PARADISO
CANTO XXXIII
(Treviso, Fondazione Cassamarca
Palazzo dell’umanesimo Latino
11 marzo 2008)
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Comincia così l’ultimo canto della Divina Commedia. L’ultima fatica, la più ardua, per la quale serve l’aiuto della donna che ha partorito il Cristo e soprattutto servono il massimo della perizia tecnica di Dante, lo spessore più profondo (se posso dire così) della sua tensione poetica, della capacità di indagine. Servono anche la più assoluta e cordiale adesione emotiva, lo scandaglio più accurato della sua ideologia, l’abbraccio più vasto delle conoscenze e della cultura. Serve insomma accogliere nella propria anima l’intero universo per raccontarne il nucleo creatore. Ed ecco subito l’irto gioco degli ossimori e delle antitesi. Maria è vergine, ma anche madre, ha saputo accettare con umiltà estrema il suo ruolo difficile e questo l’ha innalzata sopra ogni altra donna. Lei è meta certa del provvidenziale progetto di redenzione. Lei ha nobilitato a tal punto la natura umana che colui che ne è stato autore e creatore non ha disdegnato di farsi sua creatura.
Preghiera sublime e gloriosa che esce dalla bocca di san Bernardo di Chiaravalle, accreditato quant’altri mai a rivolgersi a Maria. Autorevole, ascoltato. Nato a Digione attorno al 1090 aveva fondato il suo monastero a Clairvaux, la Clara Vallis della sua vita, ed era stato forse il più grande mistico del suo tempo. Contribuì all’affermazione del culto di Maria, ma non è certo soltanto questo il motivo della simpatia di Dante nei suoi riguardi. Bernardo fu protagonista significativo di un complesso nodo culturale e religioso in un’epoca che vide muoversi (e dunque prima ancora motivarsi) le crociate, nascere nuovi ordini monastici, manifestarsi quella temperie dottrinale e filosofica che sarebbe sfociata nel pensiero della Scolastica. Ma Bernardo era il religioso che sapeva coniugare misticismo e azione pratica. Si dice abbia fondato centinaia di monasteri. Aveva spirito indomito e combattente. Predicò, su impulso di papa Eugenio III, la seconda crociata, quella di Luigi VII, Riccardo Cuor di Leone e Federico Barbarossa. Eugenio III, che sale al pontificato nel 1145, è un suo discepolo, Bernardo dei Paganelli. Quando viene eletto gli manda a dire: “Puoi mostrarmene uno che abbia salutato la tua elezione senza aver ricevuto denaro o senza la speranza di riceverne? E quanto più si sono professati tuoi servitori, tanto più vogliono spadroneggiare”. Aiutò papa Innocenzo II, fuggito a Cluny dopo l’elezione dell’antipapa Anacleto. Al Concilio di Etampes, grazie al suo intervento, il re Luigi VI riconobbe Innocenzo come il legittimo papa. Insomma Bernardo visse sempre nell’ortodossia ma aveva chiara la visione dei doveri autentici dei pastori chiamati a guidare il gregge di Dio. È dalla sua bocca dunque che esce la preghiera che domina la prima parte del canto.
Canto, sarà bene dirlo subito, di facile lettura, ma di difficile decifrazione. Già in questo paradosso è il tratto preciso, il profilo netto e stagliato della conclusione che il pellegrino assegna al suo andare. Del mondo morale che precisa e mette a punto in questi versi conclusivi. Dell’angoscia che lo aggredisce quanto più si scopre inadeguato a dire. Del suo desiderio di portare ad un finale non deludente il lettore che ha condiviso tutte le ansie, i disagi, le difficoltà del suo viaggio/scrittura. Ma il lettore non va nemmeno travolto dalla coreografia, dallo spettacolo, dall’effetto mirabolante. Il lettore deve pur sempre rammentare che quel viaggio avviene (e si sta concludendo) nel segno del veltro, della volontà di redenzione universale, dell’ansia di un ordine da ricostruire, dalla fiducia che tutto questo sia possibile. Il disio e il velle. Il desiderio di vedere e la volontà di amare. A regolarli è l’amor che move il sole e l’altre stelle, certo. Ma il compito del poeta, che ha a propria disposizione niente altro che la miseria del linguaggio umano, resta terribile, fa tremare i polsi.
