Università Ca’ Foscari di Venezia
Facoltà di lettere e filosofia
Corso di laurea in Lettere
Tesi di laurea
I ROMANZI DI
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
Relatore: Prof.ssa Ricciarda Ricorda
Laureanda: Sara Stocco
Matricola n. 763214
Email: sara.stocco@vizzavi.it
Anno Accademico 2001-2002
INDICE
2 Capitolo I Profilo biografico
10 Capitolo II Il delitto della contessa Onigo
25 Capitolo III Il bosco veneziano
38 Capitolo IV Gli ospiti notturni
46 Conclusioni
50 Intervista a Gian Domenico Mazzocato
87 Bibliografia
Capitolo I
Profilo biografico
Gian Domenico Mazzocato poeta, scrittore e giornalista, è nato a Treviso nel 1946 ed a Treviso ha scelto di continuare ad abitare
Sono nato a pochi passi da Piazza dei Signori (sopra l’osteria “I Due Mori” e ricordo, come colonna sonora della mia fanciullezza, le sguaiate ma affascinanti canzoni di taverna, le prove della banda cittadina e, al mattino, le urla degli ortolani al mercato della frutta). Continuo a risiedere a Treviso, anche se ora abito in faccia al Montello, la collina che così spesso ritorna nella mia narrazione.[1]
Nel 1970 si è laureato a Padova in lettere classiche con Giorgio Bernardi Perini discutendo una tesi sull’Hagiomachia di Teofilo Folengo. Inizia ad insegnare molto presto:
Credo che le prime supplenze siano addirittura del 1967. […] Ragazzino di diciotto anni ho insegnato in una scuola serale. Ho lavorato insegnando a persone che avevano il doppio e anche il triplo dei miei anni, usando libri disparati e scartati da altri: un’esperienza che mi ha insegnato moltissimo e segnato indelebilmente come educatore.[2]
Attualmente insegna in un liceo della sua città. Parallelamente, fin dal 1967, ha svolto attività di giornalista; dopo aver collaborato con diverse testate, lavora oggi come giornalista pubblicista presso «Il Gazzettino»:
Quando mi fu offerta l’occasione di lavorare stabilmente presso un giornale (circa venti anni fa), non lo feci. La proposta riguardava la «Gazzetta dello Sport» e il «Corriere della Sera»: fui tentato, ma avrei dovuto trasferirmi a Milano. Professionalmente sarebbe stato un gran salto, di prestigio, ma il mio cronoluogo, il mio hic et nunc è a Treviso. Non riuscirei ad immaginarmi distante da questa città e non riesco a pensare la mia scrittura lontano da qui.[3]
Nel corso degli anni il giornalismo per Mazzocato non si è configurato semplicemente come un secondo mestiere, ma come un aspetto del suo essere scrittore. Dal lavoro di giornalista ha saputo cogliere i vantaggi e acquisire gli strumenti utili all’elaborazione e all’individualizzazione del proprio stile narrativo: “Reperire materiali e documentazione, saper stare sulla notizia e saper cogliere ciò che avvince il lettore, selezionare con rigore il buono dal meno buono: sono tutte cose che si apprendono sui tavoli delle redazioni”.[4] Lo scrittore sostiene di essere stato influenzato dal giornalismo anche dal punto di vista linguistico e culturale:
scrivere è un’arte in togliere, mai in aggiungere. Assomiglia al lavoro dello scultore che tira fuori la statua dal blocco di marmo che la contiene, mai a quello del pittore che aggiunge pennellata a pennellata. Bisogna saper scavare, ridurre all’essenziale, liberando la lingua dalle pesantezze e restituendole la sua nudità aurorale. Io tormento la mia prosa, asciugandola e prosciugandola in continuazione. Quella che sembra essere una grande semplicità di scrittura è il frutto di una elaborazione perenne. Il lavoro di giornalista mi è servito anche ad acquisire una sensibilità tattile e fisica nei confronti del mondo veneto e della sua cultura: nei personaggi dei miei romanzi e dei miei racconti fluisce e scorre in continuazione una ricchezza di vita che ho acquisito ascoltando gli altri.[5]
Nel 1976 pubblica la sua prima raccolta di liriche Il fuoco vecchio,[6] seguita nel 1980 da Straniarsi è qui[7] e nel 1981 da Diapason con variazioni.[8] Nella collana Discorso Diretto ha pubblicato il poemetto Immagini del regno.[9] Altre sillogi minori e liriche sciolte sono apparse in alcune antologie.
Scrivevo poesie alla ricerca di un linguaggio, alla ricerca di un modulo narrativo. La mia è sempre una poesia che racconta, che ha una storia dentro, che isola delle immagini, che cerca gli archetipi da cui discendono i comportamenti quotidiani. È anche dunque una delineazione di categorie esistenziali e di moduli di comportamento.[10]
Mazzocato è sempre stato un appassionato giocatore e sostenitore di rugby, tanto da scrivere tre libri su questa disciplina sportiva:
dalla mia passione per il rugby sono usciti tre libri. Quello in cui mi riconosco di più è stato scritto circa una decina di anni fa. Si intitola Treviso, la prima volta,[11] in cui ho raccontato di una squadra squattrinata […] soprattutto ho raccontato una città ancora dolorante per le ferite della guerra e per i bombardamenti subiti, una città che anche attraverso uno sport fatto di fatica e di umiltà, cercava di alzare la testa.[12]
Lo scrittore recentemente ha curato per la Newton Compton la traduzione delle Storie[13] di Tacito e la trilogia delle opere minori dello stesso autore cioè Agricola, Germania, Dialogo degli oratori.[14] Per la stessa casa editrice è uscita nel 1997 Storia di Roma dalla fondazione,[15] la traduzione in sei volumi dell’opera storiografica di Tito Livio di cui Mazzocato ha curato note, introduzioni e indici analitici:
Ho avvertito un grande maestro di scrittura soprattutto in Tito Livio, un veneto, un padovano al quale i contemporanei, pur ammirandone la grandezza di scrittore, rimproveravano quello che io avverto come il suo maggior pregio stilistico, la patina di dialettalità, la patavinitas. In Livio sento una presenza forte sul territorio di confine, là dove due lingue si parlano e si alimentano l’una dell’altra (ma anche si fanno la guardia a vicenda), un aiuto poderoso ad usare una lingua asciutta e scabra. Ed anche a saper entrare col passo e col respiro giusto in una storia.[16]
Non solo Tito Livio assume rilevanza per la formazione di Mazzocato narratore. Altri autori arricchiscono la sua personalità espressiva:
[i classici come] Omero ed Esiodo. E poi la grande lirica greca: Archiloco, Saffo e Alceo mi hanno profondamente segnato. Inoltre i grandi scrittori di teatro: più che Plauto, Terenzio, un autore modernissimo capace di raccontare sofferenze, salti generazionali, diversità ideologiche.
[Tra i moderni invece] amavo già da bambino Pinocchio, con il suo mondo di simboli e metafore, e odiavo il libro Cuore. L’ho sempre odiato, trovo che sia falso, improponibile e antieducativo. Penso che la chiamata a scrivere sia nata già allora in me, con la lettura di Salgari e Verne (il primo molto più del secondo). Questa figura dello scrittore che costruisce il mondo reale (perché è questo che fa Salgari) nel chiuso e nella dimensione irreale di una biblioteca mi ha sempre affascinato; coincide anzi con la mia idea di scrittura. È lo scrittore che ricrea il mondo, lo riplasma con la sua capacità di affabulazione e di raccontare, sovvertire, costringere a ritorni infiniti la quarta dimensione, cioè la dimensione temporale.[17]
Tra gli scrittori contemporanei particolarmente importanti per Mazzocato ricordiamo Federico Tozzi “da cui sono molto lontano come tipo di scrittura ma possiede una nostalgia di fondo, un umanesimo sconsolato e però teso al bello, che lo rende vicinissimo a me”; Pier Paolo Pasolini dalla cui raccolta Trasumanar e organizzar l’autore sostiene di aver acquisito “la dimensione della socialità dello scrivere, del ruolo dello scrittore e della posizione dialettica che deve assumere rispetto al milieu culturale in cui vive”, ed infine Carlo Sgorlon del quale, il romanzo Gli dei torneranno, per Mazzocato è stato
forse il libro più alto. Qui Sgorlon è aedo, è rapsodo ed è talora di una grandezza che lo assimila ad Omero, nella misura in cui si fa raccoglitore degli umori della sua razza furlana, delle sue storie, del senso profondo che queste hanno come punto di riferimento e contraddistinguono l’appartenenza ad un popolo fiero e antico.[18]
L’esordio di Mazzocato come narratore avviene nel 1992, anno in cui il suo racconto lungo La Merica,[19] vince il premio nazionale di narrativa per l’inedito “Città di Monfalcone”. In quest’occasione fu Bruno Maier a premiare Mazzocato e ad esprimere nei confronti del suo stile un giudizio determinante per la futura scelta di diventare scrittore.
Pertanto il premio vinto con La Merica[20] assume importanza al di là del suo valore intrinseco, segnando una nuova fase della sua carriera:
Maier quel giorno mi trasse in disparte e disse “Dentro di lei c’è uno scrittore vero”… Poi aggiunse: “Questi che ha attorno sono dei buoni dilettanti ma lei è uno scrittore vero, ha talento, si coltivi”. Il suo giudizio è stato decisivo, mi ha aiutato a capire quale fosse la mia strada.[21]
Tuttavia il passaggio al genere narrativo non è stato immediato e solo dopo una pausa di riflessione, nel corso della quale Mazzocato ha scelto che priorità dare ai suoi impegni, è iniziata la stesura de Il delitto della contessa Onigo,[22] opera concepita in seguito ad un lungo travaglio creativo:
Il delitto della contessa Onigo[23] ha origini lontane, una storia che avevo dentro dai tempi in cui, per tutt’altro tipo di studi, compivo ricerche presso alcuni archivi parrocchiali. Mi sono imbattuto in questa vicenda che ho trovato drammatica e grande, emblematica di un popolo e di un’epoca. Negli anni successivi, senza che io ne avessi chiara coscienza, Pietro e Teodolinda, i due protagonisti della storia, hanno continuato a muoversi nella mia anima, a chiedere con insistenza di essere raccontati. Mi è successo (ma mi accade sempre, per ogni personaggio) quello che è accaduto ai sei personaggi pirandelliani.[24]
La prima edizione del romanzo è avvenuta nel novembre 1997 ma lo scrittore ha iniziato la stesura nei primi anni novanta, quando già aveva acquisito degli strumenti di lavoro e d’indagine in ambito giornalistico. Soprattutto per questa prima opera Mazzocato ha riconosciuto l’importanza di un altro scrittore appartenente alla tradizione letteraria triestina, cioè Fulvio Tomizza:
Un altro scrittore molto importante per me è stato Fulvio Tomizza, per quanto molto più intimista di me ed espressione di un ambiente molto diverso dal mio. Tomizza dopo aver letto Il delitto della contessa Onigo[25] mi ha scritto una lunga lettera in cui mi indica come uno dei suoi epigoni. Di me ha scritto: “La narrativa di Mazzocato dà la sensazione di essere dentro i grandi romanzi siciliani. Al tempo stesso il mondo veneto ne risulta portato al massimo di estensione e di completezza”.[26]
L’opera ha conosciuto uno straordinario successo di critica e di pubblico, tanto da giungere in pochi mesi alla quarta edizione. Nel dicembre 1998 lo scrittore ne ha ottenuto ulteriore conferma ricevendo il premio letterario “Gambrinus Mazzotti – Finestra sulle Venezie”.
Il suo secondo romanzo, Il bosco veneziano,[27] viene pubblicato nell’ottobre del 1999: “l’ho scritto in pochissimi giorni e già avendo in mente ben delineate la storia delle tre generazioni, addirittura i nomi dei personaggi”.[28] Mazzocato in questo libro approfondisce la sua indagine del mondo veneto, (pur mantenendo le tematiche di fondo che hanno caratterizzato Il delitto della contessa Onigo),[29] facendosi “il grande cantore dell’epopea dei pisnenti (parola veneta che significa nullatenenti, gli ultimi dei contadini, i più miserabili e disperati)”.[30]
Ne Il bosco veneziano in particolare si concretizza l’affermazione dello scrittore, il quale afferma di usare nella sua “scrittura, simboli eterni ed inesauribili, perennemente fertili: l’acqua, il fiume, il bosco”.[31] Uno dei temi centrali del romanzo è quello della patria perduta:
il Montello vuole e cerca di essere metafora universale delle patrie perdute. Ti ricordo che ho raccontato la vicenda dei Barro nei giorni fervidi e coinvolgenti delle patrie perdute nei Balcani: io parlavo del Montello e pensavo al Kosovo o all’Albania, allo sradicamento di questi popoli.
E ne Il bosco veneziano,[32] le patrie perdute sono tante: oltre al Montello, la Sicilia del cacciatore di Bugres, il Cadore di Sereno Rudatis, lo stesso mato[33], di cui vengono espropriati gli Indios.
