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Davverosolo un capriccio del calendario
il fatto che l’11 novembre
- san Martino -
segnasse il passaggio
alla nuova annata
agricola e, per tante famiglie contadine,
l’orrore dello scomio, della disdetta?
O esiste un “significato altro”,
una centralità
della figura di san Martino
rispetto al mondo degli umili
e dei diseredati?
E cosa davvero sappiamo
di questo santo straordinario
che ha segnato la storia europea?
Gian Domenico Mazzocato,
con questo
Martino, l’uomo che divise il mantello
risponde a tanti interrogativi
La popolarità di Martino è immensa, nel tempo e nello spazio, di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro santo. In Francia sono a lui dedicate quasi cinquemila tra parrocchie e abbazie.
In Ungheria, sua terra natale, oltre 100 chiese portano il suo nome. È patrono di Belluno e a lui è dedicata la cattedrale di Lucca.
Quasi impossibile determinare quante e quali categorie e associazioni hanno Martino per patrono.
E di fatto sconfinata è la “fortuna iconografica” di Martino, legata per lo più all’atto di dividere il mantello con il povero di Amiens, ma non solo.
Basti pensare allo straordinario ciclo di affreschi di Assisi, dipinti da Simone Martini nella Basilica Inferiore.
In questo Martino, l’uomo che divise il mantello, ne forniamo una esemplificazione.
La Vienne è un fiume già grande quando sfocia nella Loira, dopo aver attraversato estesi pascoli e foreste immense.
Le colline attorno sono verdi e luminose, digradano dolcemente verso l’acqua. Candes sorge proprio al confluire dei due fiumi, un villaggio piccolo, di battellieri e pescatori, una manciata di capanne tirate su col fango secco, dal tetto d’erba. Poche case soltanto, sull’alto della collina, sono di tufo bianco e dominano le due vallate.
Qui, nel cuore della Francia, l’inverno arriva presto. Di solito, a novembre, i venti del nord spazzano la vallata larga della Loira. Non è così quest’anno.
A Candes è tiepido autunno, quasi una primavera si direbbe. Anzi, a sera, sembra di avvertire ancora la brezza profumata di salsedine che viene dall’oceano.
Martino, il vescovo, si è messo in strada di buon mattino, appena sorto il sole. Ha lasciato alle sue spalle le mura alte e imponenti di Tours e per qualche miglio ha disceso a piedi la vallata della Loira. Candes è una parrocchia turbolenta, fondata da poco, e lui deve proprio andarci: i chierici di quella zona sono inquieti, qualche volta vengono a diverbio tra loro. Menano le mani, perfino.
Lo accompagna qualche monaco, un gruppetto sparuto.
Martino è vecchio, ormai. I suoi ottant’anni hanno tolto vigore alle braccia e, a ogni passo, i ginocchi scricchiolano. Quante miglia avrà percorso nella sua vita vagabonda, se lo chiede sempre più spesso.
Ma lo sguardo è vivido, come sempre, e i suoi occhi hanno bagliori di fuoco. Martino ha fatto il soldato per tanti anni e questo gli conferisce modi spicci, ruvidi talora. E tuttavia chi gli sta vicino è pervaso dalla pace e dalla tranquillità che infonde attorno a sé.
Ci si sente sicuri vicino a lui, e protetti, come sotto un grande albero quando picchia il sole estivo, o come dietro le mura di Tours quando i messaggeri recano la notizia che un crudele capo barbaro sta scendendo con la sua tribù affamata, da nord.
Martino, il giorno prima, ha preso accordi con un barcaiolo. L’uomo lo aspetta al piccolo molo.
Quando vede Martino e i suoi, comincia a sciogliere gli ormeggi.
La sciabica dondola leggermente, cullata dalle onde, guadagna il centro del fiume, prende velocità.
È una barca piccola, di quelle che servono per pescare i lucci dalle squame d’argento.
Come al solito, Martino siede a poppa, assorto nei suoi pensieri e nella preghiera. Non teme i pericoli, lui, e lascia che siano gli altri a scrutare da prua l’orizzonte e le rive del fiume, a preoccuparsi dei gorghi violenti e improvvisi dell’acqua.
Ogni volta che prende la via del fiume, non può fare a meno, Martino, di pensare a tre anni prima. A Nîmes era stato convocato un sinodo e quasi tutti i vescovi lì riuniti gli erano ostili.
Per via della vecchia e dolorosa questione di Priscilliano, il teologo condannato a morte, una ferita ancora aperta nel suo cuore.
Così lui si era tenuto appartato dai lavori, ma mentre navigava sulla scialuppa che lo riportava a Tours, un angelo era venuto dal cielo e gli aveva raccontato tutto quello che i vescovi si erano detti. Al ricordo, un sorriso lieve gli increspa le rughe del viso.
Alza gli occhi. Nel sole, sulla collina di Candes, il tufo bianco delle case brilla intenso, un lampo nel tramonto tranquillo, là dove le vallate di Vienne e Loira si congiungono.
Arrivato, finalmente.
La sciabica approda, i suoi compagni scendono.
Ma, nell’istante in cui anche lui sta per appoggiare il piede sulle assi del molo, Martino avverte il suo vecchio cuore battere irregolare. Il sangue rallenta la corsa e le forze lo abbandonano.