Perchè Dante arriva lì, davanti al motore di tutto l’universo, con i mezzi che, per quanto potenziati, sono pur sempre condizionati dalla sua umanità. Non può far altro che nutrire il suo dire di dottrina, di dogma, di filosofia. Per evitare l’inaridirsi della parola deve avventurarsi sul terreno arido del pensiero, della teoria, perfino dell’erudizione. Per non rimanere vittima dell’afasia totale deve rubare parole e metafore al filosofo, al mistico, al predicatore, al narratore di eventi mitologici, financo al geomètra. Insomma questo canto conclusivo corre sul filo spartiacque di una sempre possibile caduta, della freddezza, in buona sostanza della morte dell’ispirazione. O, per dirla con Croce, della non poesia.
Eppure, alla fine il lettore è colto da profonda commozione, riconosce (anche se gli è difficile spiegarla) l’intima bellezza di questo canto, la sua dignità altissima, la giusta conclusione di un faticoso andare che proprio in questo canto raggiunge la meta. Il dio di Dante gli resta alieno, sconosciuto e tuttavia in qualche modo misterioso vicino. Sa, il lettore voglio dire, che il poeta in cammino lo ha visto e contemplato. Ne ha tratto consapevolezza e fiducia. Quelle Dante voleva spartire con chi ha condiviso l’angoscia della sua difficile partenza, i trasalimenti e i ripensamenti del viaggio, le incertezze e le perplessità, gli ammaestramenti ricevuti, le scoperte fatte, le rivelazioni. Non la visione di Dio che è per definizione incomunicabile, indicibile, irriferibile.
Dove allora pulsa il cuore di questo canto? In cosa risiede il fascinoso mistero della sua bellezza? Come sciogliere l’enigma di un canto dottrinale e filosofico che risuona nell’animo con la forza di poesia vera? Provo a rispondere così: Dante ha scelto di stare davanti a Dio con il suo corpo miserabile e fallibile. Ha deciso di accostare l’imperfezione dei suoi sensi alla perfezione di chi è vista e udito da sempre e lo sarà per sempre dal centro dell’universo fino al più remoto angolo. E di farla sentire, di renderla concreta questa imperfezione. Solo il dolore -un dolore fisico- dell’inadeguatezza può sublimare lo sforzo dell’autopromozione verso la conoscenza e la visione.
È come se Dante suggerisse che il suo essere uomo è ostacolo oggettivo al comprendere. Eppure lui è lì in quanto uomo, perchè è uomo, perchè appartengono alla sua condizione umana i problemi che lo hanno spinto ad intraprendere il viaggio.
Chiede a Dio, autore della sua imperfezione, di accettare la sua imperfezione. Chiede al motore del progetto provvidenziale di farlo strumento per la realizzazione di tale progetto, curando i mali del mondo, raddrizzando le storture, correggendo le deviazioni. Come un uomo può fare, intervenendo nel tessuto sociale che da uomini è formato. In questa dialettica perfezione/imperfezione, creatore/creatura, architetto/realizzazione del progetto è il segreto di questo canto, il suo movimento che è tutto spirituale, culturale, emotivo.
Tecnicamente Dante gioca proprio tra questi tre angoli: spirito, cultura, emozioni. Non ha che una sola cosa da dire: “ho cercato di accogliere in me, di assorbire quanto ho potuto. Mi sono imbevuto, impregnato. Sono stato vaso e ricettacolo. Attivo fino a quando ho potuto, passivo oltre il limite modesto delle mie attitudini e capacità.”
