(Paradiso XXIII, 73)
6 MAGGIO 2014
DANTE ALIGHIERI DI TREVISO /
AULA MAGNA DEL LICEO DUCA DEGLI ABRUZZI
di
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
Credo che pochi temi si prestino a variazioni e divagazioni come quello della rosa. Viene subito in mente il Roman de la Rose, il poema allegorico di 21.780 octosyllabes (simili al novenario italiano) rimati. Misterioso perché scritto in due parti distinte, da due diversi autori e a distanza di 40 anni. L’opera fu iniziata da Guillaume de Lorris nel 1237e compiuta da Jean de Meung tra il 1275 e il 1280. Successo enorme. Il poema racconta un sogno che è allegoria, ovviamente. Il poeta si sveglia un mattino di maggio -la primavera è la stagione dell’amore- e si addentra in un giardino meraviglioso dove, attraverso lo specchio di Narciso, vede riflessa la rosa di cui si innamora. Tutto il poema narra allora delle imprese dell’amant per conquistare la rosa, allegoria della donna amata. Lo favoriscono o lo ostacolano le personificazioni dei suoi sentimenti, l’Orgoglio, la Vergogna, il Pudore… Alla fine, con l’aiuto di Venere egli riesce a penetrare nel castello e a consumare l’atto d’amore. Opera notissima a Dante Alighieri cui sono attribuiti anche due scritti ispirati al Roman: Fiore (una sorta di lettura in compendio composta da 232 sonetti) e Detto d’Amore (un poemetto di 480 settenari, incentrato sull’amor cortese).
La rosa è fin dalla lirica greca di VII e VI secolo avanti Cristo, uno dei temi fondamentali della poesia erotica. Con allusione alla donna, all’amore e, in ultima analisi, all’organo sessuale femminile.
Molti sono i colori ai quali l’arte
varia il tuo incanto o la natura. In me,
come il mare è turchino, esisti solo,
per il pensiero a cui ti sposo, rossa.
Così Umberto Saba in Variazioni sulla rosa. La rosa rossa allude ad un amore sensuale. Da sempre.
E così Guido Cavalcanti nella sua Fresca rosa novella, in cui trova campo la bellezza femminile assolutizzata fino alla dimensione angelica. Perché la donna è primavera, che richiama sì l’aura angelica ma non ottunde od offusca il desiderio.
Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando
…
Angelica sembranza
in voi, donna, riposa:
Dio, quanto avventurosa
fue la mia disïanza!
Ancora. Francesco Petrarca, nel componimento 245 del Canzoniere, un sonetto.
Due rose fresche, et colte in paradiso
l’altrier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono, et d’un amante antiquo et saggio,
tra duo minori egualmente diviso
con sí dolce parlar et con un riso
da far innamorare un huom selvaggio,
di sfavillante et amoroso raggio
et l’un et l’altro fe’ cangiare il viso.
- Non vede un simil par d’amanti il sole -
dicea, ridendo et sospirando inseme;
et stringendo ambedue, volgeasi a torno.
Cosí partia le rose et le parole,
onde ‘l cor lasso anchor s’allegra et teme:
o felice eloquentia, o lieto giorno!
E nel sonetto seguente
L’aura che ‘l verde lauro et l’aureo crine
soavemente sospirando move,
fa con sue viste leggiadrette et nove
l’anime da’ lor corpi pellegrine.
Candida rosa nata in dure spine,
quando fia chi sua pari al mondo trove,
gloria di nostra etate? O vivo Giove,
manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine:
…
Nell’iconografia della mistica cristiana la rosa, leggo in wikipedia, per la bellezza, il profumo, per il mistero della sua forma apprezzata da tempo immemorabile e per il colore per lo più rosso, il simbolo antichissimo dell’amore, indica la coppa che raccolse il sangue di Cristo o la trasformazione delle gocce di questo sangue o le ferite di Cristo stesso. A questa simbologia appartengono sia la coppa del Graal sia la rosa celeste (rosa candida) della Divina Commedia di Dante. È ricordata anche la rosa mistica delle Litanie della Madonna. Nel Medioevo la rosa era esclusivamente attributo delle vergini. Una rosa a cinque petali nel nimbo, sopra il confessionale, è il segno della discrezione.
I rosoni delle finestre romaniche e gotiche sono in relazione con la simbologia astrale del cerchio… Non di rado vogliono ricordare l’armonia platonica delle sfere: la rivoluzione celeste dei pianeti o dei segni dello zodiaco col loro influsso sulla vita dell’uomo. Inoltre spesso fanno riferimento a Cristo, il sole della giustizia. Quando i rosoni circondano il monogramma di Cristo, il segno del sole eterno, essi affermano la speranza nella vita eterna, nella città celeste.
