Intervista a Gian Domenico Mazzocato
(Intervista pubblicata sul sito Sane Society, 31 agosto 2004)
COME SONO STATI I SUOI INIZI E COME È RIUSCITO AD APRIRSI CAMMINO A LIVELLO PROFESSIONALE?
Ho cominciato giovanissimo col giornalismo che ha sempre accompagnato la mia attività di docente: appartengo a quella generazione che riconosce ancora l’odore del piombo fuso dalle linotype. Questo ha significato contatti, conoscenze, confronto col quotidiano. Tuttavia ho sempre coltivato, come studioso, anche l’altra parte della mia anima: complementare e speculare alla prima. L’anima del latinista vicino a quella del cronista. Non sono così distanti, se ci si pensa. La dimensione della classicità può essere misura della modernità. Lo spiego, credo in modo compiuto, nel mio ultimo romanzo, Il caso Pavan, in cui narro una vicenda moderna ricollegandomi e rivisitando in maniera nuova il mito di Ulisse-Odisseo. Così mi sono trovato a curare per una grande casa editrice la traduzione dei due maggiori storiografi latini, Tacito e Livio. Ero nel giro, quotato come traduttore, ma di un latinista-romanziere pareva che non avesse voglia nessuno. Poi, agli inizi degli anni Novanta, mandai un mio racconto al premio di narrativa Città di Monfalcone. Senza speranza perché c’era un forte premio in denaro e io pensavo che fosse già in qualche modo “prenotato”. Invece vinsi, il che non significa assolutamente nulla. Ma presidente della giuria era il triestino Bruno Maier, critico famoso e massimo studioso dell’opera di Italo Svevo. Dopo la premiazione mi chiamò in un angolo e mi disse: “Si coltivi, in lei c’è il talento del narratore di razza. Ha ancora tanto da imparare, ma si coltivi, appunto.” È nato, su questo stimolo, il mio primo romanzo Il delitto della contessa Onigo. E ho cominciato il giro degli editori. Ho scoperto che tutti i contatti che avevo come giornalista e come traduttore non servivano a nulla. In Italia ti rispondono sempre che non rientri nella loro linea editoriale. Espressione che nessuno, credo, sa bene cosa vuol dire, ma evidentemente serve a dire di no a chi cerca di pubblicare. Oggi si pubblica solo stando dentro ad una forza politica o ad un forte gruppo di pressione. Se il signor Tolstoj oggi mandasse ad un editore un romanzo dal titolo, dico a caso, Guerra e pace, e mettesse un capello tra pagina 4 e pagina 5, si vedrebbe, dopo anni e se gli va bene, restituire il manoscritto con una lettera in cui si parla di linea editoriale ecc. E tra pagina 4 e pagina 5 il signor Tolstoj ritroverebbe, inamovibile, il suo capello. A me nessuno però è mai riuscito a mettere la briglia. Poi -la cosa ha dell’incredibile- mi ha detto di sì la SantiQuaranta, una casa editrice della mia stessa città, piccola ma ormai molto affermata e voce importante a livello nazionale. L’inizio è stato questo. Ho tirato decine di migliaia di copie, ho vinto un premio importante, ne ho tratto una pièce teatrale di successo.
CHE CONSIGLIO DAREBBE ALLA GENTE CHE INIZIA A SCRIVERE E DESIDERA INTRAPRENDERE LA CARRIERA DI SCRITTORE?
Nessun consiglio. Ho raccontato con dovizia di particolari la mia vicenda per dire che bisogna aver fede nella propria chiamata a scrivere e nella parola scritta. Bisogna lavorare duro per delimitare il mondo che si vuole raccontare e per elaborarsi un linguaggio utile e adeguato. Bisogna leggere tanto “gli altri”. Io ho una predilezione per gli scrittori americani del Novecento e per gli europei dell’Ottocento. Soprattutto per i grandi narratori francesi: credo che la loro lezione sia insuperabile. La scrittura è un mistero grande, vertiginoso. Non lo si può affrontare sprovveduti. Certo ci sono scorciatoie e si può scegliere, per dire, di farsi propaganda nei talk show televisivi. Ma se mi metto a contare i bluff scoppiati in questi anni, non mi basta il pallottoliere.