Un dolore sordo in mezzo al petto, come un pugno.
È arrivata l’ora, lo comprende subito.
Sta morendo: lui che aveva affrontato tanti nemici, lui che si era presentato all’ultima battaglia prima del congedo completamente disarmato, il vecchio guerriero che aveva trasformato la crudeltà insensata delle campagne militari romane nello zelo e nell’amore della fratellanza cristiana, sta morendo.
Si appoggia ad un giovane monaco dal volto impaurito, altre braccia lo aiutano. Si fa portare nella sacrestia della chiesetta di Candes. Faceva sempre così, nel suo girare continuo tra le parrocchie della diocesi: diceva che gli preparassero un giaciglio nella sacrestia, mentre i monaci del suo seguito trovavano ospitalità e alloggio nelle case vicine. Passava la notte in preghiera, in colloquio intimo e affettuoso col suo Dio.
Questa volta no. Il suo cuore sta cedendo, una febbre terribile lo aggredisce. Nella sacrestia Martino ordina che gli sia preparato un letto di cenere, vi si stende sopra. Nel segno della povertà perché povero aveva sempre vissuto.
Non vuole coltri, prega.
I fedeli e i preti del suo seguito hanno compreso.
Lo implorano di non lasciarli. Lui che tante volte ha miracolato gli infermi, questa volta guarisca se stesso.
Martino muove le labbra a fatica. Irradia serenità attorno a sé, come sempre. Dice che per tanti anni ha montato la guardia al campo del Signore. Che, se fosse per lui, non smetterebbe di essere sentinella, vedetta, difensore.
Ma è proprio il Signore in persona che gli parla e lo chiama: Martino deponga le armi della pace, della fede, dell’amicizia, della comprensione. Martino venga finalmente a sedere alla sua destra.
Muore Martino, e mentre consuma la sua visionaria agonia, gli viene a far visita ancora una volta l’antico nemico, il diavolo, contro il quale tanto spesso egli ha combattuto. Sempre lo aveva sconfitto, anche quando sembrava fortissimo.
Quanti posseduti aveva liberato Martino: e ora il vecchio nemico si ripresenta al suo capezzale, proprio mentre consuma le ore estreme dell’agonia.
Martino lo caccia indietro un’ultima volta. Come quando si era presentato vestito di stoffe preziose e coperto di splendenti monili affermando di essere il Cristo: Martino lo aveva confuso semplicemente dicendogli che non poteva essere il suo Signore, la povertà fatta carne. O come quando si presentava a lui mentre camminava, sotto le spoglie più diverse, cercando di deviarlo dalla sua strada. Lo blandiva e lo lusingava talora, il demonio, e più spesso lo minacciava, lo insultava, un torrente di parole ora dolci, ora aspre. Bastava una parola di Martino per costringerlo a ritirarsi, o anche solo uno sguardo.
Non desiste, il nemico. Ancora lì, accanto al suo giaciglio di morte.
Martino lo guarda, gli sussurra: «Il seno di Abramo sta per accogliermi ». Gli dice che nulla di quanto è suo appartiene al demonio.
Muore così, combattendo. Dolce e intransigente insieme.
***
Sulpicio Severo, discepolo, amico e primo biografo, racconta così le ultime ore del santo vescovo di Tours.
Martino muore l’8 novembre del 397. Il suo corpo viene messo su un battello che risale la corrente della Loira fino a Tours: le rive del fiume sono piene del popolo che nei ventisei anni del suo episcopato egli aveva difeso e protetto, dispiegando anche le sue straordinarie capacità di taumaturgo, di guaritore e di esorcista.
Della sua santità c’era piena percezione mentre era ancora in vita, ma si può tranquillamente affermare che Martino fu consacrato da una eccezionale testimonianza di folla già durante le sue esequie. Sulpicio Severo ci dice che ad aprire il corteo funebre c’era uno stuolo di duemila persone tra monaci e religiose consacrate.
Tutti probabilmente avevano ricevuto gli ordini sacri da lui e a lui si sentivano intimamente legati.
Il resto del corteo era formato da una moltitudine immensa.
Martino fu deposto, secondo i suoi desideri, in una tomba poverissima, l’11 novembre, nei sobborghi di Tours, là dove sarebbe in seguito sorta la basilica a lui dedicata.
***
11 novembre: una data destinata a radicarsi nel mondo agricolo occidentale perché veniva considerata l’inizio della nuova annata contadina. Il giorno innanzi, il 10, era dunque la conclusione dell’annata precedente e per secoli e per intere generazioni quello fu il temuto giorno dello scomio (o escomio, cioè la disdetta, il congedo). Quanti “sanmartini” hanno patito e subito le nostre genti: su una strada, da un giorno all’altro, con le poche masserizie, senza che i padroni dovessero nemmeno giustificare la rescissione del patto. Un no senza appello, che condannava alla fame, alla migrazione, alla disperazione.
A rileggere oggi la vita di Martino ci si chiede se è solo per un capriccio del calendario che egli viene considerato il santo protettore del mondo agricolo.