In questo canto ho catalogato più di cinquanta termini che alludono al vedere, al guardare, alla luce, alla vista, alle stelle, all’arcobaleno, all’ombra. Una decina di volte è usato il verbo “vedere”. Che resta alla fine della lettura se non un poderoso, autorevole, credibile “ho visto”? Obbligati a stare in parola, a credere al poeta reduce dal viaggio. A condividere. Leggendo il canto fermiamo la mente su queste parole: sono gli appigli per accompagnare il poeta nella sua visione ultima.
Se torniamo alla preghiera a Maria è perchè, ora, insieme a Dante cerchiamo il crescendo, l’acme, l’obiettivo finale. Subito nel segno di una parola forte, ventre, propria del linguaggio dei mistici (nella versione corrente dell’Ave Maria noi attenuiamo in “grembo”) sempre pronti ad affrontare situazioni psicologiche e fisiche con parole dirette e crude per introdurre senza mediazioni al concetto religioso annesso. Lì, in quel ventre, Cristo ha preso forma umana e si è dunque riacceso l’amore di Dio verso gli uomini. Poi l’immagine del fiore (l’Empireo stesso, in cui siamo, è un immenso, miracoloso fiore), della meridiana face (fiaccola di carità ardente come il sole di mezzogiorno), della fontana da cui zampilla speranza. E si noti ancora un contrasto qui/giuso, intra ’mortali. Il potere di Maria è tanto grande che i voti e le domande di grazia disgiunti da lei non hanno ali per volare. E del resto lei spesso precorre l’espressione stessa della domanda che l’uomo rivolge, per suo tramite, a Dio. Su Dante preme splendidamente l’immagine cavalleresca della buona regina seduta accanto al sovrano, del cui cuore conosce le segrete chiavi. Si spiega così il termine successivo, magnificenza, che corona misericordia e pietate.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.[1]
Bernardo chiude la sua sequela delle invocazioni (vere e proprie litanie adattate alla situazione) e riassume in poche parole il viaggio. Certo Maria già sa, ma le regole della cavalleria e dell’amor cortese esigono che la preghiera venga espressa alla luce della storia personale dell’orante (o di chi prende la parola per lui) che pure in qualche modo va enunciata. Anche qui il dualismo più volte incontrato tra il qui e l’infima lacuna. I due latinismi congiunti (infima e lacuna appunto) impreziosiscono il contesto e gli conferiscono una dilatazione e una indeterminatezza fuori di una precisa geografia. Come se Bernardo alludesse ad un abisso senza fondo, sede di ogni abiezione. E tutto è in funzione dell’ultima salute, il punto estremo e perfetto della salvezza, della felicità, della beatitudine.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.[2]
La preghiera arriva alla perorazione finale secondo uno schema caro alla retorica medievale. Dapprima i meriti dell’orante, poi l’illustrazione della grazia richiesta, infine l’adesione al raccomandato da parte del raccomandante che in questo modo lega il suo prestigio, la sua autorevolezza all’accoglimento della richiesta e, in buona sostanza, al lieto epilogo della vicenda. Le ultime parole di Bernardo gravitano attorno a quel ogne nube li disleghi, così potente e pregnante. La nube sarà l’offuscamento generato dal peccato, ma la sovrapposizione del “dislegare” aggiunge un qualcosa di minaccioso, duro e concreto. Di nodoso, verrebbe da dire, alludendo ai nodi, ai groppi da sciogliere. Bernardo chiede quella che i teologi chiamano perseveranza finale, vale a dire la persistenza nel bene e nella grazia di Dio (cioè nella lontananza dal peccato) fino alla morte.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».[3]
Preghiere accolte con gioia e subito girate, come in un gioco di specchi, alla sorgente di ogni luce, nella quale solo allo sguardo di Maria è concesso di penetrare tanto a fondo. Dante porta al punto più alto, cioè al compimento della perfezione, il suo desiderio di vedere e conoscere. Bernardo gli fa capire che la grazia gli è concessa, ma lui, il pellegrino alla meta, ha già imparato e sa per conto suo che deve guardare dentro alla luce che da sé è vera, cioè l’unica che ha origine in sé stessa, che non proviene da altre fonti. La vista di Dante diviene sincera, straordinaria astrazione di un aggettivo ben concreto che alluderà alla limpidezza, alla capacità di penetrazione. Nel cenno di Bernardo è il suo saluto di congedo. Adesso il rapporto tra umano e divino è come lo pensavano gli uomini medievali. Un’anima nuda davanti al suo creatore, in colloquio.
