posto.
Non verremmo mai via.
Ma bussa la cutura, una mostra che non possiamo perdere.
Pochi passi e siamo al Castello Ursino (costruito da Federico II tra 1230 e 1250, il nome è latino e allude al fatto di trovarsi in un sinus, un golfo), ora sede dei civici musei. Si affaccia sulla piazza che dall’imperatore umanista e guerriero trae il nome.
Discretamente documentato il Settecento siciliano nel segno di Caravaggio.
Tra le cose belle della pinacoteca un Volto di Ofelia (Michele Rapisardi, 1865) e Sunt lacrimae rerum (Natale Attanasio, 1889).
Ma emoziona la mostra IL KOUROS RITROVATO, un busto di giovane realizzato nello splendente marmo di Lakkoi, isola di Paros.
All’ingresso ci accoglie una frase solare del retore e filosofo Gorgia da Lentini (Lentini, 485 / 483 a.C.- Larissa, 375 a.C. circa): “Il fare statue di eroi e costruire simulacri degli dei procura agli occhi una dolce malattia”.
Il busto è stato ritrovato separatamente dalla testa e poi magnificamente assemblato. La bellezza che non ha tempo e toglie il fiato. Fino al 3 novembre 2019, 10 euro, con audioguida gratuita, www.civita.it.
Il kouros, è una tipologia di statua greca raffigurante un giovane in posizione statica, con funzione funeraria o votiva molto diffusa nel periodo arcaico e classico, tra il VII e il V secolo avanti Cristo. Quella esposta è una scultura tardo arcaica (530-490 a.C.), ricavata da un unico blocco di marmo bianco.
La testa rinvenuta a Lentini dal principe di Biscari e conservata al museo di Castello Ursino, è stata ricongiunta nel 2018 al torso acquisito da Paolo Orsi e conservato nel museo archeologico di Siracusa che oggi porta il suo nome.
Le due parti erano state rinvenute in epoche diverse (tra Settecento e primi del Novecento) a Lentini, l’antica Leontinoi, una delle più antiche colonie greche di Sicilia. Il primo ad affermare con sicurezza che si trattasse di parti della stessa statua era stato nel 1927 l’archeologo siciliano Guido Libertini.
Mezzogiorno alla trattoria del Cavaliere. Ottimo pesce per me (una frittura da paradiso) e carne di cavallo (una specialità della casa) per Egle ed Elio.
Torniamo a casa, per riposare un po’ e rifare le valigie. Domani bisogna essere di buon mattino all’aeroporto.
Avevamo cominciato con la pasta alle sarde, chiudiamo con la mia pasta pomodorini e olive taggiasche, sulla terrazza. In tv guardiamo gli 11 ragazzotti strapagati che si sono persi un europeo alla loro portata e soprattutto le qualificazioni olimpiche. Mah!
Ciao Catania, dalla bella notte.
Ciao Elio, nostro fraterno amico.
Nel saluto di addio, mi hai detto che quando Platone immaginò la donna, nel mondo delle idee perfette , di sicuro aveva in mente Egle.
Certo, la mia donna si fa amare.