Così la Tribuna Illustrata rappresentò il delitto di Teodolinda Onigo nella sua tavola di prima pagina
Il poster per la rappresentazione a Treviso della pièce teatrale tratta dal romanzo Il delitto della contessa Onigo nel giorno centenario del delitto, l’11 marzo 1903. L’evento è stato ripreso dal quotidiano Il Gazzettino che gli ha dedicato tre pagine in tre giorni successivi
LINDA ONIGO,
UNA DONNA SOLA
Col mio romanzo Il delitto della contessa Onigo ho riaperto un caso che dormiva da secoli.
Nel giugno del 2014, a quasi venti anni dalla pubblicazione del romanzo, grazie alle Opere Pie di Onigo e all’architetto restauratore Fiorenzo Bernardi, è stato riportato all’antico splendore il tempietto che ospita le spoglie mortali di Caterina (Caterina o Catterina, con doppia “t”? Nel testo che segue spiego anche questo) Jaquillard Onigo, di suo marito Guglielmo Onigo, della loro figlia Zenobia Teodolinda Costanza Onigo.
Nell’occasione sono state riesumate le tre salme.
Con molta commozione e qualche grande sorpresa.
Per ricordare l’evento è stato edito il libro IL DONO DI CATTERINA (EDIZIONI TERRA FERMA delle GRAFICHE ANTIGA, curato da Fiorenzo Bernardi, con un mio scritto (che qui viene riportato integralmente), con una breve nota sugli Onigo di Gabriele Farronato. Il libro è aperto dalle presentazioni di Albino Bistacco, presidente delle Opere Pie di Onigo, di Marco Turato, sindaco di Pederobba, di Caterina Griffante, pastora della chiesa valdese di Venezia, Mestre e Conegliano.
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11 marzo 1903: poco dopo le 16 il contadino di Trevignano Pietro Bianchet uccide con due colpi di scure la sua padrona, la contessa Zenobia Teodolinda Costanza Onigo. Lo scenario è quello di villa Onigo, a due passi dal centro di Treviso e in riva al Sile.
12 marzo 1904, giusto un anno dopo: la corte di Assise di Venezia emette la sua sentenza, dopo alcuni giorni di un processo concitato e molto partecipato dalle genti venete.
Un dibattito serratissimo durante il quale non mancarono i colpi di scena.
Del delitto e del processo si interessarono i giornali di tutto il mondo. Le gazzette venete dedicarono agli eventi la prima pagina e titoli su tutte le colonne. Furono impegnati disegnatori e ritrattisti. I quotidiani del tempo, per lo più quattro fogli, erano molto tetri. Grafica e titolazione erano poco curate. Prime pagine con una o più immagini erano una rarità.
La Stampa di Torino (la Onigo era di fede valdese e la Val Pellice, che dei Valdesi è la roccaforte, si trova proprio in provincia di Torino) ne diede notizia nonostante i termini della sentenza fossero giunti poco prima della chiusura del giornale (nella concitazione il nome della vittima viene scritto con graffia errata): “Ci telegrafano da Venezia, 12 (cioè 12 marzo), ore 23 e 30: stasera è terminato il processo per il delitto della contessa Orrigo. I giurati esclusero la premeditazione, ammettendo la provocazione grave e concedendo le circostanze attenuanti. La Corte ha condannato il Bianchet a otto anni e nove mesi di reclusione. La folle fece una dimostrazione all’accusato. Si eseguirono alcuni arresti”.
Il settimanale diocesano La vita del popolo (controcorrente rispetto all’opinione popolare che era tutta dalla parte dell’assassino, come sottolinea anche il breve lancio stampa del quotidiano torinese) commentò acido: “Noi siamo rimasti addirittura stomacati e avviliti al notare il contegno ributtante di molta parte del popolo veneziano che rumoreggiava durante il consiglio dei giurati e poi, dopo la condanna accompagnava il Bianchet sulle barche gridandogli Evviva. Come? Evviva gridate ad un uomo, sia pur stato eccitato quanto si voglia, che s’è macchiato del sangue di una signora, più che malvagia, affetta da mania? Via, canaglia!”.
Nessun moralismo, al contrario, tra la gente.
In compenso, un po’ di sano cinismo. In entrambe le occasioni le cabale ricavarono dalle vicende vari numeri e, davanti ai botteghini del lotto, i Trevisani fecero la fila.
La sintesi più fulminante la diede, subito dopo il delitto, un sensale di cavalli, al bar della Stella (è la zona dell’attuale trevisana Piazza Borsa, a due passi dal palazzo Onigo): “Mal morta ma ben copada”.
Il cronista del Gazzettino gli era casualmente accanto, colse al volo la feroce battuta e il giorno dopo ne trasse addirittura il titolo.
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1903-1904, un biennio di quell’Europa e di quel mondo che correva a precipizio verso la prima guerra planetaria. Quella che la bolsa retorica patriottarda ha consegnato all’immaginario del popolo italiano con l’etichetta di Grande Guerra. Come se le guerre non fossero tutte piccole, non fossero sempre e comunque il più antico disonore dell’uomo, per dirla con Erich Maria Remarque.
Disonore, certo: votati a diventare inconsapevole e strumentale carne da cannone nell’ormai prossimo conflitto, erano i miserabili diseredati che tanta parte hanno in questa vicenda.