Sia Il delitto della contessa Onigo[34] che Il bosco veneziano[35] sono stati inclusi nel catalogo del Centro Internazionale del Libro Parlato, che cura la registrazione di libri per i non vedenti di lingua italiana di tutto il mondo: “questi due enti, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno registrato tutti i miei libri. Questo tipo di risposta mi fornisce un riscontro che equivale al piacere di un premio letterario”.[36]
Nel corso del 2000 sono stati pubblicati La Merica,[37] il racconto lungo che ha segnato l’esordio di Mazzocato come narratore, e una silloge di sei racconti intitolati Crepuscoli, posti ad apertura di Alte Terre,[38] il libro fotografico di Antonio Piovesan che percorre un ideale viaggio tra i territori delle Prealpi nel trevigiano. Crepuscoli nella sua traduzione e edizione inglese è stato definito da Giorgio Lago, editorialista di «Repubblica», “il più prestigioso biglietto da visita della cultura trevigiana e veneta nel mondo”.
Il 2000 è pure l’anno in cui Mazzocato si è dedicato al teatro traendo dal suo primo romanzo una piece teatrale in dialetto trevigiano, intitolata Il delitto della contessa.[39] Si tratta di un atto unico portato in scena dalla compagnia “Il Satiro Teatro” per la regia di Elenora Fuser.
[lo scrivere] per il teatro è perennemente in fieri, non c’è recita che non apra nuovi orizzonti, che non chiami sottolineature, che non esiga adattamenti. Fondamentale per me, è oggi il rapporto con Gigi Mardegan, l’attore che ha portato sulle scene i miei due lavori per il teatro. [40]
Per la sua terza opera narrativa edita nell’ottobre 2001, intitolata significativamente Gli ospiti notturni,[41] Mazzocato ha scelto il racconto come genere narrativo. Il titolo della silloge “ha una forza evocatrice, un suo orfismo che non sfuma in lirismo gratuito, ma rimanda alle memorie terragne e ancestrali del mio raccontare”.[42]
Con l’inizio del 2002 la compagnia trevigiana “Il Satiro Teatro” per la regia di Roberto Cuppone, ha cominciato la tournée che porta in scena la seconda opera teatrale di Gian Domenico Mazzocato. Mato de guera[43] è il titolo di questo monologo drammatico nato dalla creatività dello scrittore e da un’idea di Marzio Favero (Assessore provinciale alla cultura di Treviso), che ha commissionato l’opera perché “non riesce a liberarsi dal piglio di restituire ai trevigiani una parte della loro memoria storica che si sta affievolendo”.[44]
Mato de guera[45] è un’indicazione di quello che il teatro “può” essere, quando si verifica una ottimale congiuntura tra volontà politica, capacità letteraria, bravura artistica e teatrale, su un tema fortemente legato alla storia della società cui è diretto, in una lingua (io non parlo mai di dialetti) che è parte essenziale di quel patrimonio culturale. Credo che la storia narrata nel Mato de guera possa produrre dovunque gli stessi effetti e creare gli stessi echi. Anche se è vero che per essere universali occorre avere profonde radici in qualcosa di ben concreto e tangibile. Si è universali quando si è molto “qualcosa”: altrimenti si è astratti ed astrali. E il “Mato” è universalmente vero perché è profondamente radicato in quel fazzoletto di terra.[46]
Come per la sua prima riduzione teatrale, Mazzocato ha scelto di narrare in dialetto trevigiano la storia del soldato – contadino di Possagno (divenuto “mato de guera” dopo aver combattuto nel primo conflitto mondiale).
Uso il dialetto per dare forza e rigore al mio dire. Quando scrivo, penso in italiano quello che scrivo, ma certe cose mi vengono in mente solo in dialetto.. Certe cose si possono dire solo in dialetto e certe emozioni (ad esempio il “simiton” di Bianchet ne Il delitto della contessa Onigo)[47] sarebbero innaturali e fuori registro se dette in altra lingua. Io parlerei di una commistione di due lingue ognuna delle quali sorveglia l’altra, più che d’intrusione del dialetto nell’italiano.[48]
Capitolo II
I romanzi: Il delitto della contessa Onigo
L’arco della produzione di Mazzocato si estende dal 1976 al 2001. Comprende opere poetiche, narrative e teatrali nonché alcuni volumi di costume sportivo, monografie sull’opera di artisti contemporanei e articoli per vari quotidiani inerenti molteplici tematiche culturali.
In questa sede verranno analizzate le tre opere narrative pubblicate tra il 1997 e 2001 cioè Il delitto della contessa Onigo,[49] Il bosco veneziano[50] e Gli ospiti notturni.[51]
Il primo romanzo di Mazzocato, la cui pubblicazione risale al novembre 1997, riporta alla luce la reale vicenda di “Zenobia Teodolinda Onigo, nata illegittima e morta nobile, e del suo assassino Pietro Bianchet”,[52] fermando così sulla carta “una memoria che vive anche di una sua oralità, di una trasmissione favolistica e quasi epica”.[53]
Il romanzo si dipana di capitolo in capitolo, ricostruendo nei dettagli non solo il mero fatto di cronaca ma l’ambiente, la cultura e la psicologia dei personaggi, protagonisti e non, che ruotano attorno all’omicidio che l’11 marzo 1903 pone drammaticamente fine all’esistenza della contessa. Linda, così viene chiamata la vittima nel corso del romanzo, è figlia illegittima del conte Guglielmo Onigo, un patriota, un riformatore, che per le sue idee liberali ha costretto tutta la famiglia ad un lungo e sofferto esilio nelle zone in cui si è sviluppata la loro religione, ovvero le valli valdesi. Linda porterà per sempre con sé la memoria delle privazioni sopportate durante questo tempo trascorso forzatamente lontana da Pederobba, sua patria adottiva. “Che rabbia, che furore impotente aveva accumulato Linda! Si era nutrita di rancore e di voglia di rivincita”,[54] decidendo, proprio nel periodo dell’esilio torinese, che il denaro e l’accumulo per lei sarebbero stati i valori cui improntare la propria esistenza; oltre a questo si fissa tenacemente in lei il proposito di non confidare mai in nessuno e di dover trarre sempre e comunque un guadagno da tutto. Il conte riconoscendola come figlia, l’ha riscattata da un destino di privazioni e miserie e le ha lasciato un patrimonio che in futuro le avrebbe permesso di condurre una vita serena ed agiata, ma nulla ha potuto contro il groviglio di sentimenti ostili, che lentamente crescono e si consolidano in lei robusti come una armatura posta a difesa della propria anima. La contessa infatti “non si riconosceva […], non si apparteneva […], era il suo stesso sangue che le si negava perché vi sentiva dentro una storia che non era sua”.[55] Inoltre la sua condizione di figlia illegittima le è sempre pesata come una colpa incancellabile ed è proprio il padre che acuisce involontariamente questa convinzione quando, ancora bambina, per farle sentire l’orgoglio di appartenere alla religione valdese, le legge i versi di un antico poema valdese la Nobla Leyczon. Linda ne resta colpita, avvertendo che in questo mondo “l’eternità dell’anima imbocca subito la via della salvezza o della perdizione eterna. Non esiste purgatorio”:[56] per il peccatore quindi non c’è possibilità di salvezza. Così nella sua infanzia, alle vicende misteriose sui valdesi narrategli dal padre, Linda accosta le favole innocenti che già conosce ma, anche “nelle favole che giravano come aquiloni scuri e tempestosi nella [sua] mente […], non vi era spazio per il miracolo per il tesoro ritrovato, per la fata che risolveva ogni cosa col suo sorriso o con il suo scettro sottile”.[57] L’esperienza lacerante dell’esilio, con i disagi e la fame sofferti e la lettura della Nobla Leyczon, si fissano indelebilmente nella sua indole in formazione risultando determinanti nell’orientarla verso un’esistenza infelice e un destino tragico: Linda infatti è convinta che gravi
un verdetto su di sé, sulle sue origini oscure, su un peccato originale che nessuna acqua lustrale poteva lavare via. Il peccato di sua madre che l’aveva concepita da chissà quale sangue impuro era una condanna che non ammetteva fuga o redenzione. Si faceva strada in lei la consapevolezza di una diversità assoluta. Da quella scoperta Linda sarebbe stata fortemente segnata, in un indurimento di sé e dei rapporti con gli altri. Avrebbe esorcizzato la morte semplicemente ignorandola. E avrebbe fatto scontare agli altri il male inestirpabile che era in lei.[58]
Non possedendo la tempra feroce degli Onigo, di cui solo per un gioco del destino è l’ultima discendente, Linda nel momento in cui entra in possesso dell’eredità, cerca comunque di interpretare il ruolo dei predecessori, tuttavia non vi riesce poiché
aveva saputo interpretare la sua parte di dominatrice sul versante più miserabile e mortificante. Non si può essere dominatori quando non si fa altro che prosciugare le risorse altrui. Linda era solo padrona, non era dominatrice.[59]
Basando il suo potere su tre principi “imperio […], profitto […], abuso […]”,[60] la contessa avida e ansiosa di cieca vendetta si è creata una cattiva nomea tra tutti, ma soprattutto tra i suoi fittavoli che sfrutta privandoli dei più elementari diritti tra cui quello di avere di che sfamare sé e la propria famiglia. È lei stessa pertanto che alimenta una tensione generale tra i contadini che covano nei suoi confronti un odio latente; del resto sembra che la contessa abbia condotto la propria esistenza in attesa del “carnefice che infliggesse al suo corpo la diaspora definitiva”.[61] Così, quando con due colpi di mannaia che le mozzano il capo, Linda viene uccisa mentre passeggia nel giardino del suo palazzo trevigiano in riva al Sile, la notizia desta clamore ma non stupore.
Con lei si conclude la dinastia degli Onigo, casata dalla storia millenaria, e a vibrare i due colpi mortali è proprio la mano di uno dei suoi fittavoli.
Riesaminando il tutto col senno di poi, non sembra più una semplice coincidenza il fatto che la contessa abbia scelto proprio Trevignano come sua patria. Infatti nell’infanzia Linda ha appreso dal padre come nel 1312 Rizzardo da Camino, il prepotente signore di Treviso, sia stato decapitato con una roncola da un contadino proveniente da Trevignano: probabilmente per tale racconto questo luogo inizia ad avere ai suoi occhi “la profondità oscura di un male antico e il torbido di una profezia tenebrosa”.[62] Infatti come colui che ha dato la morte a Rizzardo da Camino, pure Bianchet, l’assassino della contessa, proviene da Trevignano un paese vicino a Treviso, in cui Linda possiede non solo le terre ma anche le anime dei suoi fittavoli in quanto essi le devono metà di tutto ciò che possiedono: questo per i contadini equivale a pretendere “metà della vita, metà del sangue, metà dei pensieri, metà del fiato”,[63] equivale a impossibilità di affrancamento da una condizione che li rende simili a servi della gleba, equivale infine a miseria, rabbia, disperazione, malattie e morte precoce.
Tutto quest’ultimo insieme di fattori, uniti alla pellagra che lentamente lo sta divorando nel corpo e nella mente, sono da tener in considerazione, per poter entrare e comprendere appieno la storia di Bianchet: il pisnente Pietro Bianchet. Nel termine pisnente (che in italiano equivale a pigionante)
l’orecchio popolare, che scavalca le certezze etimologiche e attribuisce alle parole segni infallibili […] vi sentiva la forza tragica e irreversibile di un peggiorativo. Pisnente era peggio che niente, sotto il niente. Qualcosa che veniva ancora prima che si potesse parlare di scala sociale.[64]
La misera condizione di Bianchet non è poi tanto differente da quella di molti contadini nella campagna veneta di inizio Novecento: ciò che nel momento del delitto lo distingue dagli altri, è la particolare situazione familiare con cui, da pochi giorni, deve fare i conti.