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.[4]
Inizia qui la celebrazione estrema dell’ineffabilità. Quello che Dante ha visto è troppo superiore sia alle sue capacità di registrare e ricordare sia alle parole atte ad esprimere. Dante usa il termine oltraggio in accezione crudamente etimologica con tutti gli effetti di senso possibili. Dio infrange tutti i confini delle umane capacità di comprensione. Il viaggiatore torna dalla strada percorsa e ne ricorda alcune cose sfumate, come in sogno. Però che dolcezza ancora, nella memoria. La dolcezza distilla: che capacità descrittiva in questa scelta lessicale, un goccia a goccia che cattura l’essenza della visione. Il ricordo si scioglie come neve al sole, è labile come le foglie su cui la Sibilla scriveva i suoi responsi. Deve essere proprio Dio, la somma luce, a conferire al poeta la potenza necessaria a raccontare quel momento, a rievocarne il terribile impatto emotivo.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.[5]
Dante, i cui occhi tanto hanno faticato ad abituarsi alla luce del paradiso, ora sente che si perderebbe se distogliesse lo sguardo da Dio. Mistero immenso del superamento e ribaltamento della normalità: colui che guarda congiunge il suo aspetto, la sua vista, con la verità assoluta, con la potenza di Dio. Dante dice valore e poi aggiunge tanto che la veduta vi consunsi. Cioè “portai la mia capacità di vedere al suo limite estremo”. Ma quel consunsi ha una forza notevole. Ci genera un significato indotto per cui non possiamo fare a meno di pensare che lo sguardo di Dante si consuma e lo fa volentieri. Tanto a che serve più la vista se è capitato di vedere il massimo? Ed ecco la visione: lì sono radunati in unità dal vincolo del divino amore, tutti gli elementi che nell’universo “si squadernano”, sono allo stato di dispersione. Vede gli elementi sostanziali e gli elementi accidentali. Ancora nel momento in cui scrive e racconta, tanta è la gioia che prova che è convinto di aver visto in quell’attimo il principio costitutivo del nodo, cioè del vincolo, che lega tra loro sostanze ed accidenti.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.[6]
Ed ecco l’oltraggio, l’oltre rispetto alle sue capacità di capire, ricordare, annodare, dare un nome. Ecco l’oblio che Dante chiama letargo, quasi alludesse ad un sonno della mente. In quell’oblio è il fascino del viaggiare, l’ammirazione di Dante per i più temerari viaggiatori di ogni tempo, gli Argonauti. Il viaggiatore verso Dio si ricollega alla sfida all’ignoto di Giasone e dei suoi. Dante raduna tutta la storia. Dice: “un solo attimo, quello della visione, è per me motivo di maggior oblio che i venticinque secoli trascorsi dall’impresa degli Argonauti quando l’ombra della loro nave destò lo stupore di Nettuno”. La prima nave costruita dall’uomo, lo stupore del dio. Straordinario Dante nel costruire l’inedito e l’eccezionale per mille strade diverse. Lo stupore di Nettuno ci riporta a Dante che non si vuole staccare dalla contemplazione del mistero divino. La sua mente è fissa, immobile, attenta. La contemplazione della luce è tale che non ci si può distogliere da essa. Lì è la perfezione, in qualsiasi altrove è l’imperfezione.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ‘mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ‘l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.[7]