QUAL È, SECONDO LEI, IL MOTIVO FONDAMENTALE PER IL QUALE UNO SCRITTORE ESERCITA QUESTA PROFESSIONE?
Lei dice bene, professione. Io andrei ancora più in là, parlerei di mestiere. E tutti i mestieri si possono fare in modo onesto oppure no. Non sto eludendo la sua domanda. Voglio dire che lo scrittore può portare un suo mattone onesto alla costruzione del mondo, aiutando i suoi contemporanei a decifrare meglio se stessi, la loro storia, i meccanismi che li collegano l’uno all’altro. Uno dei miei editori, che è anche un profondo indagatore degli enigmatici rapporti tra l’uomo e il mistero che lo circonda, dice che lo scrittore ha l’unico e irripetibile privilegio di collaborare alla creazione divina. Io, depositario di una piccola e zoppicante misura di fede, non la direi in questi termini. Ma resta il fatto che uno scopre in qualche modo di avere un mondo da proporre agli altri. Si convince che questa cosa può essere utile, può aiutare la sua contemporaneità e cerca di portare avanti questa sua proposta. Guardi poi che uno scrittore se li vede riconoscere per strada, questi suoi sforzi. Io le potrei raccontare di quel mio lettore che mi ha telefonato da Reggio Calabria (mai visto e conosciuto, chissà come aveva avuto il mio numero di telefono) che mi ha detto di essere un malato terminale di cancro e che un mio romanzo gli aveva fatto passare due giorni sereni. O le potrei dire delle associazioni per i non vedenti che mi telefonano per dirmi che hanno deciso di includere i miei libri nel loro repertorio di cassette registrate per renderli fruibili ai loro associati. Non è vero che la gente non legge, bisogna piuttosto proporre cose intelligenti, non ruffiane. Cose che i lettori sentano come una parte di sé, magari storie ruvide, perfino abrasive come faccio io. Lo scrittore che ha consapevolezza di ciò, sarà sempre umile e lavorerà sempre al meglio.
CHE INFLUSSO HA AVUTO, A LIVELLO PROFESSIONALE E PERSONALE, L’AMBIENTE IN CUI VIVE, NEL SUO CASO LA CULTURA VENETA ED IN PARTICOLARE TREVISANA?
Potrei dire semplicemente: non riuscirei a scrivere una riga distante dalla mia terra, dalle mie colline, dalle mie pianure, dai miei fiumi, dalle mie montagne. Poi se andiamo a vedere, scopriamo che il rapporto tra scrittore e ambiente è molto complesso, articolato, dialettico. Sa come è nato il mio ultimo romanzo, Il caso Pavan? Ho trovato per caso un vecchio scartafaccio in cui si parlava di un incendio nella centralissima prigione di Treviso, avvenuto nel 1740. Tutti i prigionieri vengono rilasciati per sfuggire alle fiamme e tutti si ripresentano qualche ora dopo, docilmente, a fuoco spento, ottenendo anche uno sconto di pena per la loro buona volontà. Si presentano tutti, meno uno, appunto il mio Tommaso Pavan: ho capito che scrivendo la storia di quell’uno che aveva scelto la libertà, avrei potuto raccontare il Settecento veneto come lo pensavo e come lo conoscevo. Un Settecento inedito, sconosciuto, magmatico, misterioso; insomma ho capito che quello era il romanzo che avevo dentro da sempre. Ma penso anche al mio teatro. Il mio ultimo lavoro per il teatro, Mato de Guera, racconta le vicende di Ugo Vardanega, cui regala la voce Gigi Mardegan oggi certamente il più grande attore vivente in lingua veneta. È un testo che parla degli orrori della prima guerra mondiale, quella che una bolsa retorica ha avuto il coraggio di chiamare Grande Guerra. Ugo proclama che non ci sono guerre grandi, ma solo guerre spregevoli, quelle che Erich Maria Remarque chiama il più antico disonore dell’uomo. Non avrei mai potuto scrivere un testo simile stando distante da qui, senza nutrirlo della memoria della mie genti e anche della parlata viva del dialetto. Qui, attorno a me, nella mia geografia quotidiana, era fronte di guerra, sul quale si sparavano, gli uni contro gli altri, inconsapevoli ragazzi italiani e austriaci. Il fronte passava sul Montello e sul Piave. I miei paesaggi di ogni giorno, fuori della porta di casa mia.
