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Paolo Tenuta

La casa del silenzio

selvatico

(di Paolo Tenuta, Editrice San Liberale, Treviso. Collana i Girasoli)

 

 

 

 

 

 

Un libro delle “piccole storie”, della rievocazione dell’infanzia, dell’esplorazione della memoria. I racconti di Paolo Tenuta avvincono e portano lontano: vi confluiscono esperienza esistenziale, dolore, gioia, serenità ed equilibrio.

Il libro è illustrato dalle chine di Bruno Zago.

 

Arrivati a scuro, ceniamo sull’erba.

Le lucciole! a sciami!

La loro trama silenziosa veste

il digradare delle fasce,…

una scaléa d’oro.

(Camillo Sbarbaro)

 

In ogni avventura esistenziale, breve o lunga che sia, luminosa o costretta nei vicoli bui dell’anonimato, giunge una stagione in cui è necessario intraprendere la via a ritroso, rovistare nel magma dei ricordi, scandire gli attimi in cui l’individuo si è formato, fissarli, quegli attimi, nel dagherrotipo (talora sbiadito) della scrittura memoriale.

Per Paolo Tenuta questa stagione giunge ora, sommessa, in punta di piedi, ma con l’impatto fascinoso di uno scrivere già adulto e maturo. Paolo Tenuta entra nella soffitta della propria anima, oggi, con queste sue pagine nitide, incise con precisione e rigore, quasi da acquaforte o da puntasecca.

E delimita un mondo che desta nel lettore voglia di entrare, di condividere. È certo tale la prima emozione che assale chi entra in contatto con questa scrittura.

Un mondo ricostruito, ma non artificioso. Tenuta modula la sua voce al femminile, guardando attraverso gli occhi di una bambina, Agnese. Entrando nel microcosmo infantile con un pudore straordinario.

Questo mondo, dunque, è sospeso tra simbolo e realtà. Nel senso che è sempre percepibile in modo netto come si alluda a qualcosa di ulteriore. Qualcosa di metafisico, si potrebbe aggiungere, nel senso primo, quello che ci viene suggerito dall’etimologia  del termine: oltre la fisicità, oltre lo spessore e le croste della quotidianità.

Una scrittura, anche, in equilibrio tra dolcezza e ruvidezza, tra memoria che si vorrebbe conservare e la paura che la memoria stessa sia in qualche modo insidiata, minacciata.

Diciamo anche: il timore che la memoria sia profanata, perché essa, custodita in quella sorta di tabernacolo che è appunto la “soffitta dell’anima”, ha una dimensione sacrale e, come bene si percepisce in queste pagine, la violenza sarebbe sacrilegio, irruzione barbara in un mondo in cui protagonisti sono gli affetti, i sentimenti, le emozioni semplici.

Paolo Tenuta qui definisce, con strumenti essenziali, un disegno ambizioso e bello: quello di parlare all’anima profonda del suo lettore, ma anche di suggestionarne, talora accenderne i sensi. Parla all’olfatto e all’udito (oltre che alla vista, naturalmente), descrivendo, pagina dopo pagina, un microcosmo in cui si rileva con forza la volontà di cogliere il respiro segreto delle cose.

Ho pensato ad una sorta di panenteismo, la prima volta che ho letto le pagine di Paolo Tenuta, tenendo d’occhio questo nume sconosciuto che sembra pervadere ogni cosa. Mi aspettavo di vederlo uscire, in una sorta di epifania conclusiva e rivelatrice, questo nume.

E invece no, perché l’epilogo è lasciato ad uno scarno finale, scavato ed essenziale, in cui, ad essere modulata, è l’elegia malinconica di chi è consapevole di averlo solo sfiorato, il mondo immenso di quel tesoro che è la memoria.

Allora si tratterà della acuta, struggente sensibilità dell’autore, capace di infondere, lui, con il suo scrivere affettuoso e profondo, vita alle cose che circondano. Gli oggetti della memoria sono lì, inerti, bruciati dalla fotografia che ha cercato di sottrarli allo scorrere del tempo: per resuscitarli bisogna sfiorarli con lo sguardo, con la punta delle dita.

Nasce così, da questa operazione, la scrittura di Paolo Tenuta. Che è comunque difficile da analizzare: appartiene per certi versi all’area del raccontare, ma per altri a quell’area, non sempre definibile, della prosa lirica. Cioè della prosa che cerca il ritmo del verso, per farsi magica, orfica, evocatrice.

Perché, a chi leggerà, sarà chiara la preoccupazione primaria dello scrittore: quella di dare il senso (il ritmo, appunto) di una realtà abitata dal tempo. Che è implacabile, ineludibile, inesorabile, certo. Ma qualche volta, grazie al miracolo di quella misteriosa entità che è la scrittura, si può fermare.

Addirittura lo si può costringere a camminare a ritroso, a rimettersi in discussione, a rivelare all’adulto, a posteriori, ciò che, agli occhi del bambino/bambina appariva inspiegabile, nebuloso, indecifrabile. Perfino ciò che allora era ostile, adesso appare (o può apparire) sotto una luce nuova.

Qui, nell’ambito di questa operazione memoriale, si delineano i muri di una casa che è “forte e sana” e dunque simbolo vivo di chi vi abita. Si prende, anche contatto, con una natura che è terrestre ma aspira all’alto, perché vuole catturare il vento, il sole, la luna. Vuole farli propri, accarezzarli, esserne penetrata.

Resta, dopo la lettura, una sensazione robusta, tutta legata a immagini che a volte assurgono a vette di bellezza, tenui e forti insieme, gentili ed essenziali. Si tratta davvero di una bella scrittura, che abbandona dietro a sé  una scia luminosa.

Si capisce bene che se Paolo Tenuta è sereno (e comunica serenità), questo accade perché lui, la sua serenità, ha saputa conquistarla con tanta fatica, filtrandola al macero della sofferenza.

Portando la sua esistenza, il suo mondo affettivo, la sua capacità di collegarsi con gli altri, all’equilibrio della saggezza.

 

(Treviso,1 luglio 2004)

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