In realtà Martino fu uomo, prete e vescovo che visse il suo tempo dalla parte degli ultimi, difendendo i deboli e battendosi contro l’oppressione.
Lui, soldato, ebbe a dare testimonianze estreme di desiderio di pace e di non violenza. Ha una sua vivissima attualità, dunque.
Che si radica dentro al tempo in cui ha vissuto e si proietta nei secoli e nei millenni successivi.
***
Martino, che era nato attorno al 315/316, attraversò tutto un secolo, il quarto dell’era volgare.
Un secolo fondamentale nella storia della Chiesa: il cristianesimo esce dal chiuso delle case private in cui era confinato, smette di essere perseguitato, soprattutto procede a fondamentali sistemazioni dottrinarie.
Il passaggio dal terzo secolo al quarto aveva visto le feroci persecuzioni di Diocleziano, il quale fu ottimo imperatore (tra l’altro nel 305 abdica e si ritira a vita privata, dimostrando nessun attaccamento al potere) ma vedeva nel cristianesimo un ostacolo al riassetto istituzionale dell’impero e si comportava di conseguenza.
Esattamente il contrario di Costantino (o meglio, del suo collega Licinio) che nel 313, con l’editto di Milano, concede la libertà di culto ai cristiani. Costantino (cinico e interessato la sua buona parte) aveva compreso che la nuova religione, così largamente diffusa soprattutto tra i soldati, avrebbe potuto essere il collante sociale utile a tenere unita la ormai vacillante compagine dell’impero.
Nel 330, per la prima volta, il natale di Cristo viene celebrato il 25 dicembre, data in cui da sempre il mondo pagano celebrava il natale del Sole.
Fu anche, il quarto secolo, periodo di dibattito e di grandi eresie (per esempio l’arianesimo che negava la natura divina del Cristo) e scismi che comportavano lotte accanite e coinvolgevano interi eserciti. A Nicea, nel concilio del 325, trova una sua definizione il controverso mistero trinitario, all’origine di tante eresie. Il Credo che ancor oggi i cristiani recitano altro non è che il cosiddetto simbolo niciano, elaborato in quell’occasione.
A Roma si succedettero qualcosa come 11 papi (in un primo tempo solo vescovi di Roma) e almeno 2 antipapi. Uno dei papi, lo spagnolo Damaso (papa piuttosto turbolento, se è vero che fu coinvolto in una enorme rissa, una battaglia, anzi – un centinaio di morti! – a Roma, nei pressi della chiesa di santa Maria Maggiore contro i fautori dell’antipapa Ursino) stabilì che il vescovo di Roma era depositario della linea di successione di Pietro. Il suo successore, Siricio, è il primo ad assumere, all’atto della sua elezione (384), il titolo di papa.
Damaso è anche il vescovo di Roma che affida a Gerolamo la revisione del testo latino della sacra scrittura, la cosiddetta “vulgata”.
Quando san Martino nasce a Sabaria (l’odierna Szombathely) in quella che allora si chiamava Pannonia e ora Ungheria, Costantino sta diventando la personalità più importante all’interno della tetrarchia che regge l’impero.
Sarà un secolo di guerre durissime, guerre civili e guerre di contenimento dei popoli che urgono ai confini dell’impero. Attorno al 330 Martino, giovanissimo e soldato, si trova nelle Gallie. È in quel periodo che ad Amiens avviene l’episodio del mantello cui sono legate da sempre la storia e l’iconografia di Martino.
***
Quando nasce, il padre, militare di carriera, lo segna con quel nome, Martino, che vuol dire “piccolo Marte”, legandolo dunque, nei suoi progetti almeno, al ruolo di soldato per tutta la vita. Martino, subito dopo il congedo militare e prima ancora di diventare prete, spinto da un sogno, si recherà in Pannonia per convertire i genitori: ci riuscirà con la madre, ma suo padre si dimostrerà irremovibile dalla fede pagana.
Proprio per seguire gli spostamenti del padre, si trasferisce a Pavia, cittadina operosa e aperta alle novità. Martino ha 10 anni; è qui che conosce il cristianesimo e, subito coinvolto, si iscrive al catecumenato.
Possiamo pensare che il padre non fosse contento di questa scelta e che ostacolasse il ragazzo in ogni modo. Infatti, sfruttando una piega del regolamento che consentiva di anticipare a 15 anni l’arruolamento obbligatorio (usualmente previsto per i 17 anni), il padre gli fa compiere il giuramento militare praticamente nello stesso giorno in cui Martino depone la toga pretesta, simbolo dell’adolescenza.
Martino è il figlio di un veterano e ciò gli conferisce dei privilegi: ha incarichi di sorveglianza e di ronda, soprattutto riceve soldo doppio.
È proprio durante uno dei suoi servizi di ronda che, ancora giovanissimo, trova alle porte di Amiens (nel frattempo si era trasferito nelle Gallie) il povero ignudo al quale regala metà del suo mantello.
Il grande poeta di Valdobbiadene, Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato (535-603) che a Martino ha dedicato un poema in 4 libri, mette in bocca al giovane soldato parole che vanno diritte al cuore anche dell’uomo moderno: «Un po’ più di caldo a te, un po’ più di freddo a me ». Martino, dunque, non è il ricco che regala il superfluo: è un soldato che spartisce la piccola risorsa di cui dispone.