Il movente del delitto è fornito al pisnente dalla vittima stessa. Poco tempo prima dell’omicidio, poiché il suo raccolto è stato distrutto dalla tempesta, Bianchet si rivolge con speranza alla contessa, facendole chiedere un po’ di foraggio, che gli viene negato. Pertanto nei primi giorni di marzo, benché al corrente del parto imminente della moglie, il pisnente (che rifiutando il lavoro teme di precludersi anche la possibilità di ottenere altri campi da coltivare) decide di andare ugualmente a Treviso, “ad opera”, nel parco di villa Onigo. È qui che il giorno 9 marzo apprende della nascita della sua secondogenita: tuttavia nelle ore trascorse lontano dalla famiglia
la sua ansia per il parto della moglie, l’angoscia per la fame e la solitudine di lei erano diventate insostenibili. Bianchet aveva chiesto di essere esentato dal lavoro e di tornare a casa, aveva chiesto un po’ di grano per la polenta.[65]
Ma gli sembra, ancora una volta, di aver parlato invano: l’unica scelta possibile per Bianchet impotente, esasperato, è troncare l’esistenza di colei che giorno dopo giorno, spietatamente, gli toglie la vita. Così la sua rabbia esplode definitiva nel pomeriggio dell’11 marzo, quando il ricordo della figlia (neonata e già affamata) e del resto della sua famiglia (costretta a vivere di stenti), scatena un istinto di vita che, in poche ore, si trasforma in morte. Bianchet agisce in preda al simiton cioè all’impulso irrefrenabile di
atti estremi e definitivi, tremend[i] e brusch[i] come un fulmine sulla croce appuntita del campanile. Un impeto breve, un colpo vibrato con forza e devastante. […] Il simiton nasceva quando la sua pelle gli sembrava un involucro dentro al quale si sentiva come un estraneo.[66]
Il gesto maturato come un fuoco prima lento e lontano e poi divampato improvviso e incontrollabile, avendo trovato la scintilla, serve al contadino per affermare la vita (sua e del proprio nucleo familiare) sottraendola alla principale fonte delle sue miserie. Nell’attimo in cui scaglia la sua ira repressa sulla contessa, a prevalere è l’istinto di sopravvivenza e non certo la volontà di creare con tale azione i presupposti per una rivoluzione possibile. Nonostante questo, l’iniziativa di un singolo diviene emblema di qualcosa che trascende l’azione in sé quando, col diffondersi della notizia tra la gente, contemporaneamente si fa strada la convinzione che
Nel gesto di Bianchet si era scaricato l’odio comune a tutto un popolo, l’ira che apparteneva a un’intera generazione di sfruttati, di inselvatichiti, dalla sordida avarizia di Linda Onigo. E il gesto omicida non parve immediatamente cattivo e malvagio come sarebbe piaciuto ai benpensanti. Divenne il segno di una rivolta cruenta e circoscritta. […]. Divenne, anche, il segno di una rivoluzione possibile, più larga e partecipata.[67]
Il pisnente commette il reato davanti a decine di testimoni e mentre corre a costituirsi grida disperato le parole che riassumono il suo movente: O go fato par e me creature.[68] Il processo (che secondo lo scrittore non “doveva e non poteva esserci”, dato che il colpevole è reo confesso e ha ucciso davanti a testimoni) si celebra a Venezia e il verdetto che sancisce la pena per Bianchet viene pronunciato esattamente un anno e un giorno dopo il reato ma
alla resa dei conti i giudici veneziani si trovarono davanti ad un bivio epocale: se giudicare il delitto dimenticando il contesto o invece valutare anche le terribili condizioni di miseria, sfruttamento e ignoranza in cui il delitto aveva messo radici.[69]
Nei dieci giorni di dibattimento il quadro perde i contorni certi e l’iniziale chiarezza sfuma nella mente di coloro che a priori, attribuivano la condizione di assassino al fittavolo e di vittima alla Onigo. Il processo infatti assume via via risvolti imprevedibili, fino al punto in cui i ruoli si invertono con l’affiorare della verità fatta di estrema indigenza, in cui è germinato l’omicidio: la contessa diventa il vero colpevole e il reale esecutore del delitto, si trasforma nell’immaginario collettivo in una sorta di eroe o antieroe protagonista involontario di una rivoluzione. Miseria, ignoranza, malattia, ingiustizia uniti al suo silenzio ostile e impotente (perché il miserabile è cosciente che la sua parola nulla può contro l’eloquenza altrui) diventano involontariamente le uniche efficaci armi da opporre alla potente parte civile, costretta di fatto a confrontarsi con il lento naufragio da cui Linda viene travolta dalla rievocazione stessa del suo ritratto di persona egoista e moralmente gretta.
Al di là della sentenza finale, con cui la corte deliberò otto anni e nove mesi al pisnente, è interessante comprendere chi realmente siano Pietro Bianchet e Teodolinda Onigo. Nella postilla della sua opera Mazzocato informa il lettore che dalla ricerca condotta negli archivi, nelle biblioteche e nelle zone in cui i due protagonisti hanno vissuto, Pietro “eroe senza memoria” e senza consapevolezza della portata del suo gesto, non ha lasciato tracce. Di lui rimangono, a testimoniare la sua esistenza, il suo cognome e i documenti del processo, Linda invece che ha “lasciato segni: lettere, odi, inimicizie […], i documenti della sua cultura, della sua diversità, di una religiosità contrastata, […] ha assunto nitidezza di contorni”.[70] Proprio questo confronto impari, la netta differenza tra i segni lasciati dall’assassino e dalla vittima, lo hanno indotto a riequilibrare, a ridare il giusto spazio alla vicenda esistenziale di Bianchet
assassino e vittima ad un tempo: analfabeta, sfruttato, indebolito da ogni possibile tara familiare, pellagroso, invecchiato da appena ventisei anni di una vita che non gli aveva riservato alcuna soddisfazione e non aveva alcuno sbocco.[…] Un rivoluzionario incapace perfino di comprendere il racconto che tanti, troppi fecero della sua rivoluzione. […] Il gesto delittuoso del pisnente ha rotto un silenzio che nessuna parola poteva incidere. E in fondo ha una sua coerenza rituale e crudele.[71]
Parlando del romanzo che ha reso noto al pubblico lo scrittore Gian Domenico Mazzocato, è opportuno evidenziare come il titolo originale da lui scelto non fosse quello attuale ma Processo per pellagra. Titolo che, nella sua essenzialità, condensa e pone immediatamente in rilievo, due dei nuclei tematici attorno ai quali è strutturata la narrazione del processo volto a stabilire la condanna per il pellagroso fittavolo Bianchet, assassino della ricca e avara padrona Teodolinda Onigo. La rievocazione dell’iter processuale diventa
a suo modo un giallo che, anche grazie alla decisione di portare il dibattimento in quella cassa di risonanza mondiale che era Venezia, tenne col fiato sospeso l’Italia e il mondo. […] All’osservatore moderno il processo veneziano a carico di Pietro Bianchet appare come un vero e proprio processo per pellagra. Erano la miseria e la fame che gli agrari veneti imponevano ai propri fittavoli, a fornire il terreno sul quale la malapianta della malattia si riproduceva e cresceva rigogliosa.[72]
Il romanzo si muove a partire dall’azione del pisnente di Trevignano, che sentendosi negata l’urgenza di abbandonare il lavoro per recarsi ad assistere la moglie partoriente, preso da un raptus di follia si scaglia contro la contessa decapitandola con un’accetta, mentre intorno nessuno dei numerosi testimoni presenti pensa di intervenire: “Gli altri operai sono accorsi, hanno guardato e non hanno detto una parola. Poi sono tornati a completare i lavori cui erano intenti, silenziosi ed increduli”.[73]
Giancarlo Granziero ha scritto che da questo fatto di cronaca Mazzocato
ha tratto un docu-romanzo, [un] romanzo documentario […] perché la vicenda, anche a voler tralasciare i particolari del processo, è conservata solo oralmente, con le inevitabili distorsioni procurate dal trascorrere dei decenni, soprattutto (ipotizziamo) in versioni contadine.[74]
Nell’intervento di Giulio Galetto il romanzo viene invece presentato come
un romanzo storico: “romanzo” per tutta quella parte di ri-creazione (manzonianamente si direbbe “invenzione”) delle anime dei personaggi (l’anima semplice dell’omicida, l’anima tormentata da ombre e conflitti della vittima); “storico” in quanto quel particolare fatto di cronaca viene sentito come emblematico di tutto un nodo di temi e problemi sociali, economici, di costume tali da assumere, appunto, un forte spessore storico.
A Venezia divide la cella con il cubano José Colliles, che subito gli domanda chi sia, ma Bianchet invece di rispondergli si limita a sillabare scontroso: Go copà na contessa.[75] Nei giorni che precedono il processo si rende confusamente conto di “essere stato pazzo per pochi attimi” ma di dover scontare per tutta la vita il suo “soprassalto di angoscia”.[76] Comprende anche che la pellagra, i cui segni porta impressi come “una sorta di marchio servile che denunciava il suo stato di avanzamento dal grado di desquamazione della pelle”,[77] sarebbe volentieri stata adotta come causa principale del suo reato, essendo risaputo che “provoca accessi di follia e reazioni incontrollate”.[78]
In realtà dalla descrizione elaborata dallo scrittore trevigiano che nelle motivazioni del protagonista “ha sapientemente coniugato l’inconsapevole pulsione rivoluzionaria e gli effetti psicopatologici della pellagra”,[79] è chiaro che non solo quest’ultima è la causa scatenante. Infatti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nell’angolo di provincia veneta descritta da Mazzocato, questa malattia è senza dubbio “immagine di una rivoluzione sempre pronta dilagare e mai scoppiata”,[80] ma ciò che più opprime le plebi rurali è il rapporto, ancora di tipo feudale, che i proprietari terrieri mantengono nei loro confronti. Una situazione di questo tipo non può che generare insofferenza reciproca, “ genetica prima ancora che atavica. […] l’estremo gesto del pisnente contro la parona non è che l’estremizzazione di questo conflitto”.[81]
A proposito del nucleo del romanzo, definito da Maria Pia Bonanate un “giallo” psicologico che nel suo svolgersi ritrae un’epoca, Fulvio Tomizza ha rilevato come solo grazie alle capacità dello scrittore, da una “storiella grossa e piccola, immobile e chiusa come un pugno”, ha tratto origine un’opera che a partire da
un diverso modo di ricostruire un fatto processuale […] non trascura elemento né aspetto del mondo trevigiano [e] di tutto quanto gira attorno alla vicenda, per ampliare e arricchire la stessa, pur restando emblematica di due contrapposte condizioni di vita. […] Al tempo stesso […] il mondo veneto […] è portato al massimo di estensione e di completezza.[82]
Estensione e completezza sono palesemente due degli attributi che qualificano la storia grazie all’espediente con cui lo scrittore ha scelto di trasmetterci “la scarna cronologia di un delitto”[83] che viene ricostruito in un’altalena temporale, per mezzo di ripetuti flashback e raccordi tra i diversi capitoli. Il libro infatti oltre alla chiara “valenza storica” […] “afferma la sua dimensione più propriamente letteraria nella particolare struttura pensata da Mazzocato e nelle possibilità espressive che in essa si attivano”[84] secondo un procedimento binario che
alterna capitoli di narrazione oggettiva, in terza persona e condotti dal di fuori, a capitoli-diario, stesi da un “io” narrante, il conte Francesco Avogadro degli Azzoni, cugino della vittima ma anche suo intimo amico-amante.[85]
In questo modo si avvicendano linearmente, col pregio di mantenere alta la tensione narrativa lungo tutto il racconto
le pagine più nudamente narrative, che seguono la vicenda del trasferimento di Pietro Bianchet da Treviso al carcere di Venezia, fino alla conclusione del processo; dall’altra parte, intercalate a questa cronaca, […] le pagine di un diario tenuto […] durante i giorni del processo veneziano.[86]
Giulio Galetto ha inoltre osservato come
la vitalità del romanzo, ben al di là del quadro storico-sociale, sta nel contrappunto fra la nuda cronaca degli eventi e gli squarci che i ricorsi e le riflessioni del conte […] aprono sul passato di Linda, sui condizionamenti che hanno fatto di lei una donna dal cuore di pietra nei suoi comportamenti sociali, ma, nelle pieghe segrete dell’anima, una creatura che sconta nella solitudine e nella […] scissione della propria personalità,[87]
la sorte di concludere sia la storia della sua famiglia (in quanto sterile), sia quella della sua classe.
In altre parole, Mazzocato ha scelto di utilizzare due differenti registri espressivi per raccontare un unico fatto di cronaca visto dall’alto e dal basso, cioè dai due opposti punti di vista dei miserabili e dei nobili. A rappresentare la categoria dei poveri è la seconda voce narrante di Beniamino Bresolin, il maestro socialista di Trevignano, del quale Mazzocato precisa:
Sono io che leggo il diario del maestro e lo reintepreto. Ho scelto questa formula (narratore né omodiegetico né del tutto eterodiegetico) perché mi sembrava molto funzionale al ritmo narrativo e al “tono medio” del testo.[88]
Costui, nella finzione del romanzo, ha lasciato degli appunti che, accanto al già citato e ugualmente fittizio diario del conte Avogadro, permettono di riproporre “in maniera originale l’artificio del manoscritto ritrovato”[89] per mezzo del quale lo scrittore finge di aver trovato la storia già pronta, tanto che basta qualche ritocco per far sì che le due narrazioni sovrapposte girino “come due meccanismi dentati e sincroni”.[90]
Oltre a Linda e Bianchet, sono soprattutto Avogadro e Bresolin le due figure la cui fisionomia psicologica si distingue per una maggiore caratterizzazione; essi, infatti, nell’economia della narrazione non rappresentano soltanto dei tipi generici ma sono l’anello che nella finzione letteraria consente allo scrittore di avvalersi dell’artificio sopra citato.
