PER RICORDARE SILVIO E PAOLO POZZOBON
È uscito per i tipi di Antilia Editrice LA MEMORIA DEI GIRASOLI, silloge degli scritti di Silvio e Paolo Pozzobon, due splendide figure. Ero particolarmente legato a Paolo, intellettuale a tutto tondo, insegnante, studioso. Personalità unica e inimitabile, dotato di profondità d’animo e d’intelligenza rarissime. Uniche anzi. Coinvolto dalla famiglia di Paolo, soprattutto dai fratelli Piergiorgio e Michele, ho dato una mano a selezionare, ordinare e sistemare il materiale. Sempre Piergiorgio e Michele hanno voluto affidarmi il compito di prefare il volume. Compito bello e arduo. Mi sono limitato a dire la mia ammirazione per Silvio, il mio amore per Paolo. Il libro è stato presentato venerdì 9 settembre 2016, ore 20.45 a Sant’Ambrogio di Fiera nel parco della villa Viola, ospiti di FRANCA TAMAI PIETROBON. Una location davvero suggestiva. Con me ha parlato il professor Eugenio Manzato, critico d’arte e a lungo direttore dei civici musei di Treviso. Il professor Manzato ha poi guidato una visita agli affreschi della villa.
Questo il testo della mia prefazione
SILVIO, PAOLO, GLI ALTRI
Un fatto è ora limpido e chiaro:
né futuro né passato esistono.
È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro.
Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono:
presente del passato, presente del presente, presente del futuro.
Queste tre specie di tempi esistono
in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove:
il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione,
il presente del futuro è l’attesa.
(Sant’Agostino, Confessioni XI, 20, 26)
La famiglia Pozzobon, in particolare Piergiorgio e Michele, mi ha affidato la prefazione di questa pubblicazione dedicata a Silvio e Paolo. La mia amicizia per Paolo è stata grande, ininterrotta. Nemmeno la sua morte terrena ha estinto la “corrispondenza di amorosi sensi”, come ebbe a dire un grande della scrittura dal cui universo era bandita l’esistenza di qualcosa oltre la terrena esperienza esistenziale. Eppure affascinato, soggiogato da questa “celeste dote”. Celeste e pur sempre misteriosa. Indecifrabile. Con Paolo la corrente è forte, inestinguibile.
Papà Silvio l’ho conosciuto in seconda battuta, grazie a Paolo. Sicché il mio rapporto con le pagine che seguono è duplice, in qualche modo contrapposto. Gli scritti di Silvio sono una rivelazione. Arguta e luminosa. Un uomo di una religiosità intensa, fatta anche di gesti esteriori. “Ogni volta che passava davanti ad una chiesa, mi ricorda Piergiorgio, si toglieva il cappello”. Non ho potuto fare a meno di pensare al mio, di papà. Tanti anni fa gli ho dedicato alcuni versi che ora mi tornano buoni come un paradigma: Il gesto anche / lento sussulta sotto le parole. / Pure il rito, padre, / è preghiera.
Quella di Silvio era una religiosità assoluta e assorta. Un affidarsi spontaneo e totale nelle mani e alle decisioni, spesso imperscrutabili, del Grande Regista della storia. L’esternazione, certamente non più attuale, di un atteggiamento profondamente radicato nell’anima. Ma autentico, oltre ogni dubbio. Non attuale, ma esemplare e magistrale. Quindi vivo e fruibile.
Una rivelazione, davvero. Un modo di pensare la propria esistenza. Di Silvio, attraverso le pagine del suo diario, ho subito il fascino di un modello di vita senza ipocrisie.
Invece, per quanto riguarda Paolo, nulla di ciò che ho letto mi risulta nuovo. Nemmeno gli inediti che mai avevo avuto modo di conoscere. Perché a disegnare il profilo della sua anima, è ciò che ho sempre amato e apprezzato in lui. La sincerità, la coerenza, la bontà, la generosità, la dedizione. E l’intelligenza, la capacità di osservare e visualizzare. Come dire: “io guardo, elaboro e poi propongo agli altri”.