L’ignudo coperto dal mantello rimanda ad un altro episodio, meno noto, che accade a Martino quando è già vescovo. Un malato bussa alla porta e chiede di essere rivestito, ha freddo, batte i denti. Martino ordina ad un suo diacono di provvedere, ma questi non lo ascolta. Allora si avvicina all’uomo, si toglie la tunica e gliela mette addosso. Poi chiama di nuovo il diacono e gli ripete: «Guarda che c’è un uomo nudo».
Ma la nudità è, ora, la sua, a malapena celata dalla cappa episcopale. Stizzito, il diacono butta sulla strada una tunica di lana grossolana, fastidiosa ad essere indossata. Con grande umiltà e in silenzio, Martino se ne riveste e si avvia a celebrare messa. La leggenda vuole che, durante la consacrazione del pane e del vino, una luminosa fiamma circondasse le sue mani e il suo capo.
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Nel periodo in cui accade l’episodio di Amiens, Martino riceve il battesimo. Non gli è possibile congedarsi, come certo vorrebbe, e anzi fa carriera perché viene chiamato a far parte delle alae scolares, cioè del corpo sceltissimo che costituiva la guardia dell’imperatore. Si dimostra soldato fedele e soprattutto buon camerata, aiutando ad esempio i compagni d’armi troppo veloci nel dilapidare la loro paga. Il servizio dura quasi venti anni.
A dire il vero, il suo biografo Sulpicio Severo, parla di due anni soltanto, fornendoci un dato chiaramente sbagliato.
Ma questo sbaglio, certo voluto, tradisce un disagio che accompagnò per tutta la sua vita Martino: l’aver militato nell’esercito imperiale dopo il battesimo era considerata una macchia per il cristiano. E nel 386, papa Siricio decreta, raccogliendo un’istanza largamente diffusa, che un soldato il quale avesse continuato la milizia dopo il battesimo, non potesse in alcun modo essere ammesso al clero. Nel 386 Martino è già vescovo da 15 anni, ma si può immaginare a quali difficoltà e ostilità andasse quotidianamente incontro, a cominciare dallo stesso sinodo episcopale.
Il suo congedo fu clamoroso e destò vasta eco.
Nel 354 l’imperatore Costanzo (ma computi diversi fanno risalire l’episodio alla militanza sotto un altro imperatore, Giuliano detto l’Apostata) fu impegnato nelle Gallie in una campagna militare contro gli Alamanni.
Prima della decisiva battaglia di Rauracum, nei pressi dell’odierna Basilea, come di consueto, l’imperatore distribuisce delle ricompense in denaro per spronare i suoi. Martino evidentemente è giunto al limite. Rifiuta il premio e, anzi, preannuncia che sta per chiedere il congedo.
Costanzo si infuria, cerca di dissuaderlo e, quando si rende conto che Martino è irremovibile nel suo proposito, lo fa gettare in catene.
Sarà proprio Martino, ordina, ad affrontare per primo il nemico, nella battaglia del giorno dopo. Insomma, un modo sicuro per votarlo alla morte.
Martino non dice nulla e il mattino seguente si presenta in prima linea, senza armi, senza elmo, senza lorica, senza scudo. Un bersaglio facilissimo, inoffensivo. E gli Alamanni, i terribili nemici, a quello spettacolo depongono le armi e chiedono la pace.
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Comincia qui la seconda parte della vita di Martino, quella dedicata al Signore e al popolo.
Dopo il congedo, si reca a Poitiers, dove nel 353 era stato eletto vescovo Ilario. Anche lui era un convertito. Simpatizzano subito. Ilario sta combattendo una dura battaglia contro l’arianesimo, fortissimo nella parte orientale dell’impero e che l’imperatore Costanzo sta pesantemente appoggiando anche in occidente.
Ilario ha bisogno di uomini solidi, dalla personalità temprata e dalla fede senza crepe: propone a Martino il diaconato come premessa al sacerdozio.
Martino sa che quella è la sua strada, ma non si sente ancora maturo. Un giorno (dice che un sogno lo spinge a farlo) parte alla volta della nativa Pannonia dove vuole convertire i genitori. La madre accoglie la religione del figlio, il padre no.
Con qualche amarezza, Martino si accinge al ritorno. Sulla via che lo riconduce alle Gallie, si ferma a Milano dove viene a sapere che, dopo il concilio di Bèziers del 356, l’arianesimo ha intrapreso una vittoriosa offensiva anche in occidente. Non solo, ma il campione dell’ortodossia, il suo grande amico e protettore Ilario, è stato mandato in esilio e confinato nella lontana Frigia.
Martino si ferma a Milano, ma il vescovo locale, Aussenzio, molto vicino all’arianesimo (alla sua morte, nel 373, gli succederà Ambrogio) prende a perseguitarlo. Martino si ritira su un’isoletta davanti alla costiera ligure, Gallinaria, e trascorre un periodo di meditazione e preghiera.
Quando gli arriva la notizia che Ilario è tornato dall’esilio, decide di raggiungerlo. Il ricongiungimento tra i due amici avviene ancora una volta a Poitiers.