Lo scrittore si sofferma anche sui due compagni di cella di Bianchet, il Montelliano Samuele e il cubano José Colliles (il primo incontrato nel periodo di carcerazione a Treviso, il secondo in quello a Venezia). Di quest’ultimo il narratore caratterizza sommariamente l’identità, per evidenziarne in particolar modo la loquacità (che fa da contrappunto al silenzio ostinato del pisnente): “José parlava in continuazione e qualche volta faceva domande. Bianchet non rispondeva. Ascoltava, questo sì, e cercava di capire il più possibile”.[91]
Di Samuele lo scrittore presenta un ritratto sia fisico che psicologico, svelandone l’infelice vicenda esistenziale, nella quale Bianchet scopre “lo stesso ancestrale sfruttamento che aveva fatto germinare il suo delitto”.[92]
Ciò che importa rilevare dei due successivi compagni del protagonista, è il loro essere, per molti aspetti, speculari: sul piano della narrazione ciò contribuisce a realizzare una maggiore coesione tra l’inizio e la fine del romanzo (dal momento che il personaggio di José si incontra per la prima volta al capitolo tre e quello di Samuele nel capitolo finale). Infatti entrambi, narrando la loro esistenza avventurosa, fanno nascere in Bianchet “[…] voglia di spazi aperti e di vita senza padroni”,[93] e conferiscono allo spazio narrativo (altrimenti limitato tra Treviso e Venezia) un respiro più ampio.
Sembra che il narratore non a caso si occupi più a lungo del personaggio di Samuele proprio nel capitolo finale: qui infatti è possibile leggere il nucleo narrativo dal quale prende origine Il bosco veneziano, il secondo romanzo dello scrittore.[94] In queste pagine, che costituiscono pertanto una sorta di anticipazione del topos del Montello e della saga dei pisnenti, (temi ampliamente sviluppati nella produzione successiva a Il delitto della contessa Onigo)[95] è possibile individuare un raccordo esplicito.
Altre figure si stagliano sopra le altre nella narrazione, ad esempio Guglielmo e Caterina Onigo.
Bisogna notare che, come ha rilevato Claudio Toscani, accanto ai ritratti ben definiti, “il racconto intriga un buon numero di altri personaggi, ma essi sembrano prender parte alla trama in qualità di ruoli più che di persone”.[96] È quasi come se il processo, che si articola attorno alla “maschera tragica […] del contadino dalle mani omicide” e su quella della “nobile avara”, assumesse la forma di “un’allegoria, una rappresentazione per simboli. […] E dunque c’è un posto anche per […] Giulietta, la lesbica interessata e fiorente, […] un posto per il giudice, per i testimoni, per me [Avogadro], per tutti gli spettatori”.[97] A volte, dei testimoni chiamati a deporre, lo scrittore cita solo il nome e l’ occupazione, come nel caso di Antonio Campion o Carlo Milanesi, esempi di personaggi che nel romanzo hanno la sola funzione di ribadire e confermare particolari attinenti la vittima o l’assassino:
Antonio Campion, un ragazzotto che faceva da cocchiere a Linda per due lire al giorno.Quando Pietroboni glielo chiede direttamente, afferma che Linda era avara. Il presidente gli ha chiesto di confermare che Bianchet era arrivato da Trevignano senza portarsi dietro alcuna scorta di cibo perché a differenza degli altri lavoranti non possedeva proprio niente. E Campion gli ha risposto di sì […]. Dopo di lui ha deposto Carlo Milanesi, la guardia che ha arrestato, in piazza dei Signori, Bianchet. Il pisnente era in maniche di camicia e implorava di lasciarlo andare a salutare la famiglia e prometteva che poi si sarebbe costituito. [98]
Altre volte, l’autore li connota condensandone in poche righe l’aspetto esteriore, l’attività, la psicologia:
Luigi Trinca ha sessantasette anni e fa il mugnaio in Pederobba. Racconta di essersi fatto una piccola sostanza. […] Insiste, con la sua voce profonda, sul macinare e allude ai conti lunghi […], all’autorità che deriva dal possedere farina anche nei tempi di magra.[99]
Invece nel caso del testimone Mansueto Baratto, il personaggio diventa occasione di parodia e al contempo contribuisce a rendere più vivida la cronaca del rito processuale: col vecchio contadino che sostiene di trovarsi “sulla terra che lavora da quattrocento anni”,[100] lo scrittore introducendo una nota parodistica, coglie l’occasione per sintetizzare in una battuta, il timore e l’afasia da cui venivano colti i contadini, “[…] lunga teoria di testimoni, tutti uguali gli uni agli altri”,[101] che si trovano a disagio in un ambiente sconosciuto e ostile.
Con il “procedere della macchinosa liturgia tribunalizia, [si ottiene] un sorprendente evolversi delle coscienze in gioco, sia private sia sociali”[102]: mentre il processo sta giungendo alle sue battute finali, l’iniziale intransigenza propria della classe nobiliare, si stempera e
Il coro di personaggi che si muove attorno al delitto e alla sua ricostruzione nelle sedute del processo è, nelle sue diverse componenti (i popolani, i nobili o i notabili borghesi), quasi tutto portato a valutare come condannabile il comportamento della contessa e, in qualche modo, comprensibile se non giustificabile la rabbia omicida del pisnente: […] appunto anche dalla classe cui appartiene la Onigo […] si avverte l’inevitabilità di un cambiamento.[103]
“In una lingua […] serrata e scabra”[104] che dà vita a una prosa “scorrevole tanto da far sembrare certi passi vere e proprie fotografie parlanti”,[105] Mazzocato “tiene bene le fila di questa storia, alternando continuamente interni ed esterni:”[106] cella, palazzo, casupole contadine, dimore nobiliari, acqua, terra, il popolo vociante in Campo Bella Vienna, l’aula del processo, i pensieri privati, la memoria storica.
È proprio avvicendando sapientemente la cronaca dei fatti alla memoria storica e individuale che le pagine di questo romanzo (che talora possono dare l’impressione di una certa frammentarietà), trovano invece un motivo di forte coesione nel sentimento di una pietas insieme esistenziale e storica che anima la voce narrante, sia essa nella finzione quella del cronista o quella del personaggio-testimone, il conte Avogadro. […] Pietas che meritano sia il carnefice, che la vittima: perché entrambi, nella realtà più vera del loro vivere, sono stati vittime.[107]
Nella rievocazione dello scrittore, da un evento drammatico che avrebbe dovuto separare decisamente le due esistenze, si è giunti invece a scoprire che “l’altera Linda e il misero Bianchet sono molto più vicini di quanto si possa immaginare: li unisce una infelicità che li rende complementari”.[108]
Capitolo III
Il bosco veneziano
Il secondo romanzo dello scrittore trevigiano, Il bosco veneziano, è stato pubblicato nell’ottobre 1999.[109] La narrazione nel suo complesso, si snoda secondo due linee direttrici principali: l’andata e il ritorno.
Nell’ambito di questi due movimenti l’autore ha posto il tessuto centrale dell’opera, che comprende un arco temporale che va dal 1471 fino agli ultimi anni del 1800, e narra le vicende legate all’espulsione degli abitanti del Montello dal loro bosco; su questa trama, poi, l’autore intreccia altri momenti della storia del popolo veneto, aggiungendo racconto a racconto, personaggio a personaggio.
Il romanzo è composto di ventuno capitoli, con l’aggiunta di una postilla finale. Per individuarne rapidamente i nuclei tematici fondamentali, la narrazione può essere sintetizzata in quattro parti.
Dal capitolo II al capitolo XI “l’ottocentesca odissea”[110] della famiglia Barro, ricostruita nel susseguirsi di tre generazioni (Ireno e Gemma, i nonni, Bino e Clotilde, i genitori, Toni, il figlio), è assunta come vicenda emblematica della sorte che ha accomunato diverse generazioni di montelliani alle prese col “bosco proibito” del Montello.
A partire dal capitolo VII, Bino, accogliendo la proposta di un amico, cerca di interrompere il destino di miseria che dai primi Barro (Ilario ed Antonia), ciclicamente si è ripetuto fino alla sua generazione. Il progetto di riscatto sociale ideato dai due amici, che prende forma nel corso del 1870, prevede la corruzione del capoguardia Tessari e consiste nell’installare e far funzionare una segheria clandestina sul Montello, presso la caverna denominata “Bocca Tempesta”. Nel 1873, tuttavia, l’omicidio impunito del capoguardia segna la fine del piano e getta un’ombra sull’anima di Bino poiché, pur innocente, avverte che la silenziosa condanna dei compaesani di Giavera è ricaduta su di lui. Dopo il delitto, che non viene più ricordato fino al capitolo XIX, la narrazione prosegue estendendosi fino al 1882, cioè l’anno dell’inondazione che devasta tutti i paesi dell’Italia nord orientale.
I capitoli dal XII al XIV sono occupati dal viaggio in treno di Bino e Toni verso il porto di Genova, viaggio durante il quale i due incontrano altri contadini veneti che, come loro, nel 1883 sono costretti a emigrare in Brasile a causa della calamità naturale. I contadini offrono all’autore il pretesto per aprire una digressione, descrivendone i vari paesi d’origine travolti dall’inondazione. Il racconto continua con la descrizione della traversata oltre oceano degli emigranti, che viaggiano stipati nei locali di terza classe sul piroscafo Savoia.
Nei capitoli dal XV al XVIII, il narratore rievoca la colonizzazione trevigiana del mato[111] brasiliano a partire dal 1883 fino al dicembre 1893, anno in cui Toni, l’ultimo dei Barro, decide di lasciare il Brasile.
Dal capitolo XIX al capitolo XXI si segue Toni che, ritornato a Giavera, suo paese d’origine, nei primi mesi del 1894 inizia ad esercitare l’arte della rabdomanzia appresa in Brasile da Jacopo, il cacciatore di Bugres.[112] Nel contempo fa quello che il padre (rimasto in Brasile e ancora tormentato dal peso dell’ingiusta sentenza dei Giavaresi) si aspetta da lui: indaga tra la gente per capire la vera identità dell’assassino del capoguardia Tessari. Col buon esito dell’indagine e il ricordo degli eventi e dei personaggi significativi che Toni ha incontrato nel proprio cammino, si conclude il romanzo.
Il bosco veneziano “è un romanzo nato dal silenzioso e appartato viaggio nel passato di uno scrittore che cerca nelle vicende pubbliche e private di ieri le patrie perdute, i riferimenti che hanno fatto la storia del nostro paese”.[113] È un percorso che aveva compiuto con successo anche ne Il delitto della contessa Onigo.[114]
Tuttavia, l’autore trevigiano, nella sua seconda opera, pur continuando a privilegiare le esistenze di chi è vissuto ai margini della storia, approfondisce la sua indagine: in questo caso, infatti, a essere ricordato è un intero popolo, quello dei pisnenti montelliani dei quali si narra che siano “ruspi e selvatici”. Questa loro particolarità deriva forse dalla rabbia accumulata da generazioni private per secoli del diritto di poter usufruire liberamente delle risorse offerte dal Montello.
In anni in cui questo era ancora fitto di roveri imponenti, per gli abitanti della Pedemontana il bosco costituiva una fonte primaria di integrazione alimentare e di autosussistenza.
Ma fin dal 1471, il bosco del Montello si trasforma in un bosco proibito, in seguito alla legge emanata dal doge Nicolò Tron, il quale, per mezzo di controlli severi e incendiando le case dei montelliani, assicura alla Serenissima l’uso esclusivo per l’Arsenale di Venezia.
Per gli abitanti della collina il provvedimento innesca un esilio forzato, che termina solo nel 1892, “quando Umberto I firmò la legge che dichiarava alienabile il bosco demaniale del Montello […]. Ancora oggi percorrendo le prese e i sentieri del Montello, è possibile imbattersi […] in qualcuno di quei cippi di pietra che documentano la divisione della collina ad uso di vari regimi che l’hanno sfruttata”.[115]
La diaspora di questa popolazione assume proporzioni rilevanti specialmente nel corso dell’Ottocento, secolo in cui è ambientato Il bosco veneziano. Il romanzo rende nota la questione del bosco, seguendone gli sviluppi attraverso la storia emblematica dei Barro, una famiglia immaginaria di montelliani, della quale seguiamo in particolare le vicende di Bino e Toni.
Da Bino e dalla moglie Clotilde nasce Teofilo detto Toni: la storia che si era ripetuta identica fin alla generazione di Bino, inizia a mutare e a prendere un corso differente proprio grazie all’insofferenza di quest’ultimo nei confronti del proprio destino. Insofferenza che arriva al culmine soprattutto dopo che nel 1882 la “brentana grande”[116] causa la tragica morte della moglie: “Desso basta aveva detto piano, [...], mentre sulla bara di Clotilde venivano gettate le ultime palate di terra, e Toni aveva capito che suo padre si era riferito a quella vita grama e a quel posto”.[117] La terribile e rovinosa piena del Piave risulta essere: “una tragedia granda, [...] che distruggeva il lavoro di tanti uomini, e non lasciava loro alcuna speranza per molti anni”.[118] Prima dell’inondazione, in tanti, per le difficoltà quotidiane a sbarcare il lunario o perché costretti a rischiare la vita come boscaioli abusivi, avevano pensato all’emigrazione come unica possibile soluzione.