Perché Paolo non si può pensare senza gli “altri”, senza il suo aprirsi di continuo a nuove relazioni, senza il suo dare come insegnante, come familiare, come uomo di cultura. Paolo è vissuto per gli altri, anche se questa dimensione orizzontale dell’esistere (che era complementare a quella verticale, e anzi la completava) lo ha bruciato in fretta.
Ho, netta, la sensazione che parlando di Paolo, illumino Silvio. E viceversa. Voglio rievocare.
***
Ho conosciuto Paolo nella seconda metà degli anni Sessanta. 1967, forse 1968.
Don Ernesto Soligo aveva organizzato, presso il Centro Studentesco di Treviso, una scuola serale per ragazzi e adulti che volevano prendere il diploma di terza media. L’insegnamento fu assegnato ad un manipolo di studenti come me. Don Ernesto ci chiamava, con qualche enfasi e molta ironia, insegnanti universitari, omettendo di mettere la virgola tra il primo e il secondo termine. Eravamo con tutta evidenza studenti universitari che arrotondavano magrissime finanze personali.
Del resto era scontato che gli allievi pagassero una tassa ridottissima e, nelle tasche di noi insegnanti finiva la somma (peraltro non miserabile, in quegli anni) di diecimila lire. L’abbonamento al treno e mezzo libro. Attrezzature zero, neanche i banchi quasi.
Per dire che era una scuola che allievi e insegnanti si dovevano inventare ogni sera, con fantasia. Con la mente fissa all’obiettivo da raggiungere. Li rivedo i miei allievi di allora (quanto ho imparato da loro!) con le mani rotte dai lavori in fabbrica e in officina. Le palpebre che cadevano. Ma motivatissimi. Dovevo escogitare di che appassionarli. Stavano lì, studiavano, tornavano a casa e si mettevano a fare quel po’ di compiti che riusciva loro. Mi confidavano che, durante la pausa pranzo, mangiavano con i libri e i quaderni davanti. Che bravi, che commoventi. Ci davamo tutti del tu, ovvio. La scuola tirò avanti forse per un lustro.
In quel contesto arrivò Paolo, ad anno scolastico iniziato. Mi fece cenno a motivi di salute e, per discrezione, non indagai oltre.
Se racconto queste cose è per dire che fare scuola in quelle condizioni era bellissimo, ma tremendamente difficile. C’era il ragazzino sprovveduto e c’era l’adulto che aveva il doppio dei miei anni. E, ripeto, non avevamo nulla. I libri di testo erano quelli che si potevano reperire in tutti i modi possibili. Ma non ce n’era uno che fosse uguale all’altro. Presi la decisione di arrangiarmi con qualche fotocopia e di puntare, più che su brani di prosa, su alcuni, collaudati testi poetici che erano comuni un po’ a tutti i libri. Insegnai anche ad andare in biblioteca. Curai la lettura di qualche importante opera narrativa. Ricordo due eroi (o due convitati di pietra) di quelle serate: Manzoni e Cervantes.
Ebbene, Paolo si impose subito. Discreto, silenzioso. Ma intelligente (oh, che divina intelligenza) e ogni sua osservazione era puntuta. Acuminata come uno stiletto. Otteneva l’effetto di completare la mia lezione, indirizzare, stimolare. Sorrideva e diceva cose sensate, pertinenti. Si capiva che veniva da una famiglia modesta ma ricchissima di stimoli e suggestioni. Presto conobbi (in una situazione didattica che non contemplava certo i rapporti scuola-famiglia) l’affabile, simpaticissimo papà Silvio.
Paolo era stimato e amato dai compagni. Si esprimeva splendidamente e, già allora, la sua scrittura era tersa e, insieme, densa e corposa. I suoi temi diventavano oggetto di discussione. Se c’era uno che, nell’opinione comune, avrebbe fatto sfracelli agli esami era lui. E infatti sbancò tutti, lasciò pieni di ammirazione i commissari.
Negli anni a seguire, nel mio insegnamento universitario e nei licei, ho avuto allievi straordinari, geniali e bravissimi. Che poi nella vita hanno raggiunto traguardi di eccellenza. Ma Paolo è rimasto unico. Mi sono chiesto spesso perché. Mi sono dimenticato di dire che siamo diventati amici fraterni, che ho preso a frequentare la famiglia, che annovero tra i miei sodali tutti i fratelli e anche il marito della sorella Lucia, Walter alla cui festa di nozze, presso il Gambrinus, ho partecipato.