Siamo negli anni successivi al 360 e non vi è dubbio che proprio in questo periodo Martino sia stato fatto prima diacono e, subito dopo, prete. La vocazione di Martino alla vita monastica è fortissima: Ilario possedeva dei terreni e una casa a Ligugé, poche miglia fuori Poitiers.
Fu quello il nucleo del primo monastero europeo, dove Martino si trovò presto circondato da discepoli che dividevano la loro vita tra l’esperienza di evangelizzazione del territorio circostante e l’esperienza forte della “laura”. La laura era una forma di monachesimo mutuata dall’oriente, in cui i vari monaci conducevano vita eremitica e si radunavano solo in determinati momenti. La parola, che deriva da un termine greco-bizantino, indica una formula a metà tra la vita cenobitica in comune e l’eremitaggio che voleva i monaci isolati permanentemente l’uno dall’altro. Nella laura i monaci vivevano una esperienza eremitica avendo però dei momenti comunitari (i pasti e la liturgia, ad esempio). Sacra Scrittura e i testi dei grandi difensori della fede erano i libri su cui si formavano i monaci.
***
La fama di Martino è grande e si diffonde sempre più.
Narra il suo biografo che in questo periodo egli compie i suoi due primi, clamorosi, miracoli: risuscita un giovane catecumeno morto durante la sua assenza e lo schiavo di Lupicino, un ex-magistrato romano ritiratosi da quelle parti. Ogni volta Martino fa allontanare tutti e poi si distende per ore sul cadavere, abbracciandolo, quasi a voler comunicare la sua forza, la sua energia vitale al defunto.
Nel 371 muore Liborio, il vescovo di Tours, un centinaio di chilometri a nord di Poitiers, sulla Loira. Di Martino, come nuovo vescovo di Tours, si parla subito. Non mancano gli oppositori che tirano in campo la sua lunga carriera militare ma che temono, con ogni probabilità, il suo carisma e soprattutto il suo metodo innovativo.
Ma chi proprio non vuole sapere di una scelta puntata su Martino è lo stesso Martino. Fare il vescovo, lui lo sa bene, vuol dire non solo fare il pastore di un popolo ma anche rivestire una carica che comporta molte responsabilità civili. Lui si sente chiamato alla vita solitaria, di meditazione. Le traversie del suo amico Ilario sono lì ad ammonirlo. Quando qualcuno gli avanza la proposta, lui dice che proprio non se la sente.
È a questo punto che interviene Rusticio.
***
Rusticio è un contadino di cui nulla sappiamo perché il suo nome appare solo a questo punto della vicenda esistenziale di Martino. Va a trovare il santo taumaturgo a Ligugé e gli racconta che sua moglie sta molto male, è in punto di morte anzi. Martino si mette in cammino, non può sottrarsi alla richiesta. Ma quella che lo aspetta è un’imboscata. Sulla strada di Tours un gruppo di cristiani lo imprigiona, lo porta nella città turrita e non lo libera fino al momento in cui lui non accetta di candidarsi all’episcopato. L’opposizione degli altri vescovi continua, ma Martino viene eletto per acclamazione dalla gente di Tours. Cominciano così i 26 anni di un episcopato destinato a segnare la storia europea di quel secolo e dei secoli successivi.
Di fatto Martino reinventò e fondò per sempre ruolo e funzioni del vescovo. Lui che aveva come ideale di vita il modello monastico e l’isolamento che questo comporta, si diede ad evangelizzare le campagne come mai era accaduto.
Bisogna tener presente che nel quarto secolo le Gallie erano praticamente tutte da cristianizzare.
Il cristianesimo era radicato in qualche centro urbano (tra cui Poitiers e Tours, appunto), nella Provenza, nelle altre zone che si affacciavano sul Mediterraneo e tra le popolazioni rivierasche della vallata del Rodano. Le campagne erano ancora largamente permeate li padroni, prefigurazione di quella servitù della gleba che fu per secoli vera e propria schiavitù.
Il contadino era gravato e vessato da una serie infinita di tasse, balzelli, tributi che molto spesso non era in grado di pagare. Gli insolventi venivano perseguiti da funzionari che giravano per il territorio a capo di un vero e proprio esercito con l’incarico di esazione delle tasse. Chi non poteva pagare veniva imprigionato, torturato e anche mandato a morte. I supplizi e le esecuzioni avvenivano in pubblico perché fossero di esempio.
I biografi raccontano l’esemplare vicenda che vide protagonisti Martino e Aviziano (e Aviziano appare, ai lettori moderni, come singolare anticipazione del padrone che impone lo scomio ai suoi contadini).
Aviziano era proprio uno di questi funzionari, un comes. Il titolo di comes (conte, cioè, vero e proprio preludio al feudalesimo) era stato introdotto nel 330 da Costantino per spazzare via e sostituire con un unico titolo tutti i titoli (con relative e non sempre chiare attribuzioni) della pletorica burocrazia imperiale.
Nel caso di Aviziano, siamo di fronte ad un plenipotenziario che aveva come unico scopo quello di riempire le esangui casse imperiali.
Un giorno Aviziano si presenta sotto le mura di Tours con il suo esercito e una lunga fila di prigionieri avvinti da pesanti catene.