Dante usa il termine intanto in senso proprio, per indicare il fiore:
Come in Rime CIV 21, in cui la donna
…’n su la man posa
come succisa rosa.
O come in Convivio IV XXVII 4
…conviensi aprire l’uomo quasi com’ una rosa che più chiusa stare non puote.
Nella Divina Commedia le occorrenze del termine rosa (8) / rose (3) sono in tutto 11. Da aggiungere un rosata di Pg XXX, 23 quando Dante ci descrive, con bellezza assoluta e disarmante, un cielo mattutino:
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
…
Da notare che le otto occorrenze al singolare (rosa) sono tutte nel Paradiso. Nessuna occorrenza in assoluto nell’Inferno. E magari vuol dire qualcosa.
La prima occorrenza in Pg XXIX, 148.
E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.
Dante sta assistendo alla processione nel paradiso terrestre e gli passano davanti sette personaggi:
Luca, come autore degli Atti degli Apostoli, Paolo come autore delle Epistole, Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, autori delle Epistole cattoliche, ancora Giovanni, autore dell’Apocalisse. La ghirlanda (brolo) di fiori sul loro capo è rossa. Traducendo dall’apparato allegorico quel rosso significa la legge d’amore del Nuovo Testamento.
L’altra occorrenza purgatoriale è in XXXII, 58. Sempre nel paradiso terrestre. Il grifone, immagine del Cristo, lega il carro all’albero del bene e del male. È il figlio di Dio che riconcilia l’umanità col padre grazie alla mediazione della Chiesa. Dice il poeta in lunga e articolata similitudine: come gli alberi della terra , a primavera, quando si irradia la grande e feconda luce del sole congiunta alla costellazione dell’Ariete, si gonfiano di linfa e poi ciascuno rinnova i colori dei propri fiori, così la pianta che prima aveva rami così spogli, si rinnovò con fiori di un colore meno acceso delle rose e più acceso di quello delle viole.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ‘l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
Difficile dire cosa sia quel colore intermedio tra rosa e viola. Forse la porpora imperiale, forse il sangue del Cristo versato per la redenzione. La seconda è la convincente interpretazione del Porena.
Ed entriamo in Paradiso. Canto XII, verso 19, quarto cielo, seconda corona degli spiriti sapienti. Le due corone insieme sono fatte di rose mai destinate ad appassire e pertanto eterne. Dunque ancora la rosa non in senso proprio ma come immagine.
…
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Il canto successivo, XXIII, 135. Parla san Tommaso ed esorta l’umanità. Non siano gli uomini troppo sicuri nel pronunciare giudizi, non abbiano la sicurezza del contadino che calcola come sarà la messe prima ancora che maturi. Prova e controprova: “Ho visto d’inverno un pruno secco e spinoso e poi a primavera l’ho visto far sbocciare la rosa sulla cima. Ho visto una nave correre sicura per tutto il viaggio e poi fare naufragio proprio davanti al porto.”
Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;
ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima;
e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a l’intrar de la foce.
In Pd XXII (56) Dante risponde a San Benedetto -siamo nel settimo cielo- e gli dice che il benevolo atteggiamento con cui è stato accolto ha aumentato la sua fiducia. La invitante espressione dipinta sul volto del santo lo ha fatto sbocciare, così come il sole fa sbocciare la rosa.
E io a lui: «L’affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così m’ha dilatata mia fidanza,
come ‘l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.
La rosa che esprime tutte le sue potenzialità alla luce della grazia.
Ed ecco i versi che ho scelto per titolare questa conversazione. Canto XXIII (73), ottavo cielo, il cielo delle stelle fisse.
«Perché la faccia mia sì t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo s’infiora?
Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino».
Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de’ debili cigli.
Beatrice rimprovera affettuosamente Dante. Il fatto che lui la guardi innamorato non lo deve distogliere dall’ammirare la molteplicità infinita delle visoni paradisiache. Qui è Maria, nel cui grembo si incarnò il Cristo. Il clima è rarefatto, grandioso, sospeso.
E Dante lavora di enorme mestiere, a sua volta rapito e stordito. Mette insieme le litanie (Maria è rosa mistica) e la carnalità della gravidanza che ha salvato il mondo. È uno dei passaggi altissimi del poema.