Il secolo era iniziato nel modo più tragico e minaccioso in tutto il mondo, dalla rivolta cinese dei boxer ai conflitti attorno al canale di Panama. I luoghi di Bianchet e della Onigo, la Val della Piave e i monti circostanti, di quella guerra furono il teatro sul suolo italiano.
Il 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci, di professione filatore di seta come il manzoniano Renzo Tramaglino, uccide a Monza re Umberto di Savoia con tre colpi di una pistola di piccolo calibro. Due proiettili a segno, uno a vuoto. Qualche istante prima di essere ammazzato, Umberto aveva detto al generale Ponzio Vaglia che gli sedeva vicino: “Era molto tempo che non assistevo in mezzo al mio popolo ad una dimostrazione di simpatia così cordiale”.
Furono le ultime parole che pronunciò, emblema e paradigma perfino imbarazzanti di una grande illusione.
La vecchia Europa stava per essere travolta e i suoi governanti pensavano ad una ottimistica
eternazione dello status quo. Cioè l’assetto sociale che aveva trionfalmente celebrato nell’Expo di Parigi le indefettibili magnifiche sorti e progressive (come direbbero Giacomo Leopardi e Terenzio Mamiani) dell’umanità. Chissà se durante i suoi viaggi parigini Linda aveva mai visitato i luoghi della fiera mondiale. La grande illusione. Perché, paradossalmente, questi sono tempi di rigoglio intellettuale e scientifico.
Per restare solo nel campo della scienza, in questo biennio Michail Tswett (italiano, naturalizzato polacco) inventa la cromatografia per adsorbimento, fondamentale per separare e identificare le sostanze organiche; Valdemar Poulsen realizza il generatore ad arco per radiocomunicazioni, aprendo la strada alla rivoluzione mediatica del secolo; William Ramsay scopre l’esistenza dei gas cripto e xeno nell’atmosfera; Erik Ivar Fredholm, un matematico svedese, mette a punto la teoria delle equazioni integrali; i due grandi fisici inglesi Ernest Rutherford e Frederich Soddy formulano la teoria generale della radioattività; John Ambrose Fleming brevetta il diodo; Julius Elster inventa la cellula fotoelettrica.
E vale proprio la pena di ricordare che il 17 dicembre 1903 Orville e Wilbur Wright, due costruttori americani di biciclette (molto in voga il velocipede: nel luglio del 1903, per iniziativa di un ex avvocato parigino, Henri Desgrange, parte il primo Tour de France) fecero alzare nella cittadina di Kitty Hawk, un ventoso villaggio di pescatori del North Carolina, il primo apparecchio meccanico volante con pilota a bordo.
L’alba radiosa di una nuova epoca, l’ultimo luminoso secolo del secondo millennio. Una rivoluzione. Ma queste invenzioni avrebbero trovato di lì a poco l’applicazione più orribile che un uomo possa fare della sua capacità e della sua intelligenza: la guerra.
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Nei giorni e nei mesi della grande illusione di inizio secolo, il Veneto di Linda Onigo e di Pietro Bianchet è fermo al medioevo.
La Onigo è la grande feudataria. Solo per stare nella piccola patria di Bianchet, l’intera Trevignano le appartiene tutta. Uomini, case, animali. Le strade e le canalette dell’acqua derivata dalla Brentella.
Il 3 novembre 1903 il piemontese Giovanni Giolitti succede al bresciano Giuseppe Zanardelli e inaugura il suo secondo governo.
Ho preso il giorno del delitto come campione. Di quel mercoledì 11 marzo 1903, scorro le 16 pagine della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia (è il numero 50) e le 34 pagine degli Atti Parlamentari (Tornata dell’11 marzo 1903, Legislatura XXI, II sessione, presidente Giuseppe Biancheri). Il 13 è giorno di interrogazioni. Si parla di lavori pubblici al sud, dell’erigendo policlinico di Roma, del tribunale di Reggio Calabria.
Del Veneto non è traccia, perduto lassù al nord, nelle brume di una cultura che per certi aspetti è ferma alla servitù della gleba.
È il Veneto dei pisnenti e dei repetini. Pisnente (o bisnente, là dove la bilabiale si fa sonora) corrisponde al termine italiano pigionante. Ma l’orecchio popolare vi sentiva una ben diversa etimologia. Falsa ma verissima: peggio di niente (o due volte niente). Giuseppe Boerio, nel suo dizionario del dialetto veneziano, lo assimila al termine masenente (perché stiamo parlando del contadino che pagava la masena, doveva subire la tassa sul macinato) e lo definisce “quel villico miserabile che va a guadagnarsi il pane lavorando a giornata”. Non è proprio così. Come ci ricorda Ulderico Bernardi nel suo memorabile Abecedario dei villani, i pisnenti erano le vittime di una dissennata politica agricola che spezzettava il territorio in microscopici appezzamenti. Bisognava sfruttarli al massimo e scriteriatamente, quei francobolli di terra, per ricavarne di che vivere. E ovviamente per pagare il padrone del fondo. Il contratto di mezzadria, per quanto iniquo, era ancora una utopia.
Ecco il ritratto che, dei pisnenti, leggiamo nell’Inchiesta Agraria Jacini: “…li trovate ad ogni passo… affezionati alle poche zolle… Certamente son poverissimi; e basterebbe a dimostrare la miseria in cui vivono queste famiglie, l’aspetto delle donne che scendono dalla montagna… limosinando il tozzo di polenta…”.
Il pisnente vachetin, il possessore di una vacca, era un privilegiato.