L’unicità di Paolo. Mi sono risposto che Paolo era corpo e anima. Ma anche aura. Un’aura di grandezza e purezza che gli stava attorno e che era percepibile anche fisicamente. Bastava che aprisse bocca o sorridesse. Un’aura che lo rendeva metafisico e, insieme, intangibile.
Credo davvero che Paolo sia stato (e continui ad essere, ben vivo e presente, nell’anima di chi lo ha conosciuto) un santo. Intriso di quotidiano e, vorrei dire, perfino di banale. Nelle piccole cose, nei piccoli eventi, nei ripetuti atti di rapporto umano. Non un santo perduto in lontane nebbie luminose. Piuttosto un santo che cammina, parla, insegna. Un profeta, un inviato, un apostolo.
Dopo gli esami di terza media mi chiese che fare. Io gli dissi: “Paolo, uno come te non può tenersi tutta per sé la ricchezza interiore che possiedi. Devi insegnare”.
Paolo scelse di diventare maestro elementare. Una mattina, aprendo il quotidiano, lessi di Paolo Pozzobon (attendevo quella notizia) che era diventato maestro col massimo dei voti, sessanta su sessanta. Aveva affrontato gli esami da privatista. E un privatista che raggiunge il plenum di consensi è cosa più unica che rara. Poi il concorso magistrale, superato ancora alla grande.
Il fatto è che Paolo, nei primi dieci secondi, conquistava ogni nuovo interlocutore. Ti faceva una trasfusione di grandezza (chiedo perdono per la metafora di basso profilo), ti comunicava i suoi spazi interiori e tu eri indotto ad esplorarli.
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Maestro elementare. Quale segno abbia lasciato è perfino impossibile dire. Buona semina, solchi profondi nelle anime.
Egle, mia moglie, è stata a lungo sua collega a San Siran, in quel di Roncade. Anche lei ha amato Paolo. Anche lei ha pianto quanto le notizie sulla sua salute non regalavano neanche più un briciolo di speranza. Mi dice Egle: “Non gli ho mai sentito pronunciare una malaparola su qualcuno. Per lui era naturale vedere il positivo (magari microscopico e invisibile agli altri) in ogni evento e in ogni situazione. E faceva esplodere quel minimo bene, lo valorizzava, lo amplificava”.
Aggiunge sommessamente Egle: “Qualche volta era perfino disarmante. Direi anche ingenuo se questa parola non avesse connotazioni negative. Ma, anche nell’impeto di un disaccordo o di una contrapposizione, lui ti obbligava a confrontarti sulla possibile soluzione, sulla pacificazione di tesi opposte”.
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Intangibile, ho detto. Non certo nel corpo.
La vita di Paolo è stata un calvario. Ricordo una mia visita all’ospedale di Padova, in uno stanzone enorme, con moltissimi altri malati. Ancora studente io, ragazzo lui.
Ero reduce da una lezione al Liviano e avevo attraversato a piedi la città. Lui si preoccupò per la mia stanchezza. Non posso dimenticarlo. Sapevo che soffriva molto, che la patologia era grave. E si preoccupò per me. Mi trema una lacrima anche ora, mentre lo scrivo, a tanti, tantissimi anni di distanza. Quando mi vide cercarlo con gli occhi in corsia mi chiamò, agitando piano il braccio. Fu felice, non stupito.
Chi leggerà questo libro apprenderà la sua accettazione della malattia. Il suo guardare alla morte. Non credo sia possibile leggere senza provare emozione e coinvolgimento profondi. Quando il responso dei medici lo colpì senza speranze disse: “Accade agli altri. Perché non dovrebbe accadere anche a me?”
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Piergiorgio e Michele, suoi fratelli, mi hanno coinvolto nel progetto di questo libro. Li ringrazio. Mi hanno chiesto un parere generale sull’operazione. Ho avvertito subito che dovevo dare di più, mettere a servizio della pubblicazione la mia esperienza e la mia professionalità.