Qualche traditore, alcuni disertori, magari diventati briganti, molti contadini insolventi. Capelli lunghissimi, braccia così scheletriche che perfino i ceppi sono larghi, visi tanto emaciati che è impossibile riconoscerli. Non hanno nemmeno lacrime da piangere. Piangono invece quelli che li vedono sfilare. Fratelli, sorelle, genitori, amici, tutti minacciati, prima o poi, di egual sorte.
Il corteo attraversa Tours, tragico monito per tutti. Aviziano prende possesso della sede a lui riservata e ordina che siano apprestati strumenti di tortura e supplizio per il giorno dopo.
Troppo per Martino, inaccettabile.
Il vescovo è già vecchio, gli costa muoversi ane penetrate dal paganesimo. L’autorità del vescovo, di fatto, si esplicava solo nel contesto urbano. Fuori delle mura della città, la sua autorità era nulla.
E serve aggiungere che l’unica realtà nelle campagne era dettata dal rigido rapporto tra padroni latifondiari e coltivatori assoggettati a ta- che perché sa che lo attende una prova terribile, un confronto che gli prosciugherà ogni stilla di energia. I biografi raccontano la vicenda tra realismo e leggenda. Martino si trascina davanti alla porta del palazzo di Aviziano. Si stende per terra. Aspetta e prega.
Un angelo visita nel sogno Aviziano, gli dice che il santo vescovo, il taumaturgo potente di cui tutto il mondo parla, colui che ha colloquio diretto con gli angeli e perfino con Dio, è disteso fuori della porta, sulla nuda terra. Come può Aviziano dormire tranquillo mentre il santo Martino patisce il freddo della notte e della stagione? Aviziano si desta, urla ai servi che vadano ad aprire, ma essi non vedono nulla. Tra loro corre un sorriso di scherno. Quell’Aviziano sta proprio invecchiando, si fa impressionare dai sogni notturni, si dicono.
Aviziano riprende a dormire e l’angelo torna a visitarlo. Questa volta il conte va personalmente ad aprire la porta e scorge Martino disteso. È toccato nel profondo del cuore, il crudele Aviziano.
Guarda Martino e gli dice: «Tu hai trasformato un accusatore in un accusato. Ero io che dovevo torturare questa gente e invece sei tu che torturi me. Mi sconfiggi, ma non combatti ad armi pari. Tu hai Dio con te, io sono solo».
Martino non proferisce parola. Si alza e si allontana.
Il mattino seguente Aviziano chiama i suoi subalterni.
Fa aprire prigioni e gabbie, libera tutti i prigionieri e si allontana da Tours.
Certo, tra leggenda e storia. Ma Martino quando qualcuno gli faceva qualche offerta, magari per una miracolosa guarigione, non rifiutava e destinava il denaro ai debiti dei contadini insolventi o, in altri casi, al riscatto di qualche prigioniero, catturato dalle popolazioni barbariche del nord.
***
Martino ha capito che Aviziano ha un suo disagio interiore, un tormento profondo nell’anima.
Che non è un persecutore rozzo e sordo ai lamenti. Trova il modo (e i biografi risolvono l’episodio nei modi mitici e leggendari del duplice intervento angelico) di acuire il suo disagio, di farlo salire alla superficie dell’anima.
Incontrerà ancora Aviziano, Martino, e lo libererà da un demonio che gli sta sul collo. Di colpo Aviziano, alleggerito di quella presenza demoniaca, si troverà a non essere più l’implacabile giudice, persecutore del popolo. Sentirà pace e mitezza entrare nel suo cuore. Martino aveva anche questo tipo di attenzione.
E del resto la sua azione pastorale non si fermava certo qui, a questi atti in qualche modo appariscenti, clamorosi.
Martino l’innovatore, Martino il vescovo che sente troppo stretto, soffocante anzi, il piccolo ambito dei bastioni cittadini. Tutto l’episcopato di Martino è caratterizzato dalla istituzione di parrocchie rurali.
Spesso si pone l’accento sulla lotta di Martino al paganesimo.
Una volta distrusse un tempio dedicato alle divinità pagane. In un’altra occasione ottenne che fosse abbattuto un albero sacro in mezzo alla ostilità della popolazione pagana. Qui si sottopose ad una sorta di “giudizio di Dio”: per dimostrare la sua forza spirituale, fece abbattere l’albero ponendosi nella traiettoria di caduta e riuscendo a fermarlo a mezz’aria.
Inutile dire che ottenne una conversione in massa. Ma questa lotta di Martino al paganesimo non è la sterile battaglia di chi vuole distruggere una cultura per sostituirla con una cultura aliena.
È piuttosto la motivazione fondante di una strategia pastorale volta ad una promozione complessiva della realtà contadina del suo territorio.
Sa bene che istituire parrocchie non basta. Martino pensa allora alla formazione dei preti. Sceglie una spianata, un po’ fuori le mura di Tours, a Marmoutier, uno spuntone di roccia a picco sulla vallata della Loira.
Ancor oggi si possono vedere a Marmoutier le rovine dell’abbazia che Martino vi fece costruire.
Quel luogo divenne il cuore della diocesi.
Intere generazioni di monaci vi si formarono.