Già prima di sposare Clotilde, anche Bino, dopo aver conosciuto, all’osteria Lorenzon, il mediatore di lavoranti per la Merica, inizia a “sentirsi camminare nell’anima il tarlo di andar via”.[119] Tuttavia l’ipotesi non viene mai presa realmente in considerazione anche perché, dopo il matrimonio, “nella povera casa dei Barro, c’era sempre di che combinare il disnare con la cena”.[120]
Lorenzon gira per i paesi cercando giovani “in cui intuiva qualche inquietudine”,[121] disposti ad emigrare in Brasile, il paese in cui per tutti ci sarebbe stata terra in abbondanza da coltivare e di cui diventare proprietari. Nei suoi discorsi resta sottinteso che: “il viaggio era facile e di là dall’oceano c’era la cuccagna e che bastava allungare una mano per prenderla”.[122] Anche se i discorsi del procacciatore si rivelano lusinghieri, Bino non si illude che “da qualche parte del mondo la vita potesse essere davvero gioiosa e bellissima. E però meno canchera che andare a rubar legna sul Montello, questo sì”.[123]
Così, dopo l’inondazione che oltre a tutto lo aveva privato anche della moglie, Bino prende la risoluzione che lo porta assieme al figlio Toni e a migliaia di disperati, a imbarcarsi il 4 marzo 1883 sul piroscafo Savoia che da Genova li condurrà verso il Brasile.
Era risaputo, tra gli emigranti italiani, che affrontare il viaggio oltreoceano su un piroscafo francese sarebbe stato più comodo (poiché in Francia, per legge, poteva essere imbarcato solo un certo numero di passeggeri sullo stesso mezzo), ma la difficoltà insita nel dover passare un’altra frontiera faceva loro scegliere comunque “i piroscafi italiani che inghiottivano insaziabilmente tutti i disperati che vi si affollavano intorno”.[124] Nei due giorni prima dell’imbarco i millecinquecento emigranti vagano a piedi scalzi per la città “perché volevano risparmiare le scarpe [...] le portavano appese al collo perché le mani erano occupate a tenere stretti infiniti fagotti”.[125]
Mazzocato descrive accuratamente sia i particolari dell’imbarco che quelli dei viaggiatori di terza classe; anche del Savoia che si presenta ai loro occhi come un’immensa “massa nera alla fonda del porto”[126] e della organizzazione della loro vita a bordo, lo scrittore fornisce dettagli puntuali in suoni, colori e odori. Mogli e mariti ad esempio, devono dormire in zone diverse e solo di giorno le famiglie si ricompongono. Inoltre sulla nave, per ogni sei persone c’è un capo rancio che deve occuparsi dell’organizzazione dei pasti degli altri cinque. Al rancio, di cui Bino è il capo, appartiene anche il bellunese Sereno Rudatis. Costui è un pittore girovago che affresca Madonne e scene di vite di santi sui muri di case e chiese: poiché firma sempre le sue opere col simbolo del mezzo taglio di luna, viene chiamato Luna da tutti.
Durante il viaggio, il pittore diventa per Toni il primo grande amico da cui impara a leggere e scrivere, grazie a pochi e consunti libri della biblioteca di terza classe. Luna gli racconta della sua vita errabonda, e di come “in ogni paese c’era qualche solitudine da riempire e da consolare, qualche donna disperata e senza uomo”.[127] Si sofferma in particolar modo sull’intensa e breve passione vissuta con Irma, “la madre degli zattieri”. Le storie di Sereno introducono il quindicenne Toni alla vita adulta cosicché, oltre che viaggio della speranza, per il ragazzo l’itinerario assume le valenze più profonde di viaggio iniziatico.
Conclusasi la sua funzione di maestro di vita, il personaggio di Sereno esce di scena, in seguito alle ferite riportate nel tentativo di salvare un bambino dalle fiamme di un incendio scoppiato nell’infermeria di terza classe. Più volte lo scrittore, nel corso della narrazione, ribadisce che “il viaggio sull’oceano aveva trasformato Toni”,[128] quasi a volerci confermare che per l’ultimo dei Barro si era proprio trattato di un viaggio iniziatico.
Giunti a destinazione, prima di scendere dal Savoia, gli emigranti vengono visitati frettolosamente dai medici dopodiché, come una lunga fila di formiche nere, sbarcano. Le famiglie, una volta a terra, vengono nuovamente divise: mentre le donne e i bambini rimangono nelle posadas, le baracche fatiscenti del porto, gli uomini e i ragazzi più grandi vengono condotti da una guida attraverso la foresta, verso i lotti loro assegnati. Forniti di sacchi di semi e qualche attrezzo, devono sottrarre faticosamente la terra al mato, “ostile e bastardo”,[129]abbattendone gli alberi immensi, e poi incendiandoli per fertilizzare il terreno su cui piantare i primi semi.
Solo dopo che gli uomini hanno costruito una capanna e prodotto il primo raccolto, le donne possono abbandonare le posadas del porto di Rio Grande do Sul per ricostituire i nuclei familiari. In questo luogo sconosciuto la vita dei montelliani, nei primi mesi, si rivela più difficile di quanto potessero immaginare; specialmente per chi come Bino e Toni ha la consapevolezza che nessun familiare li raggiungerà, si fa sentire opprimente il senso di “lontananza assoluta da tutto e da tutti [...] in quel miserabile lembo di foresta, assieme alla minaccia dei Bugres e delle bestie feroci”.[130] Il lotto loro assegnato si trova vicino ad un corso d’acqua che i due montelliani, di comune accordo, pensano di chiamare Nuova Giavera, quasi per sentirsi più vicini alla loro terra d’origine. Nonostante le difficoltà da superare, Toni si rende conto che il padre, a differenza di lui, ha finalmente trovato il luogo dove passare il resto della vita e che “di lì a qualche anno avrebbe dato il giro a quella vita bastarda”,[131] recuperando finalmente la serenità.
Un mese dopo aver abbattuto gli alberi, i due montelliani li incendiano, secondo quanto è stato loro insegnato. Poiché, nei giorni seguenti, l’azione viene sistematicamente ripetuta in varie zone della vallata del Rio Taquari, i due Barro, contandone le colonne di fumo, constatano con sollievo di non essere gli unici sopravvissuti alla fame, alle bestie e ai Bugres.
Di anno in anno, il senso di isolamento tra i vari coloni si riduce anche perché, nel frattempo “i sentieri incerti e mal segnati del mato si erano trasformati in strade”[132] che permettevano maggiori collegamenti tra i proprietari dei diversi lotti. “Sebbene il [...] cuore [di Toni] fosse già lontano, sulle strade polverose del Montello, sulla Pedemontana e sulle vallate dell’Agordino,[133] il giovane Barro si rende utile nei confronti della piccola comunità di esuli, leggendo e scrivendo lettere per loro. Grazie alla sua abilità che permette ai coloni di comunicare con i familiari al di là dell’oceano, la capanna di Bino e Toni diventa un punto di riferimento per tutti gli emigrati. La maggior parte di costoro, infatti, è analfabeta e se per Toni nello scrivere lettere “c’era qualcosa di sacro e di definitivo”,[134] per i coloni significava riassumere la loro vita, “restituirle un senso attraverso la dignità misteriosa della parola scritta”.[135]
È scrivendo una lettera sotto dettatura che Toni apprende della reale esistenza dei Bugres, gli indigeni. Infatti, via via che si procede al disboscamento e all’alterazione del mato, i Bugres, affamati per la perdita del loro ambiente naturale, sono costretti a rubare i raccolti dei coloni, diventando per loro pericolosi. Ma per Jacopo, il cacciatore di Bugres, la verità è un’altra: gli Indios “non erano nemici misteriosi, ma animali da stanare”,[136] e sterminare. Dopo che questi ultimi gli hanno ucciso moglie e figli, Jacopo (di origine siciliana) decide di rimanere in Brasile, vivendo sorretto unicamente dal desiderio di vendicarne la morte. È lui che narra a Toni la triste sorte toccata agli jurnatari di Bronte (i suoi conterranei fucilati dalle truppe di Nino Bixio); nel destino di quel popolo di braccianti, sfruttati e senza terra, Toni rivede quello dei pisnenti montelliani.
L’autore, avvalendosi di questo inquieto personaggio, introduce nel romanzo due realtà di miseria a confronto, quella italiana e quella sudamericana. È evidente poi il proposito di Mazzocato di proporre, partendo dalla vicenda particolare del Montello, una metafora universale delle patrie perdute: quella siciliana, del cacciatore di Bugres, il Cadore di Sereno Rudatis e lo stesso mato del quale gli Indios vengono forzatamente espropriati. Prima di lasciare la casa di Bino e Toni, il cacciatore di Bugres insegna l’arte della rabdomanzia al ragazzo che ne farà tesoro al suo ritorno in patria. Infatti, dopo che il padre nel 1891 si sposa con Rosa, da poco rimasta vedova e proprietaria del lotto al confine con quello dei Barro, Toni casualmente, viene a sapere che il 21 febbraio del 1892 “il parlamento italiano aveva approvato la legge che restituiva il Montello alla sua gente”.[137] Prima di concretizzare il suo desiderio di far ritorno in patria, il ragazzo decide di scrivere allo zio Carlo Agnoletti. Nella risposta, l’uomo spiega di essersi sempre interessato delle questioni relative al Montello il cui bosco nel frattempo, grazie al tenace sindaco di Montebelluna, è stato dichiarato alienabile. Lo informa, tuttavia, che la collina è ormai spoglia, dopo anni di ininterrotto disboscamento.
Nel dicembre del 1893, Toni Barro riattraversa l’oceano imbarcandosi come spalatore di carbone sul Garibaldi.[138] Bino, nei giorni precedenti la partenza, “gli aveva parlato più volte di Bocca Tempesta, raccontandogli tutto dell’avventura sulla collina”,[139] cioè del tentativo di creare una segheria clandestina e di come questo si fosse concluso drammaticamente con l’assassinio della guardia Tessari. Con questo racconto, Toni aveva capito che il padre gli aveva implicitamente chiesto di occuparsi del mistero irrisolto dell’omicidio di Tessari. Ritornato nella sua terra natale, incontra Don Carlo Agnoletti e insieme convengono che è giusto far chiarezza su quella vecchia storia, affinché suo padre riacquisti del tutto la serenità. Tuttavia pochi a Giavera sono disposti a parlare dell’omicidio a Toni svelando le dinamiche e l’identità del colpevole; molte invece sono le famiglie che, anche dai paesi vicini, lo chiamano per cercare l’acqua poiché, si mormorava avesse “qualcosa di magico nelle mani e nelle braccia”.[140] Pur mantenendo la sua attività di rabdomante, Toni ricorda la promessa fatta al padre. Pertanto continua ad informarsi finché scopre la verità sul delitto, grazie al racconto di un uomo incontrato all’osteria. Costui svela a Toni la storia di Teresa, figlia di Tessari, e le circostanze che portarono suo zio Remigio ad ucciderne il padre nel corso di una lite.
Il romanzo si conclude nel segno del passato con gli avvenimenti e le esistenze che hanno incrociato la vita di Toni: il suo viaggio verso l’America, Bocca Tempesta, la madre Clotilde, l’amico Sereno Rudatis, Rosa, (la nuova moglie di Bino), Irma (la madre degli zattieri) e Teresa.
Il bosco veneziano[141] “narra l’epopea tragica dei montelliani, l’epopea degli ultimi, che diventa, […] emblema e simbolo di ogni sradicamento, di ogni emigrazione, di ogni diaspora e di ogni patria perduta”.34
Mazzocato ha affermato di aver impiegato solo pochi giorni per la stesura effettiva del suo secondo romanzo,35 e di essersi soffermato invece alcuni anni sul lavoro preparatorio di documentazione e raccolta dati.