L’ARTE PUÒ AVERE UNA SUA UTILITÀ NELLA COSTRUZIONE DI UNA SOCIETÀ SANA?
Bisogna intendersi sul concetto di società sana. Lei definirebbe sana la società attuale in cui il venti per cento della popolazione mondiale divora e sperpera l’ottanta per cento delle risorse del pianeta, lasciando tutti gli altri abitatori della Terra a scannarsi per le briciole? Lei definirebbe sana una società che esalta i valori della globalizzazione senza riflettere che la globalizzazione è un dato meramente economico e che alla globalizzazione economica non corrisponde affatto una globalizzazione dei diritti civili e dei valori della persona come tale? Lei definirebbe sana una società in cui si muore dopo lo sballo settimanale? Lei definirebbe sana la società che attira i disperati sui barconi e poi li tratta come cose? Non voglio far prediche o, peggio, dei moralismi, ma ho la sensazione che a qualcuno questa organizzazione delle cose vada tutto sommato bene e per molti questa sia una società sostanzialmente sana. Basta guardare i modelli televisivi proposti ai nostri ragazzi. Allora per farla corta: l’arte (e, come scrittore, devo sottolineare in particolare la scrittura) ha un ruolo insostituibile. Deve parlare all’uomo dell’unico argomento che lo coinvolga e interessi davvero: l’uomo. L’arte ha la missione terribile di tenere alta la coscienza civile e di fondare un umanesimo basato sui valori della persona: tolleranza, pari dignità oltre la pelle e la religione, intelligenza, conoscenza, salute (anche fisica, certamente). Un ruolo altissimo che ci dice anche che l’arte non si può prostituire e non deve cedere a compromessi. Le dico la mia esperienza di scrittore che vive nel Nord-Est: oggi questa è terra di immigrazione. Sono presenti qualcosa come venti etnie diverse, attirate dal benessere diffuso. Ebbene fino a non molti anni fa erano i nostri paesi a svuotarsi e la gente partiva per la Svizzera, la Germania, le Americhe. I nostri genitori e i nostri nonni sono stati trattati peggio delle bestie. Gli extracomunitari siamo stati a lungo noi. Nessuno lo ricorda, in questo colpevole offuscamento della memoria indotto dal benessere. I soldi hanno la memoria corta. Ebbene, per me, contribuire a costruire una società sana significa anche ricordare ai miei ricchissimi conterranei i tempi in cui elemosinavano il centesimo, avevano i calzoni sfondati e andavano scalzi a dicembre e gennaio. Senza memoria non si va distante. Crede che per uno scrittore sia facile avere questo ruolo?
QUALI SONO I SUOI PROGETTI FUTURI?
Beh, io svolgo una intensa attività di conferenziere e tengo abitualmente laboratori di scrittura rivolti ai giovani. Naturalmente lavoro ad un nuovo romanzo (come sempre top secret fino al momento di chiudere il manoscritto), anzi a più storie che voglio raccontare. Scriverò presto ancora qualcosa per il teatro. E ho in cantiere molti progetti di scrittura. Spero vada in porto il progetto editoriale che mi porterà a tradurre La vita di san Martino, scritta dall’ultimo grande poeta della latinità, Venanzio Fortunato, che oltre a tutto è un mio conterraneo essendo nato a Valdobbiadene. Una traduzione complessa che esigerà un impegno durissimo dal traduttore, ma anche una vicenda bella come un romanzo. Un sogno per me: sarò traduttore e narratore nello stesso tempo.