Davvero l’ultimo gradino della scala sociale. Tra l’altro, i pisnenti, erano in terribile concorrenza l’uno con l’altro: quando, per disperazione, il podere inadeguato a trarne di che sopravvivere veniva lasciato, c’era sempre uno più disperato del partente pronto a subentrare.
Eppure, più in giù di quell’ultimo gradino, interrato e nascosto vi era ancora qualcuno, il repetin che era il miserabile per definizione, il nullatenente assoluto.
L’uccisore di Linda Onigo, Pietro Bianchet, 27 anni e alto nemmeno quanto bastava per fare il servizio militare, era appunto un pisnente. Abitava (una casupola col pavimento in terra e senza vetri alle finestre) a Trevignano, a qualche passo dai due piloni in mattoni ancora oggi visibili che si trovano davanti alla villa Onigo. Era sposato con Maria Semenzin e aveva una figlia. Il ritratto fotografico, fattogli dopo l’arresto, dimostra sul corpo le tracce di una pellagra già cronicizzata e irreversibile.
La pellagra è uno dei neri simboli di quel periodo. E il processo a Bianchet fu un vero e proprio processo per pellagra. Il dato disponibile per il 1905 registra in Italia 46.984 casi di pellagra (ovviamente denunciati e dunque senza tenere conto del sommerso). Ben 27.781 sono nel Veneto: quasi il sessanta per cento! Il male della polenta, come tutti sanno.
Nella dieta dei contadini mancavano alcune sostanze organiche (la niacina che è una vitamina e il triptofano, un amminoacido) di cui sono ricche verdure e latte. Quindi per evitare che il morbo diventasse cronico e devastasse corpo e cervello (quanti suicidi tra i pellagrosi, impiccati ad una trave della tesa!) bastava variare un po’ la dieta. Bastava introdurre proteine: qualche uovo, un po’ di carne.
I pellagrosari (ve ne era uno a Montebelluna, alla estremità occidentale del Montello, appena qualche chilometro da Trevignano) erano ospedali stagionali. Aprivano per qualche mese, poi chiudevano. Ospitavano gli ammalati, li nutrivano con cibi proteici, li rimandavano a casa guariti. Ma poi la polenta, piatto unico, tornava a far danni.
Dunque possiamo supporre che gli anni di carcere di Pietro Bianchet, dal punto di vista della dieta e dunque della salute, siano stati i migliori della sua vita.
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Quel Veneto di pisnenti e di repetini sarebbe uscito dalle brume di una sostanziale marginalità rispetto al tessuto nazionale di lì a qualche anno col primo conflitto mondiale. Dopo Caporetto, il Grappa, il Montello e la Piave sarebbero diventati teatro degli scontri decisivi.
In quel Veneto medievale sarebbe nata la nuova Italia perché, per la prima volta, sulle trincee del Monte Grappa o sotto il Cesen il calabrese avrebbe parlato col sardo, il pisnente veneto avrebbe cercato di farsi capire (spesso serviva un interprete!) con il suo omologo siciliano, il jurnataro, l’uomo che andava a lavorare a giornata. Si sarebbero conosciuti e affratellati molisani, toscani e pugliesi.
Da quel Veneto sull’orlo del baratro vennero due sussulti.
Il 4 agosto 1903 Giuseppe Melchiorre Sarto, nativo di Riese (un paese vicino a Castelfranco) e forte dell’esperienza di parroco di campagna (un unicum!), fu eletto papa col nome di Pio X. Succedette a Leone XIII, morto il 20 luglio. Un papato fondamentale, qualunque analisi se ne voglia fare, nel secolo che stava nascendo.
E l’altro sussulto venne proprio dal caso Bianchet-Onigo. Perché il presidente della corte, Vittorio Vanzetti, e la giuria dovettero interrogarsi se applicare severamente (o anche soltanto rigorosamente) la legge o tenere invece conto delle condizioni di miseria, ignoranza e sfruttamento in cui il delitto aveva messo radici. Un bivio storico.
Di fatto non c’era processo: Pietro era reo confesso e aveva ucciso davanti a molti testimoni. Anche sulla spinta del favore popolare nei riguardi di Bianchet, si scelse la strada dell’indulgenza. La parte civile giudicò una sciagura la pena relativamente tenue inflitta all’omicida.
Del resto i condizionamenti ambientali erano pesanti. Il processo era stato portato a Venezia per sottrarlo alle pressioni di una Treviso se non pregiudizialmente ostile alla Onigo, almeno assolutoria nei confronti di chi l’aveva uccisa Ma il trasferimento del dibattito processuale si rivelò, nella logica di questa miope strategia, un tragico errore perché Venezia divenne una cassa di risonanza mondiale.
Senza contare che la gente riempiva l’aula del tribunale urlando a favore del contadino di Trevignano. Lo aspettava nei suoi trasferimenti, al Ponte della Paglia e lungo i canali che conducevano al tribunale vicino a Rialto. Gli urlava incoraggiamento e sostegno. E si tenevano pubbliche collette per sostenere la moglie di Bianchet, Maria, rimasta sola con due figlie.
La nascita della seconda figlia era stata il detonatore del delitto.
In quei giorni del marzo 1903, Bianchet si era recato, come ogni anno, a eseguire i lavori primaverili nel parco della contessa Onigo, sulle rive cittadine del Sile. Era in compagnia di altri contadini di Trevignano che si trovarono dunque ad essere testimoni del delitto.