Sostiene inoltre, in una lettera inedita, che la descrizione del territorio brasiliano in cui si insediano i coloni trevigiani, è stata elaborata in seguito alla lettura approfondita delle lettere degli emigranti, che ne evidenziano le paure davanti al mato e nel mato. Mazzocato rileva poi, di “aver trovato un manoscritto che descrive [in particolare] le vicende di Giavera” e di come sia stato impegnativo non tanto reperire la documentazione, quanto “selezionare e soprattutto scegliere il materiale da far ruotare attorno all’idea che [aveva] in mente”.36
D’altra parte, per quanto riguarda le vicende dei pisnenti trevigiani, l’autore spiega di non aver incontrato alcuna difficoltà nel descriverne i sentimenti e nell’immedesimarsi nelle loro emozioni, poiché, anche se appartenente ad un’epoca tanto diversa da quella contemporanea:
Il mondo trevigiano mi appartiene […]. Sono di origini contadine, e molto spesso nella mia memoria, ritornano gli odori, i profumi, le luci, il gioco di chiaroscuri, le case, le cucine di un tempo.37
Queste ultime precisazioni, in effetti, trovano conferma nella presenza di numerose notazioni sensoriali che individuano, rispetto al primo romanzo, un “raccontare più intimo, meno cronachistico, dedicato ai sentimenti più personali, legati alla terra”.38 In questo senso va interpretata la precisazione di Mazzocato, per il quale “ il Montello è, prima di ogni altra cosa, il recupero di un luogo dello spirito”,39 recupero che nella narrazione avviene a più livelli, non solo sul piano storico, ma anche attraverso la rievocazione leggendaria della sua origine:
Tra le Alpi e il mare si estendeva una ininterrotta pianura. […] Nella notte dei tempi, in un istante solo e per miracolosa filiazione dal ventre stesso della terra, emerse dalle acque una collina oblunga. E solitaria, lontana e diversa com’era da ogni altra montagna. […] La collina nascondeva in sé il segno misterioso della propria nascita. Aveva luoghi orridi e inaccessibili, caverne sotterranee, acque scorrenti e nascoste che talora affioravano.40
Col Montello, Mazzocato vuole rappresentare una terra in cui l’uomo, le sue passioni, le sue storie siano universalmente valide; per questo, nel secondo romanzo, “fa confluire i vari momenti della narrazione in un’epopea sociale degli ultimi, nella quale possono riconoscersi tutti gli sfruttati, non solo i pisnenti de Il bosco veneziano”.41
La saga familiare dei Barro, nel succedersi di tre generazioni, è uno degli strumenti di cui l’autore si serve per evidenziare l’eterno ritorno degli eventi. Infatti, anche nella patria brasiliana, la violenza e la brutalità della storia si ripetono, ad opera dei coloni trevigiani sui Bugres, gli indigeni della foresta. Della ciclicità della storia si fa portavoce Toni il quale:
vedeva bene che la storia era sempre la stessa e che i Bulgari del mato brasiliano assomigliavano molto ai montelliani espulsi tanti secoli prima dalla loro collina. E che pazzia dolorosa era la vita, un giro agro e bastardo di gente che viene sbattuta via dalla sua terra e, nell’esilio, patisce fame per generazioni. Poi, ad un certo punto qualcuno vuole rompere la catena delle privazioni e degli stenti. E così si mette per mare, affrontando ogni pericolo.42
Bino e Toni rappresentano tutti coloro che “perduta la patria, come Ulisse ed Enea, si mettono per mare, affrontando ogni pericolo per cercar[ne] una nuova”.43 Tuttavia dei due, solo Toni riesce a vedere realizzato il sogno che accomuna tutti i montelliani. Infatti, dopo aver imparato l’arte della rabdomanzia ed essere tornato in patria, ritrova la sua terra e il suo bosco finalmente liberi da padroni.
Delle molte figure che compongono l’opera, è Toni l’unico personaggio attraverso il quale si definisce e completa il senso del romanzo, che si apre e si chiude nel suo nome. La frase da lui pronunciata “l’aqua xé là. ’A xé aqua bona”,44 collega l’inizio e la fine del libro, e individua uno dei motivi ribaditi costantemente. L’acqua diventa simbolo, metafora della vita e delle forze che la dominano, forze naturali e misteriose e in quanto tali, da rispettare. La ripetizione consente inoltre di rilevare l’abilità del narratore nel comporre la propria opera come “tessitura di momenti narrativi che da un’asse di cronologia lineare, retrocede spesso a recuperare intervalli di trama”; inoltre si caratterizza per “un’accortezza strutturale, che va dal centro del racconto alle sue periferie, tenendo vivi sia l’intreccio portante che le notazioni complementari”.45
Toni, che identifica la poetica del nostos, del ritorno che equivale a ritrovare sé stessi nelle proprie radici, si definisce come il personaggio portavoce del messaggio espresso dal libro:
l’uomo aggredito da una profonda insoddisfazione vorrebbe scappare, senza rendersi conto che non si possono mettere a fuoco i propri desideri, lontano dalla cultura [di appartenenza].46
Il viaggio, altro filo conduttore del romanzo, è lo strumento attraverso cui Toni giunge a questa consapevolezza, ma non solo. La traversata oceanica per lui ha una valenza più profonda che per gli altri personaggi, in quanto la conoscenza di Sereno Rudatis e delle sue esperienze segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Il narratore ribadisce questa nuova condizione, confermandola più volte con la frase “il viaggio sull’oceano aveva trasformato Toni”, e aggiungendo in seguito “Toni ormai era un uomo fatto, che stava decidendo quale strada prendere nella vita”.47 L’itinerario verso la scoperta del proprio compito, in America era consistito nel farsi verbo per l’intera comunità di emigrati, nella propria terra d’origine invece, si trasforma nel suo nuovo mestiere di rabdomante.
Il ritorno a Giavera è segnato da due strumenti: il bastone della pioggia e quello da rabdomante, che diventano rispettivamente simbolo del suo passato e del suo futuro. Il bastone della pioggia infatti contiene i semi di frumento appartenuti a Sereno, cui Toni intende idealmente dare sepoltura: “avrebbe rotto i sigilli al bastone della pioggia e restituito alla terra di Sereno, ciò che restava di lui”.48
Invece, lo strumento di cui si serve per cercare l’acqua, rappresenta il suo tentativo di sottrarsi alla ripetitività della storia, praticando un mestiere con cui, forse, riuscirà ad interrompere la catena di miseria e stenti cui per generazioni era stata legata la sua famiglia.
Rispetto al primo romanzo qui il respiro della narrazione si estende: variano sia il paesaggio che i personaggi, tra i quali va ricordata Clotilde, la madre di Toni, in quanto interprete del “narratore di storie”, una delle figure ricorrenti nelle opere di Mazzocato.
Il tema dell’America nel romanzo precedente e nella raccolta Gli ospiti notturni,49 era stato vagamente accennato come un luogo indefinito verso cui tendere. Ne Il bosco veneziano50 invece acquista una fisionomia precisa nel farsi della narrazione.
Capitolo IV
Gli ospiti notturni
Tra le opere narrative di Gian Domenico Mazzocato quella più recente, pubblicata nell’ottobre 2001, si intitola Gli ospiti notturni.[142]
Lo scrittore trevigiano, dopo aver sperimentato ne Il delitto della contessa Onigo[143] e ne Il bosco veneziano[144] le potenzialità espressive connesse all’uso di una forma letteraria duttile come quella del romanzo, per il suo terzo libro ha invece scelto lo strumento narrativo breve e circoscritto del racconto.
È un’opera nata dal recupero memoriale di vicende (sentite raccontare o direttamente vissute) appartenenti alla sua storia familiare. Si tratta di una silloge costituita da nove racconti, più o meno ampi, frutto di una sedimentazione lenta e stratificata nel tempo; i brani si susseguono nel libro col seguente ordine: La Merica, La strada sotto il mare, Il Turco, La Teta, Nobile, Ghericuper, 1904, Gli ospiti notturni e Zio Fabio. Tale sequenza non rispecchia il tempo effettivo dell’operazione letteraria che li ha generati. Ad esempio La Merica,[145] composto nel 1991, è il racconto che aveva segnato l’esordio narrativo dello scrittore, seguito da Gli ospiti notturni e Ghericuper. Dei rimanenti, il più recente è La strada sotto il mare, se si esclude Zio Fabio che, nato come introduzione alla silloge, è stato successivamente ridotto fino a divenirne la chiusura.
Il momento creativo dei singoli testi documenta che la silloge è nata in uno spazio di tempo che comprende quasi dieci anni ed è costituita da parti preesistenti ai romanzi e parti che li hanno seguiti. Dopo averli raccolti, selezionati e revisionati, lo scrittore ha scelto di renderli coesi attorno all’enigmatica figura di zio Fabio, dai cui racconti, ambientati “nella caneva tra i profumi del raboso”,[146] ha tratto ispirazione. Come si scopre nelle righe dell’ultimo brano, è lui il personaggio nel quale va ricercata la chiave di lettura dell’intera raccolta. In lui si concentrano emblematicamente i temi che nelle varie sfumature connotano e percorrono l’intera composizione: l’amore, nelle sue molteplici forme (libero da vincoli, tra il protagonista omonimo di Ghericuper e la donna soprannominata la “Busona”), filiale e coniugale (in La Merica e La Teta), fraterno (in La strada sotto il mare); la morte, che nella silloge è presente anche nella forma più drammatica del suicidio (è il caso di Antonino, il protagonista di La strada sotto il mare) oltre che in quello di ricordo utile ad addolcire il presente (come nel racconto La Merica e La Teta); il tempo, che fugge e sfugge quando meno si pensa (esemplari in questo aspetto le vicende di Lunardo Gironivola e di zio Fabio morto contento tra le braccia della “sua amica”); il cantastorie e il tema del viaggio – vagabondaggio (carattere essenziale soprattutto dei protagonisti omonimi dei racconti Ghericuper, Nobile e Il Turco).
Più che soffermarci sulle singole trame, considereremo la raccolta dialetticamente e complessivamente; poiché infatti la sua creazione si è stratificata nel tempo, essa rivela affinità in temi, ambientazioni e personaggi, con i precedenti romanzi. Privilegeremo pertanto i racconti che più rappresentano e permettono di spiegare la poetica dell’autore.
Tra tutti converrà citare per primo Gli ospiti notturni poiché già dal titolo, permette di sviluppare interessanti considerazioni sulla genesi dell’opera.
Infatti, nell’intenzione dello scrittore, il racconto in questione avrebbe dovuto chiamarsi Lunardo Gironivola, cioè col nome del protagonista. Dopo il lavoro di editing si è scelto invece di denominarlo Gli ospiti notturni. Quest’ultimo è stato poi prescelto come racconto eponimo cosicché, la raccolta che inizialmente (nell’idea di Mazzocato) avrebbe dovuto chiamarsi Storie trevisane, è diventata Gli ospiti notturni.
Il passaggio dal titolo originale a quello definitivo si deve ascrivere alla volontà di sintetizzare emblematicamente la condizione che accomuna tutti i personaggi dell’opera: quella di essere degli “ideali convitati ad un filò della memoria”.6 Infatti Gli ospiti notturni è un nome che implicitamente intende evocare il recupero memoriale che sottende l’intera raccolta, nata dalla suggestione di vicende realmente vissute che al lettore vengono restituite sospese tra realtà e fantasia.
Sveliamo, con le parole di Pietro Ruo, chi siano complessivamente gli ospiti notturni:
possono essere dei fantasmi, oppure soltanto degli amici che vengono a trovarci quando la luna è già alta nel cielo e si specchia sulle acque del Sile. O anche degli esseri immaginari che ci portano l’ispirazione, il desiderio di cogliere gli aspetti più nascosti ed inquietanti della vita.7
Mazzocato nel corso dell’intervista ha reso noto che il racconto eponimo è nato da una circostanza ben precisa: l’incontro con il pittore Luigi Rincicotti (colui che ha dipinto l’immagine della copertina de Gli ospiti notturni). Mazzocato spiega come, dopo averlo intervistato, abbia avvertito di non essere riuscito a comprenderne appieno la complessa personalità.
Il senso dell’incompiuto e dell’irrisolto hanno spinto pertanto lo scrittore a far emergere il mistero di quest’uomo scrivendo di getto, la notte stessa del loro incontro, il racconto Gli ospiti notturni. Tale racconto, per altro, è quello che nella produzione di Mazzocato ha subito minori cambiamenti nel passaggio dalla prima stesura a quella definitiva.
Si tratta della storia di un lunatico pittore che ha scelto di trascorrere la propria esistenza nei pressi di un fiume, decidendo di vivere e lavorare a stretto contatto con la natura, in un volontario esilio dalla società. L’intenso legame del pittore con l’ambiente fluviale, consente di introdurre una serie di notazioni sulla flora locale che svelano, nel lessico puntuale, una conoscenza precisa del luogo da parte di Mazzocato.