Ancora l’inadeguatezza della parola. Il poeta si accosta ai misteri profondi della fede e il suo dire non è più significativo e utile del farfugliare di un lattante. Il poeta prende le distanze dal teologo, però: qui non è questione di capacità personali, è l’argomento ad essere inattingibile in sé stesso. Dante vede un mutamento in quella profondità. Non è Dio, perfezione assoluta, a mutare. È la sua vista che cresce di capacità e dunque avverte in modo sempre nuovo. Dice si travagliava: vi cogliamo il mutamento, certo, ma anche la fatica, l’affannarsi, l’angoscia della parola e della memoria insufficienti. Dante vede la Trinità: tre cerchi di tre colori uguali che si riflettono l’uno nell’altro come arcobaleno da arcobaleno. I cerchi coesistono ma misteriosamente, non sappiamo se in modo concentrico o altro modo. Poi si rivolge direttamente alla luce eterna: “solo in te posi, solo in te hai ragione di essere, solo tu puoi intendere te stessa, nell’essere intesa e nell’intenderti ti ami e gioisci”. Ancora la Trinità dunque. E subito dopo l’altro incommensurabile mistero: il coesistere in Cristo della doppia natura, umana e divina. In uno dei tre cerchi, quello che sembra generarsi dal primo come luce riflessa, si scorge la figura umana. Capire come divinità e umanità siano nello stesso luogo, nella stessa entità fisica, nella stessa visione, assomiglia al vano sforzo che compie lo studioso di geometria quando tenta di trovare la quadratura del cerchio.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;[8]
Facoltà intellettuali inadeguate. Il poeta non ha penne per volare. La comprensione arriva, in modo misterioso e non riferibile, per una folgorazione che riempie la voglia di sapere. La folgore che congiunge, alla fine del viaggio, il relativo all’assoluto. Non pare la rivelazione dei mistici, ma l’obiettivo raggiunto da uno che con le proprie penne ha cercato di volare. Anche se deve ammettere che ad un certo punto l’immaginazione, la capacità acuita di creare un tramite tra intelletto umano e divinità, si infrange. Come è logico, come era prevedibile. E tuttavia Dio, che è l’amore che muove ogni stella, “già regolava dello stesso moto il mio desiderio e la mia volontà di amarlo”. Esattamente come una ruota che si muove con moto uniforme attorno al suo asse.
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.[9]
Vorrei chiudere con una annotazione. Conclusiva ma anche necessaria. Come abbiamo visto, il canto è intriso profondamente della cultura dantesca. La cavalleria e l’amore cortese, la mitologia e gli studi scientifici, le preghiere e le visioni dei mistici. Ma nel momento altissimo del dire, Dante prende a volare con ali proprie. Ricordiamo? Tiene i suoi occhi aperti e arriva a quel punto centrale che è Dio, origine unitaria della molteplicità dell’universo e di ogni elemento che lo abita. Tiene aperti gli occhi là dove il mistico li chiudeva per frugare con lo sguardo spirituale. Vuole capire nel momento in cui il mistico rinunciava a capire, convinto che la rinuncia a comprendere fosse il modo migliore per accogliere la conoscenza. È quel Dante legato ai suoi sensi che abbiamo conosciuto agli inizi del canto. Chiudesse gli occhi, rinunciasse umilmente a capire, il suo viaggio non avrebbe senso. Sarebbe come un rinnegarlo. Perchè ha viaggiato proprio per acuire le sue capacità fisiche di recepire e raccontare. In questa lucidità intellettuale, in questa mirabile coerenza risiede la bellezza del canto.
[1] Pd XXXIII 7-21
[2] Pd XXXIII 22-27
[3] Pd XXXIII 28-39
[4] Pd XXXIII 40-54
[5] Pd XXXIII 55-75
[6] Pd XXXIII 76-93
[7] Pd XXXIII 94-105
[8] Pd XXXIII 106-138
[9] Pd XXXIII 139-145