(Oggi quei posti sono ancora adibiti a verde. Sono i giardini pubblici detti di sant’Andrea poiché digradano dalla piazza su cui si affaccia la chiesa omonima. Della villa, colpita dai bombardamenti bellici, sono rimaste a lungo le rovine. Io abitavo nella vicinissima via Palestro e ricordo che, nonostante i pericoli e le connesse proibizioni a frequentare il luogo, tra quelle rovine ho giocato. Poi il terreno è stato sgomberato dalle fatiscenti macerie e nulla è stato costruito al posto del vecchio palazzo. Ora quel lato della piazza è completamente aperto e scende verso le acque del fiume).
Si diceva che si andava a opera. Per quel lavoro (ovviamente alla sera bisognava trovare un improvvisato ricovero, non si tornava a casa visto che ogni trasferimento avveniva a piedi) Bianchet guadagnava la miseria di una lira al giorno (diciamo una ventina di euro, o poco più) con cui doveva provvedere a mantenersi e agli strumenti di lavoro. E ovviamente bisognava mandare qualcosa a casa.
A Treviso Bianchet fu raggiunto dalla notizia che la moglie aveva partorito la seconda figlia. Chiese, per il tramite di Giuseppe Sabbione, il segretario della contessa, di poter tornare a casa, di avere un sacco di grano per i primi bisogni e, non potendo trasportare a piedi quel peso, i soldi per usufruire di un mezzo pubblico. Gli fu rifiutata ogni cosa.
Questo il 10 marzo. Il giorno 11 (erano le quattro e venti del pomeriggio) Bianchet attese la contessa che passava come ogni giorno nei vialetti del parco per esaminare lo stato dei lavori. Sempre in compagnia di Sabbione.
(Giuseppe Sabbione rappresenta un po’ la filigrana di tutta questa vicenda. È sempre, con discrezione e sullo sfondo, presente. Prima accanto a Linda, poi accanto a Caterina che lo nomina nel suo testamento primo amministratore delle Opere Pie di Pederobba. Nasce a Torino nel 1845 e muore a Pederobba il 17 dicembre 1925. Fu pittore di cui si conosce un ritratto di Umberto I conservato nella biblioteca di Montechiaro d’Asti; è suo anche il ritratto di Linda Onigo che si trova presso le Opere Pie, nella sala delle pergamene Onigo. Fu possidente terriero e innovatore in campo agricolo visto che alla fine dell’Ottocento sperimentò i primi cannoni antigrandine. Perse molto presto la moglie sulla quale girava voce che fosse figlia morganatica di Vittorio Emanuele II, forse figlia di Rosa Vercellona, per i Piemontesi “la bella Rusin”, forse dell’attrice Laura Bon).
Il bracciante fingeva di lavorare con l’accetta alle radici di una magnolia. Linda lo aggredì dicendo che così rovinava la pianta. Bianchet si girò e con due colpi di scure le staccò la testa dal collo.
Sul delitto del 1903 e sul susseguente processo del 1904 non si è mai offuscata del tutto la memoria. A me è capitato di raccontare quei fatti nel mio primo, fortunato romanzo, Il delitto della contessa Onigo.
Quella memoria viene oggi riaperta dallo scrupolo e dalla lungimiranza dell’architetto Fiorenzo Bernardi, noto restauratore, e dagli amministratori delle Opere Pie. Il restauro del tempietto che, proprio nel giardino delle Opere Pie di Pederobba ospita le spoglie mortali di Linda Onigo, di sua madre Caterina Jaquillard, di suo padre Guglielmo, ha chiamato una riesumazione delle salme.
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Al processo non furono esibite le risultanze di un esame autoptico che con tutta evidenza non c’è mai stato. Giudicato del tutto inutile, evidentemente. E già da questo punto di vista l’ispezione delle salme, a più di un secolo dalla inumazione di Linda Onigo, porta un elemento di novità.
Vi è concordanza tra i testimoni nel dire che i colpi inferti alla contessa furono due. Ma si evince dagli atti processuali che furono entrambi portati al collo. Quello che emerge ora è che la calotta cranica della Onigo è sfondata. Il cranio presenta un taglio netto a partire dalla fronte, poco sopra le orbite oculari. Appare praticamente scoperchiato. Il che significa che un colpo (il primo, molto presumibilmente; il contrario sembra del tutto innaturale e improbabile) fu portato alla testa. Se è così, la dinamica del delitto è da rivedere.
Bianchet prima colpisce al capo la sua vittima, poi, quando essa è crollata, le infligge la decapitazione.
C’è da aggiungere che il Gazzettino pubblicò una ricostruzione grafica del delitto (due anzi, perché in una fu ritratto Bianchet in fuga) e in tale ricostruzione il capo di Linda appare integro. E intatta appare l’acconciatura dei capelli raccolti a crocchia sulla nuca.