Lunardo era una parte del fiume e delle sue rive. Partecipava, nel succedersi delle stagioni, al mutare dei colori. Osservava il grigio liquido e odoroso delle foglie invernali in marcita mescolarsi all’azzurro primaverile dei mysotis. E i fiori in spiga delle lingue d’acqua, ora rossi e poi verdi, erano nei suoi occhi assieme al rosa pallido del fiore di cuculo. […] I suoi capelli e la sua barba avevano il candore lucido del ranuncolo d’acqua che fiorisce durante tutta l’estate.8
Lo pseudonimo con cui l’artista firma le sue tele è Lunardo Gironivola; se il nome fa pensare alla luna (e quindi ad una dimensione notturna e onirica), il cognome (scelto dal pittore stesso) allude invece
all’eterno tornare degli eventi, al ripetersi delle stagioni al lunario scritto nel sangue, perfino al suo destino. […] Lunardo nel fondo dell’anima sapeva che ogni quadro era generato dalla sua stessa firma. Quasi un esorcismo o una preghiera. Gironivola era un’attesa, un silenzio, una dilatazione sospesa dell’animo.9
Il pittore dipinge con fantasia visionaria, tele colorate e ricche di personaggi che danno corpo alle sue inquietudini. La finestra, elemento ricorrente in ogni quadro, nasconde il segreto della sua ricerca: “la finestra alludeva alla sua vita […], all’inquietudine dell’andare verso la foce, verso il destino che attende”.10 Nel corso della sua esistenza, (in un momento indefinito dato che, ne Gli ospiti notturni questo è l’unico racconto in cui la definizione del tempo e dello spazio rimane ambigua) Lunardo di notte vede approdare vicino alla propria capanna, non è chiaro se in sogno o nella realtà, una barca che trasporta dei personaggi misteriosi e sempre diversi. Con loro non è possibile comunicare e per molto tempo, Lunardo non osa neppure rivolger loro le domande che lo tormentano. Vorrebbe interrogarli sul senso dell’esistere, del lavorare e di come sia possibile fermare il tempo che passa. Dopo molte visite notturne, il pittore trova il coraggio di rompere il sortilegio del silenzio e di rivolgersi a uno degli strani personaggi. E’ il “Dormiente” che rompe il silenzio, consegnandogli un’ampolla con “l’acqua del tempo rallentato […], in grado di uccidere il tempo e la Morte”. Dopo questo evento, Lunardo che muore dipingendo l’ultima sua opera, comprende “che era lui il padrone della vita e del tempo e che solo lui con le sue mani abili, poteva propagare la vita, conferire giovinezza ed eternità”.11 Lunardo è l’archetipo che “rappresenta la voglia di purezza e ingenuità, il ritorno allo stato di natura. Con la paura che il fragile tempo della vita umana non basti a dire o a fare qualcosa che lasci il segno”.12 Un personaggio surreale come Gironivola è in realtà umanissimo ed è in questo senso, secondo l’affermazione dello scrittore, assieme a Ghericuper, tra le sue creazioni più autobiografiche. Infatti anche Ghericuper, rappresenta l’inquietudine e il non avere in alcun luogo l’ubi consistam, che si manifesta nel suo continuo vagare per i paesi della pedemontana montelliana, nei quali introduce l’invenzione del cinematografo.
Zio Fabio è il personaggio in cui convergono molti elementi e che suggella la silloge nata attorno alla memoria della sua concreta figura. Il protagonista vuole essere la sintesi conclusiva di più figure familiari, della cui suggestiva capacità affabulatoria, Mazzocato ha conservato indelebilmente il ricordo.
Tra tutti, in particolare, a segnare l’esistenza di Mazzocato come scrittore, è stato il padre. Non a caso Gli ospiti notturni13 è dedicato proprio a lui (scomparso recentemente), e non a caso Zio Fabio è posto al termine della raccolta. Questa scelta strutturale rivela come, dall’inizio alla fine della propria creazione letteraria, Mazzocato abbia saputo collegare e tenere uniti tutti i fili che la legano. Ribadisce anche il tema della morte. A questo proposito le righe che precedono il capoverso finale in Zio Fabio, recano un’intensa dichiarazione di poetica:
ora so che la scrittura è prova di recita, è iterazione, esorcismo, tensione, profezia. Dunque sperimentazione e regola dell’unico istante veramente autentico dell’esistenza. Il fatto è che non si scrive mai per raccontare la propria vita ma per progettare la propria morte. Mai la scrittura è analisi del tempo, piuttosto è attenzione fissata sull’attimo ultimo.14
Lo scrittore allude alla morte come all’unico istante veramente significativo della vita, e proprio con l’enunciazione di questa verità si chiude Gli ospiti notturni,15 silloge di racconti nata nel segno della riflessione sulla caducità, sulle speranze e le attese dell’uomo.
A livello stilistico e concettuale, il riproporsi del tema della morte come tema centrale o solo accennato, conferisce unità alla raccolta, ma principalmente testimonia la volontà di ricercarne il senso profondo.
Nella sua brevità ed essenzialità, Zio Fabio interpreta pienamente il principio caro all’autore secondo il quale lo scrivere è un’arte in togliere, mai in aggiungere, e l’abilità dello scrittore consiste anche nel saper evocare in poche parole, il ritratto sia fisico che morale dei propri personaggi.
Considerando gli altri racconti della silloge, a parte La strada sotto il mare (che non solo è ambientato durante la prima guerra mondiale, ma ne rievoca drammaticamente gli orrori e l’insensatezza), si rileva come Mazzocato lasci invece la Storia per lo più sullo sfondo, e percorra le esistenze e la psicologia dei suoi “Ospiti” per mezzo di una scrittura che ne definisce a tutto tondo la personalità.
Infatti l’autore sente la misura breve del racconto la più consona a rendere il profilo psicologico dei singoli personaggi, che scorrono tra le pagine rivelando al lettore, nello stesso tempo, le costanti di storia e di destino universale di cui si fanno portatori.
Quella dello scrittore trevigiano è una campionatura dell’uomo, delle sue passioni e idee, sotto forma di un universo minimo che riaffiora tra le pagine del romanzo come documento di vicende drammatiche e spesso dolorose della società italiana, di volta in volta esemplificate in casi singoli (che diventano emblema di una realtà più ampia), o episodi collettivi visti attraverso il punto di vista di un solo protagonista (come la guerra, in La strada sotto il mare). Si prospettano così personaggi nello stesso tempo veri e metafisici poiché frutto di incontri reali che solo in sede di scrittura, sono stati trasfigurati dalla fantasia dell’autore.
Nella silloge Mazzocato spesso interrompe il racconto con pause liriche, come nel caso del protagonista di Ghericuper, colto in aperta campagna mentre improvvisa un cinematografo rudimentale:
aveva fermato il suo camion vicino a un campo di girasoli, uno sconfinato mare giallo e arancio. I girasoli avevano la corolla reclinata in una posiúione di sonno e il sole radente illuminava i petali in un ultimo bagliore dorato. Il pomeriggio era stato pieno di voli di rondini già in migrazione. Antonio ne aveva dedotto che l’inverno sarebbe stato freddo e precoce: anche per questo aveva ansia e tristezza nel cuore. Arrestò il camion e issò lo schermo su un palo della luce.16
Ciò che assieme ai personaggi, assume rilievo nel farsi della narrazione, è l’ambientazione. Anche in questa raccolta come nei romanzi precedenti, domina il territorio trevigiano in cui “sono stratificate e parcellizzate tante e differenti piccole patrie. Collina, montagna, zone precollinari e premontane, pianura, fiumi di resorgiva e torrenti impetuosi”17 con storie ed esistenze diverse da luogo a luogo.
Lo scrittore non racconta la sua terra in chiave mitica, ma calandosi appieno nelle diverse particolarità che la contraddistinguono, utilizzando una geografia precisa e ricorrente che conferisce fisicità e realismo alla narrazione. E’ opportuno rilevare come, anche dove sembra che la descrizione di ambienti e luoghi sia frutto di un’operazione di fantasia, si tratti invece della rappresentazione di un luogo visto realmente dallo scrittore.
Ne Gli ospiti notturni18 la storia non è quella approvata e tramandata dalla storiografia ufficiale; nemmeno quella che celebra le imprese o le personalità più illustri. Qui la storia prende forma attraverso esistenze oscure, circondate dall’anonimato, fino a che lo scrittore le sottrae all’oblio.
Ricordi sbiaditi dal tempo, sentimenti, volti di gente comune e ambientazioni si animano nel farsi della narrazione, rischiarati dalla luce e dai colori che ricordano in certi tratti quelli luminosi dei pittori della tradizione veneta del Quattrocento, Cinquecento.
Come nelle precedenti opere, anche ne Gli ospiti notturni19 è presente una sintassi dialettale semplice e colloquiale. Il dialetto, come ha ricordato Dino Coltro,
ha conservato le parole della gente non «colta», ma più delle parole la concezione della vita, «sapienza» elaborata nei secoli sull’esperienza, sull’osservazione, sulla «memoria» delle generazioni, trasmessa e conservata nella tradizione orale. [Questa] diventa la «letteratura» parlata, consegnata come un patrimonio «ideologico» da una generazione all’altra.20
CONCLUSIONI
Mazzocato è, prima di tutto, un narratore di storie, individuali ed extraindividuali. Scrivere storie, per lui significa compiere un viaggio a ritroso nel tempo, riunire disgregati ricordi per ricostruire il quadro di un’epoca. In questo senso va letto il recupero delle vicende pubbliche e private, delle memorie e delle testimonianze anche minime di una cultura ormai tramontata, radicata nella civiltà rurale trevigiana tra ´800 e ´900.
Nelle tre opere Mazzocato assume personalmente, in un certo senso, il ruolo di un suo consueto personaggio, quello del cantastorie. Mentre però il cantastorie tramanda oralmente la tradizione di cui è portavoce, lo scrittore ha la consapevolezza che il modo migliore per dare consistenza al patrimonio culturale di cui si fa interprete, sia di rievocarlo narrativamente, nella forma del romanzo o del racconto.
In ogni singola opera è evidente la volontà di introdurre una pluralità di elementi atti a suscitare nel lettore l’eco e il sapore dei tempi andati, accanto all’analisi storico-politica della realtà lontana o contingente. La civiltà contadina viene scomposta negli elementi che le sono propri, usanze, atmosfere, luoghi e mentalità. A prevalere sono le descrizioni evocative e ripetute, le note di ambiente e di costume affidate ad appunti visivi di valore documentario. A fungere da tessuto connettivo e a fornire una complessiva chiave di lettura è l’ambientazione trevigiana che nelle opere di Mazzocato, non compare in qualità di mero elemento decorativo, ma come il punto d’osservazione privilegiato in cui ricercare la cultura ancestrale di un popolo. Una cultura che si tramanda nei riti, nelle leggende, nelle credenze e nella religione. Nella ricerca narrativa di Mazzocato si definisce un sentimento popolare che individua nella natura un sovramondo popolato da presenze misteriose e invisibili come le Anguane1 (magiche evanescenti fate di rara bellezza, che dimorano presso le fonti d’acqua pura e limpida) o entità come la mare de San Piero2 il ricorso alle quali vale a interpretare una serie di fenomeni altrimenti inspiegabili per la gente del popolo.
“Nell’Olimpo contadino e popolare […] la credenza nell’intervento di esseri soprannaturali nelle faccende degli uomini [è giunta] fino a noi sotto la splendida veste della leggenda”, che introduce nella quotidianità contadina, scandita dalla ritualità del lavoro, “il momento magico del filò che [portava immediatamente gli ascoltatori] dalla povertà quotidiana allo splendore della creazione fantastica”. Così anche i filò frequentati dai personaggi di Mazzocato diventano luoghi di aggregazione per eccellenza, che trasformano di volta in volta il cortile o la stalla in “una scuola senza banchi”3 in cui le antiche consuetudini degli anziani vengono idealmente consegnate ai giovani. La rievocazione del passato, oltre che per mezzo di scene, mentalità e ambientazioni, è ottenuta attraverso la“crespa corrente dialettale che percorre, con le sue simpatiche cadenze”,4 l’intera produzione narrativa dello scrittore. Il dialetto della Treviso urbana è la forma delegata ad esprimere concretamente l’agire, il pensare, il parlare del popolo; il suo accostamento all’italiano crea una sorta di commistione linguistica, in cui una lingua sorveglia e impedisce all’altra di essere eccessivamente lirica. Si tratta di un espediente che Mazzocato utilizza per dare forza e rigore alla sua scrittura, poiché solo con la sintassi e il lessico veneto è possibile esprimere certe immagini o emozioni (come il simiton5 di Bianchet) che risulterebbero innaturali e fuori registro, se dette in altro modo.
I tre romanzi sono accomunati dal tono volutamente medio anche se tra testo e testo si possono rilevare differenze minime: così Il bosco veneziano,[147] ad esempio si distingue dagli altri per il ricorso più frequente alle similitudini. Nei primi capitoli del libro ad esempio, Mazzocato parla di “occhi neri e brillanti come le bacche mature del moraro”, o di un croato magro “come lo scheletro di un albero in letargo”. Come avviene in questi due casi, nel corso del romanzo, la quasi totalità dei paragoni è tratta dal mondo della natura, espediente che consente all’autore di sottolineare, tramite l’adesione ambientale e paesistica, la concretezza della sua narrazione.
Anche della silloge Gli ospiti notturni[148] è interessante evidenziare una particolarità, che si rinviene proprio nel racconto eponimo, caratterizzato dalla particolare inclinazione al magico, al visionario e al notturno. Nel corso della narrazione infatti l’autore sperimenta un registro stilistico nuovo che, se ne Il bosco veneziano[149] era appena accennato, ora viene sviluppato nella sua interezza.