Il sistema era quello sempre quello della “laura”, già sperimentato a Ligugé.
E Martino, inoltre, girava in continuazione tra le parrocchie della sua diocesi. Le assidue visite pastorali furono forse la caratteristica più appariscente del suo episcopato. Viaggiava a piedi, a dorso di mulo, in barca. Nei villaggi, meta delle sue visite, si faceva preparare un giaciglio nella sacrestia. Quando se ne andava, le pie donne del villaggio si dividevano la paglia del giaciglio, convinte che avesse assorbito dal santo un potere miracoloso.
Del resto la fama di guaritore di Martino era immensa anche perché riusciva a curare a distanza.
Un nobile gallo-romano, Arborio, nipote del famoso poeta Decimo Magno Ausonio, guarì la figlia ammalata di febbre quartana, semplicemente mettendo sul corpo della bambina una lettera scritta da Martino.
E a una donna che soffriva i gravi emorragie bastò toccare la frangia della sua veste per essere guarita: trasparente rivisitazione della guarigione dell’emorroissa nell’episodio evangelico narrato da Luca (8, 43-48) e da Marco (5, 25-34), quando Cristo dice «Qualcuno mi ha toccato, perché io ho sentito che una virtù è uscita da me».
A dispetto della sua fama, durante i suoi trasferimenti Martino era soggetto a tutti i rischi di chi viaggiava in quel tempo: briganti e imboscate.
Prese più di qualche legnata, ma finiva invariabilmente col convertire i suoi aggressori.
La situazione in cui maggiormente egli dovette riflettere sulla sua idea di Chiesa fu, in ogni caso, la questione connessa al teologo Priscilliano.
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Priscilliano era spagnolo, nativo di Avila (345 ca). Divenne famoso con le sue ardenti predicazioni che proclamavano la necessità di compiere nella vita scelte di rigorismo ascetico. Fu fatto vescovo della sua città, ma ad un certo punto cadde in sospetto di eresia. Era accusato di essersi avvicinato al manicheismo e di praticare la magia a scopi delittuosi. Qualche decennio più tardi, a dimostrazione di una avversione mai sopita, un altro spagnolo, Paolo Orosio, scriverà in un suo promemoria ad Agostino: «Priscilliano è uno sciagurato peggiore dei manichei perché pretende di confermare la sua eresia anche attraverso il Vecchio Testamento».
Il processo contro Priscilliano e suoi seguaci fu istruito a Bordeaux in un concilio appositamente convocato. Priscilliano si rifiutò di comparire e si appellò all’imperatore Massimo.
Era di fatto una persecuzione che provocò lo sdegno di Martino che, pur non condividendo del tutto le idee di Priscilliano, aveva orrore del fatto che una questione dottrinaria fosse trattata in questo modo rozzo, che fosse strumen- talizzata e soprattutto che una persona di cui egli avvertiva la profonda onestà morale fosse condannata a morte – perché questa era la pena prevista – per le sue idee anche se eretiche.
Scese in campo, il vescovo di Tours, proclamando ad ogni occasione il suo dissenso.
Martino era circondato dall’ostilità di molti vescovi dei dintorni. Dato il rigore della vita ascetica che conduceva e che imponeva ai suoi monaci (molto spesso di buona famiglia, proclivi a comportarsi secondo i modi raffinati della nobiltà e dunque talora restii a sottoporsi a regole durissime) apparve, in qualche modo, complice di Priscilliano.
Ma in realtà era un pretesto per attaccarlo o quanto meno per metterlo sulla difensiva: troppo innovativo era il suo metodo, tutto basato su una continua e progressiva missionarietà.
Troppo accentuato il suo stare con gli umili: ogni suo atto suonava come condanna e critica agli altri vescovi.
L’occasione che lo vedeva schierato a fianco di Priscilliano pareva la migliore possibile per dichiarargli guerra. Il processo presieduto dall’imperatore Massimo si tenne a Treviri (l’attuale Triers, sulla Mosella, nel tedesco land Renania-Palatinato). Quando Martino vi giunse, sembrò inizialmente ottenere un buon successo: fece differire il dibattimento e ottenne da Massimo che mai si sarebbe, in ogni caso, arrivati alla condanna a morte.
Tranquillizzato, Martino lasciò Treviri, ma dopo la sua partenza il partito a lui contrario, capeggiato dal vescovo spagnolo Ithace, riuscì a far cambiare idea all’imperatore. Priscilliano fu giustiziato assieme a sei suoi seguaci.
Secondo la testimonianza di san Girolamo, fu il primo a patire la pena capitale per eresia.
Spiazzato e confuso, Martino venne a trovarsi al centro di una questione politica, prima ancora che religiosa, per lui del tutto nuova. L’esecuzione di Priscilliano di fatto autorizzava e legalizzava la persecuzione contro i priscillanisti in Spagna. Era, nella pratica, un attacco in grande stile all’ideale di vita ascetico e alle correnti che volevano la Chiesa povera e schierata con gli umili.
I funzionari di Massimo si scatenarono in Spagna: una vera e propria caccia all’uomo.
Bastavano, racconta Sulpicio Severo, un sospetto e perfino un abbigliamento non giudicato idoneo per arrestare uno come eretico.