Così il giornalista del Gazzettino nella cronaca processuale di venerdì 26 febbraio 1904: “Quel giorno la contessa Onigo vestiva signorilmente, dacché era giorno di visita in cui aveva ospitato alcune intime amiche. La sottana era di bleu scuro con quadriglie di velluto rosso. La blusa era di seta a righe diagonali bianche e nere. Attorno al collo era allacciato un fazzoletto a nastro bianco e verde oliva… Il primo colpo di scure menato improvvisamente con violenza al collo della signora deve aver prodotto la ferita minore, ma bastante a impedire che la vittima emettesse qualsiasi grido. La violenza di questo primo colpo fece cadere supina la contessa, cioè col dorso sul terreno, di più fece balzare un’orecchino (sic) in vicolo Fiumicelli, che dista tre metri dal punto dove giacque il cadavere, e spezzò la catena d’oro che teneva l’orologio, la quale si rovesciò indietro sopra i capelli ed era imbrattata di sangue. Circa due ore dopo il delitto, l’autorità giudiziaria praticò il sopralluogo e ordinò il trasporto del cadavere in ospedale. L’orologio andava ancora e segnava le ore 6.10 pomeridiane. Sotto il cadavere furono trovati gli occhiali a molle da miope. Fra il muro di cinta e la testa del cadavere si rinvenne un pettine da signora. Qua e là intorno al cadavere erano sparse delle viole mammole recise”.
Come si vede si fanno molti accenni al capo della Onigo, ma al fatto che ci sia stato un colpo che ha sfondato la calotta cranica non vi è neppure cenno.
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Ma l’apertura della tomba fa giustizia di un fatto leggendario o, se si preferisce più banalmente, di un gossip fiorito nei giorni dell’inumazione. Si disse che la paura che il corpo di Linda Onigo fosse oggetto di qualche oltraggio aveva spinto a seppellirla segretamente in una tomba provvisoria, in un cimitero dei dintorni.
Gossip o verità? Non c’è risposta ma, se questa diceria corrispondesse alla realtà, andrebbe a comporre un quadro omogeneo e coerente. Le cronache dei funerali parlano di tumulti popolari al passaggio del corteo, di personale delle pompe funebri impaurito, di tentativi di spingere il carro funebre a spallate nella corrente del Sile. I quattro palafrenieri, ognuno vicino ai quattro cavalli che trascinavano il pesante carro funerario, furono costretti a sforzi sovrumani per tenere a bada gli animali nervosi e a loro volta impauriti.
E il mattino successivo alla inumazione, mi ha testimoniato il figlio di una persona che viveva allora a Pederobba, ci si accorse che durante la notte sulla tomba erano state messe tavole e pietre “per impedire che l’anima si alzasse verso il cielo”.
Comunque sia, ora sappiamo che davvero Linda dorme in pace in quel tempietto. Abbracciata alla madre Caterina, che morì qualche anno dopo di lei, e al padre Guglielmo.
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Zenobia Teodolinda Costanza Onigo aveva una personalità complessa.
Il processo per il suo omicidio fu drammatico.
Non solo per le dimostrazioni popolari, non solo per la interminabile teoria di testimoni che occuparono magistrati e giuria in lunghissime, defatiganti sedute (praticamente l’intera Trevignano, compreso il parroco, don Sante Perdon, e Beniamino Bresolin, il maestro elementare, si era trasferita a Venezia), non solo perché in molti si era fatta strada la consapevolezza che stava franando in modo irreversibile una organizzazione sociale di tipo feudale. Tra costoro vi era anche Gian Giacomo Felissent, cugino e affettuosissimo amico (l’unico?) di Linda, come si evince dal carteggio intercorso tra i due.
Non solo perché fu molto imbarazzante gestire un colpevole che si voleva far apparire un mostro e invece si comportò con grandissima dignità, rimanendo sempre in silenzio, se si fa eccezione per qualche interrogatorio diretto da parte del presidente della corte Vanzetti. Quando, completata l’escussione dei testi e prima della sentenza, Vanzetti gli rivolse la rituale domanda se avesse qualcosa da dire, Bianchet si alzò in piedi e rispose seccamente e pacatamente di no.
Non solo perché erano in gioco lo status e la credibilità di una classe sociale.
Il fatto è che quel processo per pellagra fu il processo ad un’epoca e dispiegò un meccanismo devastante. Linda, la vittima, fu letteralmente massacrata dal susseguirsi delle testimonianze. In certi momenti sembrò, in quell’aula del tribunale veneziano, che la vittima diventasse la vera colpevole.
Si può fare l’esempio del parroco il quale raccontò che Bianchet non andava mai in chiesa e, da simpatizzante socialista, non dimostrava alcun favore per il suo abito talare.
Una testimonianza che in un primo tempo apparve una manna per la parte civile perché finalmente metteva l’imputato in cattiva luce agli occhi della giuria. Ma prima di lasciare il banco dei testimoni, il buon parroco chiese al presidente se poteva aggiungere una cosa. Disse semplicemente: “Se non avesse avuto fame non avrebbe ucciso”.
Un’altra testimonianza cercò di far apparire Linda come una benefattrice della sua città. Aveva regalato al comune di Treviso delle pietre spacciandole per preziosi cimeli archeologici. E invece si capì subito che la contessa voleva disfarsi a spese di altri di uno scomodo ingombro. Un disastro, insomma.
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Ma questo processo che stritola la vittima e la trasforma in colpevole, deve indurre ad una riflessione sulla “verità psicologica” di Linda. È quanto ho cercato di fare nel mio romanzo.
Di Linda ho letto le lettere che scriveva ed esaminato gli eventi che ne caratterizzarono la vita. Spero di aver colto la sua anima. Che era l’anima di una donna sola. Probabilmente preda e prigioniera di una malattia che allora era conosciuta pochissimo, la depressione. Forse una forma grave di depressione.
Dove nasce la sua avarizia? Non lo so. Penso però che non fosse avarizia ma desiderio maniacale di accumulo. Differenza sostanziale.
