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‘na giossa de Speransa

‘na giossa de speransa

 

 

Parché scrivo in dialeto…?
Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni
gà pur scrito in toscan.

Seguo l’esempio.

Giacomo Ca’ Zorzi (Giacomo Noventa)

Uomo in cammino.
Non riesco a pensare ad altra immagine quando mi figuro Danilo Mason.
Zaino in spalla, a piedi o in bici. Per pianure o su scoscese salite. In compagnia, se serve o se capita in solitudine.
Cantastorie, aedo, rapsodo, troviero o trovatore. Comunque poeta.
E tuttavia mai menestrello. Menestrello allude alla corte, al canto rivolto al signore, ad un parlare subalterno, alla parola asservita e servile.
Danilo no, perchè Danilo è un uomo libero. Sceglie da solo le strade su cui camminare, individua le mete, i traguardi.
Così Mason ha deciso che il versante giusto della sua vita è quello del darsi, è quello dello spendersi.
Con lo strumento della parola che può sembrare semplice ed invece è complesso, difficile, impegnativo. Perchè le parole sono fiume.
Se poi sono affidate alla scrittura sono fiume in piena, fiume ricco d’acque, fiume di risorgiva perennemente alimentato, fiume di ghiacciaio che avverte le stagioni (e le attende e le marca), fiume di pianura e fiume di montagna.
Fiume che modella il paesaggio e scorre imperioso. Che non vuole dighe o argini perchè già da sé conosce il cammino, senza costrizioni. Fiume che di tanto in tanto si fa lago e sempre cerca il mare. Fiume che trascina pietre e rami. Che conserva, nel suo andare, memoria di ogni luogo che attraversa.
La porta lontano, quella memoria. La partecipa a tutti e a ognuno la comunica.
E se poi la parola scritta scopre la misura, l’armonia, il giro ampio e sonoro del dialetto è fiume alla cui sorgente tutti si dissetano e alla cui riva tutti accorrono. Uno stare insieme vitale e diffuso in ognuno, una ricetta esistenziale, un approccio alla quotidianità.
Del suo poi Mason non ci mette solo le scelte letterarie (appunto: la poesia che si fa scrittura e trascrizione del dialetto) ma anche il modo di proporsi. Perchè questo è un poeta che ama leggere in pubblico quanto scrive, ha un suo modo inimitabile di proporre, magari accompagnato da uno strumento musicale o dalle voci di un coro. Comunque sempre sottolineato da un pausare e da un gestire che è comunicazione pura, immediata, utile a costruire legami ed efficace.
Sulla sua strada Danilo Mason ha scoperto in questo modo il valore civile del fare poesia. Questa sua terza silloge ne è prova e documento.
Il cantastorie Mason, scrivendo se stesso e recitando il suo scrivere, raccoglie qualche contributo e lui lo trasforma in aiuto per chi meno possiede e magari nulla possiede. Reca il suo obolo alle grandi povertà del mondo, dove comunque scopre l’uomo che è irresistibile vocazione ad esistere, ad esserci, a iscriversi nella storia, a sconfiggere la morte e l’oblio.
Così qui trovano cittadinanza anche i versi dedicati all’amico che conosceva ogni cosa della montagna e dalla montagna è stato tradito. Qui si descrive la geografia grande degli attentati all’uomo, dall’Ortigara al Don, connesse in modo inestricabile alle memorie familiari, alla storia che è ognuno di noi, terminale di una progenie lunga.
E si disegna però anche la geografia piccola, minuta anzi dell’esistenza quotidiana. La chiesetta, la stradina, il pullulare dell’acqua, i piccoli riti quotidiani, il sorridere e il piangere. Il parlare e il silenzio.
C’è una forza rude e gentile ad un tempo, nella scrittura del poeta di Trebaseleghe. Un dirsi e un darsi per istinto e in forme semplici.
Una immediatezza mai disgiunta dalla volontà di testimonianza e dall’impegno, dalla proposta. Ne scaturisce un umanesimo costruito sulle fondamenta dell’onestà e della schiettezza.
Una gran bella credenziale. Ascoltiamolo il poeta Mason.

 

(Treviso, marzo 2006)

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