«Era sufficiente uno sguardo per emettere un giudizio», dice con molta crudezza il biografo di Martino.
I vescovi contrari a Martino gli avevano dunque dichiarato guerra, ma non potevano, nello stesso tempo, fare a meno del suo prestigio, del suo enorme ascendente su tutto il territorio delle Gallie. E la persecuzione contro i priscillanisti si rivelò per quello che voleva essere: un vero e proprio intrigo per incastrare Martino.
Il quale si trovò davanti ad un bivio: o faceva pubblico atto di entrare in comunione con i vescovi suoi avversari (di fatto avallando la condanna e l’esecuzione di Priscilliano) o la persecuzione contro i priscillanisti non si sarebbe fermata. Già i funzionari imperiali avevano le prigioni piene e aspettavano solo l’ordine di cominciare il massacro.
In quelle ore si doveva consacrare un nuovo vescovo.
A Martino si chiedeva di partecipare alla cerimonia di consacrazione assieme agli altri vescovi. Sarebbe stato un segnale pubblico di comunione.
Martino, per scongiurare la strage, piegò la testa e arrivò ad un accordo, anche se solo formale.
Cedette per quel giorno, apparì in pubblico per la consacrazione, ma non volle mai firmare alcun documento.
Quel compromesso gli pesò addosso, come un terribile fardello morale, per tutta la vita.
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Del resto capitò più volte a Martino di confrontarsi col potere. In ogni occasione ci teneva a ribadire l’autonomia della Chiesa rispetto all’impero e ad ogni altra istituzione civile.
Strano e complesso il rapporto col potere civile: chi lo deteneva, magari osteggiava idee, comportamenti e atteggiamenti di Martino, ma non poteva figurare di mettersi apertamente in contrasto con lui, col suo immenso carisma, col suo assoluto ascendente e, perché no?, anche con i suoi miracolosi (e dunque temibili) poteri.
Parlava con gli angeli, Martino, confondeva i diavoli in qualunque modo si presentassero e si travestissero. Una volta smascherò clamorosamente un monaco aggregatosi casualmente alla sua comunità, Anatolio, che sosteneva di essere in contatto diretto con il Figlio di Dio: lo costrinse ad una figuraccia davanti a tutti.
Martino era poi profondamente, visceralmente amato, umile tra gli umili. Guariva la malattia dei malati più immondi, i lebbrosi, baciando le loro piaghe.
Impossibile, davvero, per i potenti non fare i conti con l’ingombrante e fortissima personalità di Martino.
Ebbe modo di scoprirlo a sue spese, l’imperatore Massimo (usurpatore e assassino ma, nel complesso, buon amministratore), quello che fece condannare Priscilliano.
Approfittando della presenza di Martino a Treviri per il processo, lo invitò un giorno nel suo palazzo imbandendo un pranzo e una festa straordinari. Massimo voleva, a suo modo, davvero onorare il santo ospite con un evento eccezionale, ma naturalmente Martino si accontentò di molto poco, evidenziando anche grande disagio.
La prima coppa di vino viene porta, come di prassi, dal cantiniere a Massimo. Ma l’imperatore fa segno che sia offerta a Martino: lui, l’imperatore, berrà per secondo ricevendo la coppa proprio dalle mani del santo vescovo. Una sorta di legittimazione, in un certo qual modo.
Martino beve e poi, nel silenzio e nel disagio generali, porge la coppa al giovane prete che lo accompagnava sempre. Martino osa fare alla mensa dell’imperatore quello che nessuno oserebbe fare alla mensa del più basso magistrato.
I biografi sottolineano l’importanza del gesto: una affermazione dell’autonomia della Chiesa e della sua superiorità sull’Impero.
Per buona giunta Martino predice a Massimo la sua prossima e terribile fine: di lì a pochissimi anni, infatti, fu tradito ad Aquileia dai suoi soldati e trucidato da Teodosio.
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Martino visse più di ottant’anni in un’epoca in cui l’età media non arrivava ai quaranta. Attraversò un secolo di sangue, lotte, invasioni. Di violente contrapposizioni religiose, di intrighi, di vessazioni e ingiustizia. Il suo comportamento fu sempre di grande generosità, di disponibilità assoluta, di apertura senza limiti ad un popolo che viveva nell’indigenza, nell’ignoranza, nella miseria e nella malattia.
Diede un segnale del suo animo a 15 anni, dividendo in due il mantello. Morì facendosi distendere su un giaciglio di cenere.
Venanzio Fortunato, che due secoli dopo dedicherà a Martino l’ultimo grande poema che la latinità abbia prodotto, lo descrive così: indulgente verso il peccato, presidio del perdono, rifugio dei colpevoli, speranza dei miserabili, persecutore del demonio, difensore dei fedeli, riscatto dei prigionieri, strada per chi si è smarrito e cura per chi è malato, guaritore di tutti, di tutti innamorato, di tutti irripetibile amico.
Molto di più di una devota litania. Un’apertura di credito morale, piuttosto, e un riconoscimento di valori che hanno segnato la storia.
Dise la gente che li vede andar:
Largo, che passa
un san Martin de strasse!
(Berto Barbarani)