Quando era bambina dovette seguire (e subire) le traversie politiche e militari del padre Guglielmo che era persona colta (impegnato nell’Ateneo di Treviso) e molto generosa. Su posizioni ferocemente antiaustriache tanto da essere protagonista nella battaglia di Cornuda. Era il 1948, era la cosiddetta prima guerra di indipendenza.
Quando l’Austria di Francesco Giuseppe riprese il sopravvento, Guglielmo e la sua famiglia furono privati di ogni risorsa e costretti all’esilio in Piemonte. Lì vissero una brutale povertà in cui capitava che un unico uovo dovesse essere spartito tra Guglielmo, Caterina e Linda. E quello era un pasto. Furono obbligati a vendere i pochi gioielli che nella convulsa notte della fuga erano riusciti a mettere nei miseri bagagli. Dovettero di fatto adattarsi a elemosinare. Si dice che Cavour (sensibile non solo all’aspetto politico, ma anche a quello della “diversità religiosa”, del resto la madre era calvinista e la sua educazione religiosa era stata improntata alla tolleranza) li beneficasse elargendo ogni tanto un po’ di denaro.
Solo con l’unificazione del Veneto all’Italia, gli Onigo rientrarono in possesso dei loro beni. Ma Guglielmo si era sentito ulteriormente tradito dall’armistizio di Villafranca, concluso da Napoleone III di Francia e da Francesco Giuseppe I d’Austria l’11 luglio 1859, ed era morto nel 1866, godendo assai poco del reintegro nei suoi possessi.
Forse anche per questo, Linda si era persuasa che la cosa pubblica e un po’ tutto il mondo avevano debiti insanabili nei suoi riguardi. E ogni centesimo non speso o spremuto agli altri doveva apparire ai suoi occhi come una giusta, doverosa ricompensa di tutto il dolore subito.
Sulla sua depressione certo influì l’abbandono (difficile dire quali aspetti delle due personalità entrarono in conflitto) da parte del marito Oliviero Rinaldi che andò ad abitare in quel di Asolo dove ebbe quattro figlie. Oliviero non doveva essere la persona più limpida del mondo, visto che si presentò al processo testimoniando che un tentativo di riconciliazione con l’ormai ex moglie era in atto. Grossolano e rozzo tentativo di entrare nella spartizione dell’immenso patrimonio lasciato in eredità.
Inoltre per Linda dovette essere terribile scoprire di essere sterile e che in lei si estingueva la millenaria dinastia di una famiglia che possiamo immaginare come un grande fiume, gli Onigo in cui sono confluiti i Da Coderta e Da Cavaso.
E senza dubbio le pesava addosso la sua origine oscura.
Nata il 5 dicembre 1842 (ma altre fonti danno date diverse posticipando la nascita anche di un anno) a Yverdon, una stazione termale del Canton Vaud sul lago di Neuchâtel, era stata adottata e legittimata da Guglielmo che aveva poi sposato la madre Caterina Jaquillard.
Questa consapevolezza deve aver devastato la sua anima. Non sapere con certezza se Guglielmo era il padre, come diremmo noi oggi, biologico. Ma soprattutto l’essere nata nel peccato, fuori del matrimonio. Non esisteva espiazione possibile. Era una colpa originaria che nessun battesimo e nessuna acqua purificatrice potevano annullare.
Una sindrome da marginalità, da esclusione. Una condizione di straniamento perenne. Come dimostrano i frequenti viaggi di Linda, nessun luogo era il suo luogo. E il tempo, Linda cercava di fermarlo, di farlo anzi andare a rovescio votando la propria vita alla sopravvivenza di rapporti sociali ormai logori e inaccettabili.
Al processo depose colei che era stata a lungo la sua dama di compagnia, Giulietta Hirschauer, donna bella e giovane, dal nasino vezzoso e sottile, stando al ritratto che ne fa il disegnatore del Gazzettino. Dopo anni di servizio, durante i quali mai aveva ricevuto un regolare stipendio, era stata liquidata con una cifra che era poco più di una irrisoria mancia. Linda l’aveva conosciuta durante uno dei suoi viaggi a Parigi. Il Gazzettino parla della diffusa diceria che tra le due donne ci fosse una intimità non confessabile. È la vecchia tecnica giornalistica di avallare una cosa, prima enfatizzandola e poi negandola o nascondendola dietro alla fragilità di un “si dice”.
Queste le parole del cronista di allora: “Una linea gentile, aristocratica, un viso da artista, una bellezza fine, quella di Giulietta Hirschauer che fu dama di compagnia della contessa Onigo. Questa la conobbe a Parigi in uno de’ suoi viaggi, la prese con sé e ne fece la sua intima amica. Tale intimità diede anche da parlare alle male lingue. Ma noi non siamo pessimisti, ed anzi, dal loro distacco poscia avvenuto in circostanze poco amichevoli, si deve arguire che quelle intimità non esistessero”.
Comunque si guardi alla vicenda, anche in questo caso abbiamo un rapporto umano che avrebbe potuto essere fonte di consolazione e salute mentale. Ma Linda non poté o non volle continuarlo. La cosa finì squallidamente in mano agli avvocati.
Un senso di rovina incombente fasciava come una ruvida corazza il cuore della contessa. Impossibile penetrarvi. Vi riusciva solo l’amato cugino Gian Giacomo Felissent che, proprio in virtù e in forza di questa sodalità, la rimproverava della sua sciatteria, della sua trasandatezza nel vestire e nell’amministrare la casa e il patrimonio. Inutilmente.