Non parlo di Paolo uomo di cultura. Ci sono i suoi libri a raccontarlo. L’amore per la sua terra e la sua comunità. La sua squisita sensibilità estetica (che esempio memorabile la lettera al nipote Giovanni, proposta in queste pagine).
Preferisco dire che i testi di Paolo trascritti per questa pubblicazione, sono di altissimo livello, da abisso metafisico talora. Richiamano sant’Agostino. Anche nel dolore (vedi lettere) sa distribuire gioia, serenità, equilibrio. Mi sono commosso davanti all’affetto e alla stima che traspaiono dalla pagina che ha dedicato a me ed Egle.
Non ricordavo (me ne dispiace) l’incontro di cui parla in quella pagina, e anche ora non riesco a mettere bene a fuoco. Mi ha permesso peraltro di ricordare che, probabilmente in conseguenza di quel colloquio, io ho elaborato un presepio in tema. Ho distribuito le statuine della natività sulla tastiera di una macchina da scrivere a mo’ di scalinata che ascende alla mangiatoia del divino bambino. E, nel rullo della stessa macchina da scrivere, ho inserito un foglio con la frase del vangelo giovanneo: il verbo che diventa carne. Anche per questo, grazie Paolo.
Non si possono reggere le pagine “della morte che arriva”. Straziano. Hanno una forza sovrumana. Sì, Paolo è un santo che Dio ha consumato in fretta perché il fuoco della santità divora. Ci si sente piccoli, schiacciati dal confronto. Ripeto: io non ho retto e ho pianto.
Paolo comunica gioia anche nel momento del dolore. Scrive agli altri. Consola, consiglia, richiama. Mai emergono il suo soffrire e il suo travaglio.
Che incredibile mix. Da una parte l’attaccamento alla gioia di vivere, alla bellezza delle cose terrene. Dall’altra la serena, profetica, aurorale attesa dell’attimo ultimo. Mi dico: ora Paolo sta contemplando nello splendore della luce assoluta i santi che ha ammirato nelle opere dei grandi artisti. La mia fede è povera, poverissima cosa. E mi consola trovarmi in compagnia di questi pensieri. Che alludono alla grande scommessa di cui parlava Pascal, alla speranza che attraversa e innerva la cultura cristiana.
Mi piace, aggiungo, questa scelta di mettere Paolo accanto, nel nitore della pagina scritta, al padre Silvio. I valori si tramandano e i terreni su cui attecchisce il buon seme si preparano in anni lunghi. La trasmissione del DNA potente dell’altruismo e della donazione di sé è patrimonio irripetibile e peculiare. Implica una pazienza che sa di progettualità e di fiducia nel destino eterno. C’è qualcosa di divino in tutto questo.
Di provvidenziale.
Prego a mezzavoce pensando all’esile, traballante fiammella della mia fede: “Paolo sii mio ponte, sii mio scudo, sii mio lasciapassare”. Facendo mie le parole del salmista, aggiungo: “Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”.
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Di Silvio conservo alcuni ricordi nitidi. Alto e sorridente in fondo al corridoio della sua casa, a Fiera. Era l’ospitalità fatta parola. Il suo sorriso diceva: “Entra, sei ben accetto, dividi con noi la gioia dello stare assieme”. E quella volta che, con Paolo, venne a trovarmi a casa dove trascorrevo la mia convalescenza dopo un lungo ricovero in ospedale. Era una domenica pomeriggio. Mi portò una scatola di cioccolatini. Rivedo ancora l’azzurrino della stagnola targata Perugina. Scartammo un cioccolatino a testa e ridemmo della fatua ingenuità delle frasi sull’amore scritte all’interno. Silvio commentava con ironia, ci strappò delle risate. Era bonario, profondo, di spessore. Anche nelle fragili conversazioni di una occasione come questa.
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Ho conosciuto e profondamente apprezzato Silvio. Ho amato e amo Paolo. Tra padre e figlio sento una corrente forte di continuità, un travasarsi di valori e un alimentarsi reciproco.
Sento il privilegio di aver lavorato a questo libro.
Sento il privilegio di essere stato amico di Paolo. Sento il dolce, ma impegnativo fardello di custodirne la memoria e l’esempio.
Resta con noi Paolo.