Che introduce alla rosa celeste, nell’Empireo. Dante vede una fiumana di luce folgorante. Ne scaturiscono gli angeli, simili a scintille che si posano sui fiori delle rive (sono i beati, immaginiamo di trovarci in un enorme anfiteatro in continua, brulicante, tumultuosa mutazione) e poi tornano nel fiume folgorante. Poco a poco il fiume di luce assume forma circolare. Una rosa immensa che si allarga sempre più fino alle ultime foglie che sono i seggi dei beati.
Dante non si smarrisce. La rosa è ampia, dilatata in tutte le direzioni, ma lui, ormai cresciuto nelle sue potenzialità morali e intellettuali, riesce a percepirla nella sua infinita complessità, nella sua incredibile varietà. Siamo nell’Empireo e qui Dio governa direttamente, la legge naturale non esiste, parlare di distanza (e anche di tempo) non ha senso.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ‘l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse:
….
Dante ci racconta, come solo lui sa fare, che siamo nell’eterno e nell’infinito. È il canto XXX (117 e 124),
La descrizione diventa coreografia in tre dimensioni nell’incipit del canto seguente, il XXXI. Si celebrano le nozze di Cristo e della Chiesa, dunque l’abbraccio di Dio che racchiude l’umanità.
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ‘nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape che s’infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ‘l süo amor sempre soggiorna.
Si noti quel poderoso accenno all’ape che torna all’alveare per depositarvi (Dante dice: farvi prendere sapore, addirittura delizioso) il frutto del suo lavoro. Non è casuale: qui urgono la terra, la vita degli uomini con i loro problemi. Serve ricordarlo. Le api non sono solo angeli, sono cibo, fame, dolcezza, lavoro, organizzazione, rumore, spazio percorso, pazienza infinita. Similitudine più pregnante non sarebbe possibile. E del resto Dante lo ha appreso bene dall’opera del suo maestro, Virgilio. L’Eneide e il famoso quarto libro delle Georgiche.
Le ultime due occorrenze nel penultimo canto, il XXXII (15 e 120).
Ancora per elencare qualcuno nell’immensa folla dei beati che popola la rosa. È san Bernardo a indicare.
Ecco Eva, Rachele, Sara, Rebecca, Giuditta. E Ruth, la bisavola di Davide.
Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
con Bëatrice, sì come tu vedi.
Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
del fallo disse ‘Miserere mei’,
puoi tu veder così di soglia in soglia
giù digradar, com’ io ch’a proprio nome
vo per la rosa giù di foglia in foglia.
E poco più in là, quasi sulla soglia dell’ultimo atto, quello dell’entrata nel mistero divino.
Bernardo mostra Adamo, il progenitore di coloro che hanno creduto in Cristo Venturo, e san Pietro. Li si potrebbe definire le radici della rosa stessa.
Quei due che seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Agusta,
son d’esta rosa quasi due radici:
colui che da sinistra le s’aggiusta
è il padre per lo cui ardito gusto
l’umana specie tanto amaro gusta;
dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
La rosa, insomma in tutti i suoi petali, con le sue spine. Le radici che non solo la nutrono ma anche la motivano e gli insetti che vi ronzano attorno.
Una pluralità inestricabile di significati, in diacronia e sincronia.
Però, proprio per questo, dirvi bene e compiutamente cosa sia una rosa, dal punto di vista letterario, non saprei e non so.
Proprio per questa mia incapacità, permettetemi qualcuna delle variazioni di cui dicevo. Magari metto un po’ più a fuoco.
Nel 1486, o giù di lì, Lorenzo de’ Medici compose un poemetto bucolico, il Corinto che canta l’amore non corrisposto del pastore Corinto per la ninfa Galatea. Galatea è Lucrezia Donati, gentildonna fiorentina amata da Lorenzo dei Medici. Non c’è più la campagna ruspante della Nencia da Barberino. Anzi, siamo all’idillio. Ai versi 163-185 Lorenzo parla del nostro fiore. È l’orto di Corinto su cui il pastore posa il suo sguardo.
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega;
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:
altra più giovanetta si dislega
apena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega:
altra cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d’un’ora.
Le bellezza, aggressiva e struggente, che dura pochissimo.
Gli fa eco Poliziano in I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.
I’ posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre’ dir quant’eran belle:
quale scoppiava della boccia ancora;
qual’erano un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: -Va’, cò’ di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino.
Dunque bisogna scegliere. La rosa più rosa, per così dire, è quella che, nel brevissimo acme della sua esistenza, esprime tutta la sua bellezza. E dopo la scelta
Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché, fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.