Era, Linda, tormentata da un senso profondo e invincibile del peccato.
Ho cercato di tradurre in storia vissuta questa condizione mentale e morale di Linda in una pagina del mio romanzo che qui ripropongo.
Immagino il padre Guglielmo che, nei momenti bui dell’esilio e della fame, educa Linda ai valori e ai contenuti della fede valdese, raccontandole le origini mitiche e la storia, dura e bella insieme, delle persecuzioni subite. Dalle quali era nata però una grande luce di verità che dalle valli piemontesi della resistenza valdese si irradiava nel mondo.
“Di tutti questi eventi, Linda comprendeva il versante tragico… Le sembrava impossibile che ci potesse essere un ottimismo nella storia. Le parve anche evidente (lo provava su se stessa) che esiste una diaspora perenne, una continua costrizione ad abbandonare il luogo dove si sarebbe voluto mettere radici. Le storie che Guglielmo le narrava le parevano comunque storie di uomini legati ad un’idea, di profeti talora inconsapevoli della verità delle loro parole o dei loro atti. Queste profezie minime, frammentate, spesso irriconoscibili, travestite com’erano dalla quotidianità, la aiutavano a capire che esiste una patria più grande del territorio in cui si vive, una patria dello spirito. Tutto ciò suggeriva al suo cuore di fanciulla che ogni luogo può essere la patria. Ma queste sensazioni così generose poco a poco si indurivano nell’animo di Linda perché ad esse si accompagnava il suo senso perenne di esclusione e di inutilità. Capiva anche che esisteva una storia sotterranea e spesso non tramandata. Per esempio sentì più volte la leggenda in cui Valdo era immaginato contemporaneo dell’imperatore Costantino. Era amico di Silvestro, il papa che aveva accettato la donazione famosa di cui parlano anche Dante e tutto il medioevo. Valdo aveva consigliato Silvestro di non accettare, e gli aveva profetizzato che ne sarebbero seguiti grandi mali. Silvestro non aveva ascoltato e Valdo aveva fondato un’altra chiesa, sotterranea e ancora catacombale. I valdesi erano questa chiesa riemersa con la forza e la freschezza con cui l’acqua che si nasconde in montagna, risorge pulita e incontaminata in risorgive e polloni. Linda, nella sua fanciullezza si sentiva sospinta a cercare se stessa a ritroso in questa corrente sotterranea. E suo padre non poteva aiutarla. Ormai si sentiva sola e dolorosamente libera, anche se continuava a vedere in Guglielmo un profeta autentico. E proprio lui un giorno ebbe a leggerle qualcosa che fu decisivo per Linda e che diede al suo animo una impronta tragica e fatalistica insieme. Erano i versi della Nobla Leyczon, un antico poema valdese che serviva a spiegare molte cose sulla storia di questa gente. Linda comprese che solo due vie sono consentite all’uomo, senza sotterfugi o vie intermedie. Si vive nel bene o nel male, nel peccato o nella grazia. L’eternità dell’anima imbocca subito la via della salvezza o della perdizione eterna. Non esiste purgatorio e non esistono dunque tutte le liturgie del suffragio o degli sconti della pena. Linda avvertiva tutto questo come un verdetto su di sé, sulle sue origini oscure, su un peccato originale che nessuna acqua lustrale poteva lavare via. Il peccato di sua madre che l’aveva concepita da chissà quale sangue impuro era una condanna che non ammetteva fuga o redenzione. Si faceva strada in lei la consapevolezza di una diversità assoluta. Da quella scoperta Linda sarebbe stata fortemente segnata, in un indurimento di sé e dei rapporti con gli altri. Avrebbe esorcizzato la morte semplicemente ignorandola. E avrebbe fatto scontare agli altri il male inestirpabile che era in lei”.
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Come, ahimè non spesso e molto misteriosamente accade, da una tragedia nacque una cosa buona. Da un grande male si originò un bene che durò e dura negli anni.
Caterina (Catherine) Jaquillard, la donna di umili origini che era diventata contessa per matrimonio condividendo tutte le mortificanti traversie del marito e acquisendone alla fine l’enorme patrimonio, sopravvisse di qualche anno alla figlia.
Era molto malata e completamente cieca (per cateratte inutilmente curate, durante il processo veneziano il cronista vi fa più volte cenno) quando morì il 27 novembre 1907. Non le fu mai detto del tutto quanto era accaduto alla figlia. Le fu taciuta l’immane e brutale violenza di cui era stata vittima. Non seppe dell’assassino e non seppe del processo. E tuttavia certamente intuì qualcosa.
O molto, forse, grazie alla sua sensibilità di popolana sperimentata dalle tante sofferenze che aveva conosciuto e patito. Le raccontarono una pietosa bugia, un collasso, un colpo apoplettico. E lei reagì, si dice, piangendo: “No, me l’hanno uccisa”.
Si trovò ad essere lei, non la figlia Teodolinda come sarebbe stato naturale, responsabile di un’eredità costituita da un patrimonio immenso. Un fardello pesantissimo. Decise che tutto il denaro degli Onigo dovesse tradursi in un bene messo a disposizione della comunità. Molto più di un atto di espiazione, di una riparazione tardiva e incompleta.
Piuttosto un atto di profonda equità e di coraggio. Un tentativo, per quanto è possibile a questo mondo, di riequilibrare il male fatto col bene futuro. In chiave cristiana, perché no?, una riconciliazione con Dio dopo la stagione dell’avarizia, dello sfruttamento, dell’egoismo. Della morte e dell’odio.
Fu, quella della Jaquillard, una scelta non paternalistica, di grande giustizia, addirittura profetica.
Caterina dice nel suo testamento, con estremo atto di amore materno, di volersi fare interprete della volontà della figlia.
A Pederobba tutto parla di Caterina.
La quale fece del suo testamento, di fatto, l’atto costitutivo delle Opere Pie di Pederobba.
Del testamento esistono due versioni, entrambe redatte da un notaio di Crespano Veneto, Roberto Chiavacci, entrambe raccolte nel palazzo Onigo di Pederobba.
La prima reca la data dei giovedì 14 luglio 1904 (ore tre e cinquanta pomeridiane), dunque pochissimi mesi dopo il processo veneziano a Pietro Bianchet.
La seconda risale a martedì 9 aprile 1907 (ore diciassette), vale a dire sette mesi prima della morte. Di fatto una integrazione e una serie di precisazioni dei disposti della versione del 1904. Entrambe le versioni contengono la dichiarazione “di non poter firmare il presente mio testamento in causa di una malattia agli occhi che non mi consente di poter vedere quanto all’uopo è necessario”.
Leggiamo nella versione del 1904: “… voglio soddisfare ad un imperioso bisogno dell’animo mio beneficando. E maggiormente è sentito da me questo bisogno perché so di interpretare così il pensiero e di eseguire la volontà della povera mia figlia predetta e perché intendo così d’onorare nel miglior modo la memoria di lei e quella del Conte Guglielmo, nonché dell’antica Casa dei Conti D’Onigo. Nomino pertanto ed istituisco miei eredi universali i due seguenti Istituti di Beneficenza che intendo fondare e istituire con questo mio testamento.
I. UN OSPITALE per i poveri infermi dell’intero Comune Amministrativo di Pederobba.
II. UN ASILO INFANTILE.
Questi due Istituti prenderanno il nome generico di: OPERE PIE D’ONIGO.
Il primo sarà titolato “Ospitale Guglielmo e Teodolinda d’Onigo”, il secondo “Asilo Infantile Caterina Jaquillard”.
Nel riflesso che quì nella frazione di Pederobba ebbero sempre dimora i miei cari Guglielmo e Teodolinda d’Onigo e che quì riposano le loro spoglie mortali, considerando anche che quì l’aria e più salubre, voglio che l’Ospitale debba sorgere nella località detta il Mass, prossimo alla Tomba dei Conti Guglielmo e Teodolinda d’Onigo. L’edificio di questo ospitale, pur attenendosi a severa semplicità, dovrà essere d’aspetto grandioso, quale venne ideato e designato dal mio procuratore generale Cav. Giuseppe Sabbione. L’Asilo Infantile verrà eretto nel luogo in cui attualmente si sta lavorando per la sua costruzione, cioè nella palazzina presso la Chiesa di San Giovanni in Onigo. Quest’asilo che si intitolerà al mio nome, come più sopra ho disposto, accoglierà fanciulli di ambo i sessi dell’intero Comune di Pederobba, dell’età dai tre ai sei anni. Nell’accoglimento tanto nell’Ospitale quanto nell’Asilo non si faranno distinzioni di religione e vi saranno ammessi tanto i Cattolici che i non Cattolici e si darà la preferenza ai poveri dipendenti dall’Amministrazione generale dei fondi da me disposti a favore dei due Istituti miei eredi”.
Notevole questo conferimento di, come dire, fisicità vivente e pulsante ai due istituti che diventano eredi della contessa. Quasi fossero persone vive. Come è notevole l’attenzione agli ultimi e come è notevole soprattutto il rimarcato programma di una tolleranza assoluta: nessuna scelta, nessuna opzione sulla base della diversità religiosa. Dunque nessuna discriminazione.
Seguono indicazioni pratiche sull’amministrazione e sugli organi che dovranno reggere le Opere Pie. Di fatto, dunque, non solo atto costitutivo ma anche scheletro e modello dello statuto. Chi dovrà sovrintendere alla realizzazione di ogni cosa è l’avvocato Giuseppe Sabbione, prima uomo di fiducia di Teodolinda, ora anche di Caterina. Caterina lo nomina suo esecutore testamentario.
E, nella integrazione del 1907, Caterina dispone che “alla morte del Cav. Sabbione, intendo che in seno all’amministrazione delle Pie Opere da me fondate abbia ad essere chiamato in sua sostituzione il Sig. Ajnardo Vercellino che attualmente è adibito alla mia azienda e che desidero abbia a mantenervisi sempre. E poiché conosco con quanto zelo ed attività egli coadiuva anche presentemente il Cav. Sabbione, voglio che egli possa continuare nelle sue attuali funzioni ed in compenso gli assegno l’annua corrisponsione di lire duemila”.
Zenobia Teodolinda Costanza Onigo è caduta sotto i colpi di scure Pietro Bianchet ormai da quattro anni.
E forse soltanto ora, in queste parole di sua madre, trova pace.
***
Infine, marginale ma non troppo.
Catterina o Caterina? Una o due “t” per la fondatrice delle Opere Pie?
Entrambe le grafie vanno bene. Catterina è il nome che troviamo sulla sua lapide funeraria. Con Caterina, invece, la Jaquillard sottoscrive le diverse versioni del suo testamento.
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