E Ariosto, malizioso. Canto I del Furioso (42 e 43). Il rude Sacripante piange al pari di altri la perduta Angelica. La verginella, come la rosa, si conserva “sicura” sulla nativa spina per pochissimo tempo. Fino a quando, rimossa dal suo stelo, perde ogni attrattiva.
La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ‘i fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.
E il celebre passaggio della Liberata tassiana (XVI, 14-15). Nel giardino di Armida, un pappagallo pronuncia l’elogio alla rosa.
– Deh mira – egli cantò – spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.
Così trapassa al trapassar d’un giorno
de la vita mortale il fiore e ‘l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su ‘l mattino adorno
di questo dì, che tosto il seren perde;
cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando.
Facciamo fatica a distinguere significato e significante. La rosa e la donna di cui è immagine. È già la dolente, sensuale sensibilità barocca. Afferma il senso della vanità della vita e della fuggevolezza del piacere.
Gian Battista Marino nell’Adone ripropone il mito che attribuiva il rosso della rosa alla ferita di Venere ad opera di uno spino e al sangue che essa versa sui petali del fiore. La dea si innamora di Adone (III 156-157).
Rosa, riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell’odorifera famiglia;
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de’ fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda;
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d’intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
porti d’or la corona e d’ostro il manto.
E, un’ottava più in là (III 159) la rosa è sole in terra, come il sole è rosa in cielo.
Non superbisca ambizïoso il Sole
di trionfar fra le minori stelle,
che ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle.
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu Sole in terra ed egli rosa in cielo.
E solo la donna che abbia gote e labbra color della rosa potrà dirsi davvero bella (III 161).
E perch’a me d’un tal servigio ancora
qualche grata mercé render s’aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual donna più bella il mondo onora
io vo’ che tanto sol bella sia detta,
quant’ornerà del tuo color vivace
e le gote e le labra…
Chiudo.
Lo faccio con un omaggio a Fabrizio De André in cui il tema della rosa spazia tra la sensualità mercenaria di Bocca di Rosa e la vita caduca e fragile di Marinella.
La chiamavano Bocca di Rosa
…
metteva l’amore sopra ogni cosa.
Appena scese alla stazione
del paesino di Sant’Ilario
tutti si accorsero con uno sguardo
che non si trattava di un missionario.
C’e’ chi l’amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
Bocca di Rosa né l’uno né l’altro
lei lo faceva per passione.
Oppure.
Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.
Certo De Andrè ha in mente Guido Gozzano quando ricorda l’adolescenziale amore per una cocotte:
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi.
Il che non risolve il nodo misterioso del simbolo.
Per tornare ai tempi di Dante, proviamo ad approdare nel 1327 (sei anni dopo la morte del poeta) in una abbazia benedettina dell’Italia del Nord. Raccontandocela, Umberto Eco dice esplicitamente (ma anche furbescamente) di non saper bene perché ha intitolato Il nome della rosa il suo primo romanzo. Tuttavia nell’ultima scena del film girato da Jean-Jacques Annaud, il novizio Adso da Melk, interpretato da Christian Slater, esclama di non conoscere il nome della rosa che ha amato furiosamente e convulsamente nelle cucine dell’abbazia. “Ma, ora che sono molto, molto vecchio, mi rendo conto che di tutti i volti che dal passato mi tornano alla mente, più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo. Eppure, dell’unico amore terreno della mia vita non avevo saputo, né seppi mai, il nome.”
Una rosa, è una rosa, è una rosa, scrisse tautologicamente Gertrude Stein nel 1913 nel suo poema Sacred Emily. Non una banalità, ma la ricerca di forme assolute in un’epoca che sembra non rispettare nulla. Il fatto è che è difficile raccapezzarsi. Il verso della Stein è citato da Charlie Chaplin nel film Luci della ribalta (1952), da Aldous Huxley, in The Pink Locust di William Carlos Williams (1955), nel musical di Broadway Bye Bye Birdie scritto da Michael Stewart, Lee Adams e Charles Strouse (1960, adattato a film nel 1963 film). La rock band Henry Cow nel suo album di esordio canta una canzone ispirata a questo verso. Come il gruppo spagnolo flamenco-pop Mecano intona in coro Una rosa es una rosa es una rosa (1991, nell’album Aidalai).
Insomma, da tutte le parti e riverberato da mille echi mi sento ripetere che la rosa è una rosa.
E più in là non si va.
Ma se una rosa è una rosa finisco per saperne ancora meno.
E mi vedo costretto a dar ragione a un grande poeta come Giorgio Caproni che ci esorta con questi versi di Concessione, lirica che appartiene a una sua silloge del 1991, Res Amissa.
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
Cos’è, nella sua essenza, una rosa.