Nelle tre opere Mazzocato intende conferire alla narrazione un andamento antiretorico, antienfatico, del quale si avvale, senza per questo rinnegare la cultura moderna, per ripercorrere il senso della Storia e recuperare le radici della sua terra. L’operazione è affidata al valore paradigmatico e documentario di storie di vita semplici ma profonde, al lavoro, alle leggende, alle musiche alle memorie passate del mondo contadino trevigiano, che diventano pertanto un contributo alla conoscenza del mistero dell’esistenza e un invito alla riflessione poiché, “forse da sempre, ma oggi con maggiore intensità, c’è bisogno di sapere da dove si viene per sapere dove andare”.9
Intervista a Gian Domenico Mazzocato
- Come e quando hai iniziato a scrivere?
Ho scritto i miei primi articoli attorno ai vent’anni, a metà degli anni Sessanta. Prima non avevo scritto nulla, e nemmeno avevo collaborato ai vari giornalini scolastici. Anche se in segreto coltivavo l’amore per la poesia (da ragazzino mi entusiasmavo per le imprese dei paladini di Francia e per la bella morte di Orlando con la sua spada Durindana) ho avuto un percorso tormentato come studente d’italiano: accettato in pieno o rifiutato dai miei insegnanti, senza via di mezzo.
Mi sono laureato con una tesi su Folengo. È stato il grande latinista Giorgio Bernardi Perini a propormela. Si trattava di lavorare su un’opera inedita del poeta del Baldus, l’Hagiomachia (che fa parte della produzione folenghiana “seria”, non quella maccheronica insomma). Dalla celebre affermazione di De Sanctis in poi, si è sempre parlato di un Folengo scappato dal monastero per motivi di donne. O magari, come sostiene uno studioso del valore di Billanovich, per irregolarità contabili.
In realtà Teofilo, assieme al fratello Giovan Battista, fu uno dei potenziali capisaldi della riforma luterana in Italia. Era pertanto in odore di eresia e la sua uscita dal monastero è da ascrivere a motivazioni teologiche e dottrinali. Di opportunità, anche.
In un secondo momento, forse per le difficoltà incontrate, Teofilo volle dimostrare il suo ritorno all’ortodossia, il suo ravvedimento. Lo fece scrivendo l’Hagiomachia, che è pertanto da considerarsi opera fondamentale per la sua biografia. Subito dopo la laurea sono stato assistente di Giorgio Bernardi Perini, fino a quando ho vinto il concorso per l’insegnamento alle superiori.
Ho cominciato la mia attività giornalistica sul settimanale diocesano «La vita del popolo», in seguito ho collaborato con altri giornali. Attualmente ho limitato moltissimo l’attività giornalistica. Coltivo alcune collaborazioni saltuarie e ho un contratto da editorialista col «Gazzettino»: scelgo gli argomenti e i tempi; mi interesso di problematiche varie, del mondo della scuola, della realtà giovanile, di eventi culturali.
Quando mi fu offerta l’occasione di lavorare stabilmente presso un giornale (circa venti anni fa), non lo feci. La proposta riguardava la «Gazzetta dello Sport» e il «Corriere della Sera»: fui tentato, ma avrei dovuto trasferirmi a Milano. Professionalmente sarebbe stato un gran salto, di prestigio, ma il mio cronoluogo, il mio hic et nunc è a Treviso. Sono nato a pochi passi da Piazza dei Signori (sopra l’osteria “I Due Mori” e ricordo, come colonna sonora della mia fanciullezza, le sguaiate ma affascinanti canzoni di taverna, le prove della banda cittadina e, al mattino, le urla degli ortolani al mercato della frutta). Continuo a risiedere a Treviso, anche se ora abito in faccia al Montello, la collina che così spesso ritorna nella mia narrazione. Non riuscirei ad immaginarmi distante da questa città e non riesco a pensare la mia scrittura lontano da qui.
Mi sono spesso interrogato sulla natura di questa identità, di questo forte e nodoso legame di appartenenza alla mia terra, ma non ho trovato risposta. So solo che da altre parti mi sento spaesato. Credo di essere un buon cittadino del mondo perché vivo bene in qualsiasi situazione e in qualsiasi posto. Amo viaggiare, e anche in modo avventuroso. Amo conoscere, provare. Non trovo difficoltà a socializzare con alcun tipo di persona. Però ho bisogno di tornare qui, sia per scrivere che per approvvigionarmi di idee. Amo le biblioteche della mia città, le sue strade e il paesaggio attorno alla città, così vario. In pochi minuti si è al mare o in montagna.
Qualche volta ci penso. Se dovessi scrivere la mia autobiografia, ne verrebbe fuori un profilo banale, un panorama piatto. Ma è dalla mia storia, dal mio vissuto, dal mio rapporto con la memoria (sempre in dialettica con ciò che vedo oggi) che continuo ad estrarre, come da un pozzo inesauribile, tutto quello che scrivo e, prima ancora, avverto.
Ho anche una grande passione sportiva, il rugby. Prima come atleta, poi come giornalista e scrittore. Ancor oggi seguo (in me affiora sempre il temperamento sanguigno del tifoso) la squadra di Treviso. Dal mio rapporto con il rugby sono usciti tre libri. Quello in cui mi riconosco di più è stato scritto circa una decina di anni fa. Si intitola Treviso, la prima volta,[150] e rievoca il titolo vinto dalla squadra trevigiana della Faema nel 1956, il primo in assoluto. Ho raccontato di una squadra squattrinata che non aveva i soldi nemmeno per un buono mensa dopo le trasferte, di un gruppo di ragazzi operai che strappò il titolo ai ricchi e predestinati universitari del Petrarca. Soprattutto ho raccontato una città ancora dolorante per le ferite della guerra e per i bombardamenti subiti, una città che anche attraverso uno sport fatto di fatica e di umiltà, cercava di alzare la testa. È stata una bella vicenda di scrittura: ho letto giornali vecchi di decenni, ritagli talora ridotti a brandello, ho fatto uscire vecchie foto sbiadite dal fondo di mille cassetti, soprattutto ho ascoltato la voce dei protagonisti di tanti anni prima. È stato bello, in qualche occasione, improvvisarmi detective. La vita ha disperso i protagonisti di quella splendida avventura sportiva in ogni angolo della terra. Li ho rintracciati tutti, ad uno ad uno e li ho fatti incontrare nella grande festa di presentazione del libro. Piangevano, nel riabbracciarsi dopo tanti anni. E c’erano anche i figli e i fratelli di quelli che, nel frattempo, erano scomparsi. Era come se sentissero ancora vivi i loro cari. Io, in un angolo, mi dicevo, a mia volta commosso e coinvolto: “ma guarda quanta forza ha la scrittura”.
- E gli altri libri di rugby?
Sono due instant book, scritti in presa diretta per i titoli vinti da Treviso nel 1978 e nel 1989. Forse ci si può stupire, ma il rugby rientra nella mia dimensione culturale perché vi sento l’unicità di uno sport in cui ravviso una metafora completa dell’esistenza: lo stare insieme, il lavorare per un unico scopo, ognuno nella specificità del proprio ruolo. Nessun altro sport insegna come questo a rispettare l’avversario ed è come questo scuola di vita, spirito di sacrificio. Se vivere è incanalare la propria aggressività secondo un codice di regole, niente lo sa fare meglio del rugby. Una scuola in cui sono cresciuto e che mi ha consentito di conoscere straordinari uomini di sport, a Edimburgo, Dublino, Londra, Parigi, città che vivono di questa disciplina rude e verissima.
- Lo scrivere romanzi è stato influenzato dalla tua attività giornalistica?
Certo, in due modi. Intanto a livello degli strumenti crudi del lavorare. Reperire materiali e documentazione; saper stare sulla notizia e saper cogliere ciò che avvince il lettore; selezionare con rigore il buono dal meno buono: sono tutte cose che si apprendono sui tavoli delle redazioni, magari a contatto con qualche vecchio giornalista che ti insegna i mille trucchi del mestiere, le mille pieghe della psicologia per cui si riesce a far dire a qualcuno quello che non ha detto ad alcun altro. Oppure si riesce a capire e quello che non viene buono per un articolo oggi, diventa esperienza per il futuro.
Poi c’è il linguaggio: scrivere è un’arte in togliere, mai in aggiungere. Assomiglia al lavoro dello scultore che tira fuori la statua dal blocco di marmo che la contiene, mai a quello del pittore che aggiunge pennellata a pennellata. Bisogna saper scavare, ridurre all’essenziale, liberando la lingua dalle pesantezze e restituendole la sua nudità aurorale. Con dieci parole si può dare al lettore il ritratto di una persona, fisico e morale insieme. Io tormento la mia prosa, asciugandola e prosciugandola in continuazione. Quella che sembra essere una grande semplicità di scrittura è il frutto di una elaborazione perenne.
Il lavoro di giornalista mi è servito anche ad acquisire una sensibilità tattile e fisica nei confronti del mondo veneto e della sua cultura. I giornali per i quali ho lavorato infatti, mi hanno sempre adoperato (è la parola giusta e io mi reputo fortunato in questo) per intervistare persone di grande interesse e spessore, per sentire storie, e grazie a questo tirocinio ho acquisito una spiccata sensibilità in quella direzione. Mi sono nutrito, di queste storie, e qui sono nato come scrittore. Nei personaggi dei miei romanzi e dei miei racconti fluisce e scorre in continuazione una ricchezza di vita che ho acquisito ascoltando gli altri.
- Mi parli della genesi del racconto Gli ospiti notturni? In che rapporto si pone con il pittore Luigi Rincicotti?
Il racconto Gli ospiti notturni[151] è nato subito dopo una intervista a Rincicotti. Nella stesura dell’articolo sono stato aggredito dal senso dell’incompiuto. Il senso dell’incompiuto e dell’irrisolto è forse il miglior amico dello scrittore, lo stimolo a straniarsi, ad andare a cercare una verità diversa e ulteriore. Rincicotti è artista di grande complessità: avvertivo di aver fatto un buon lavoro come giornalista e di aver scritto con diligenza e professionalità tutto quello che l’intervista aveva fatto emergere. Ma c’era una sorgente nascosta che pullulava ancora, oltre le parole che ci eravamo scambiati.
Non avevo chiaro il mistero di quell’uomo. Ho scritto, ho raccontato per farlo emergere. Nemmeno ora lo avverto con chiarezza, con limpidità, tuttavia questo è il mistero straordinario e salvifico della scrittura: attraversare una situazione morale e spirituale senza comprenderla fino in fondo, ma, in qualche modo misterioso, rivelarla a sé e agli altri. Non ho dormito la notte che è seguita all’intervista, immerso com’ero nella sensazione avvolgente di quell’uomo e dalla sua pittura. Nel dormiveglia ho pensato al fiume e ai personaggi che arrivano di notte nello studio del pittore; ho scritto di getto e questo racconto è, tra le mie cose, quello che è arrivato alla pubblicazione più vicino alla stesura originale.
Poi mi sono divertito, come in un gioco di specchi, a moltiplicare personaggi e approdi. Nel misterioso farsi della scrittura questi, che possono sembrare trucchi, sono in realtà esplorazioni delle potenzialità della parola, indagini sulle tensioni segrete che percorrono e innervano ogni narrazione. Sono anche dei rilanci continui di situazioni, alla ricerca del nuovo, dell’inedito. Ripeto: scrivere è rivelare a se stessi, prima che al lettore.
Quel racconto, nelle mie intenzioni, recava come titolo il nome del protagonista, Lunardo Gironivola. Poi, nel complesso e articolato lavoro di editing (un lavoro che non appartiene mai allo scrittore ed è dunque delicatissimo, in equilibrio perennemente precario) è diventato Gli ospiti notturni. Successivamente è venuta l’idea di trasformarlo in racconto eponimo. Per il resto la silloge, come avviene per tutte le raccolte di racconti, nasce per uno stratificarsi nel tempo, per un sedimentarsi lungo. È una genesi del tutto diversa da quella di un romanzo che è, in qualche modo, sempre ascrivibile ad una precisa e limitata stagione. Questa silloge appartiene a dieci anni, con i racconti La Merica e proprio con Gli ospiti notturni a vantare la primogenitura, la maggiore anzianità.
- Come si è arrivati al titolo definitivo della silloge Gli ospiti notturni? [152]
In parte ho già detto. Pensavamo di chiamare questa raccolta Storie trevisane (che pare impossibile, ma non è stato usato da alcun scrittore) che riecheggerebbe il bel libro di Giorgio Bassani Cinque storie ferraresi, ma le cose sono andate diversamente.
Gli ospiti notturni[153] ha una sua complessità, un suo estendersi in profondità a tutta la silloge: fornisce, come titolo, una sintesi sottile ma vera, che tiene bene. Come ha scritto con grande sensibilità Pietro Ruo, recensendomi nel «Gazzettino», in realtà tutti i miei personaggi sono ospiti notturni (Ghericuper, la Teta, la Antonia de La Merica):[154] sono degli ideali convitati ad un filò della memoria. Inoltre è un titolo che ha una forza evocatrice, un suo orfismo che non sfuma in lirismo gratuito, ma rimanda alle memorie terragne e ancestrali del mio raccontare.
- In questi ultimi anni ti sei anche dedicato alla traduzione di classici greci e latini.
Ho lavorato molto con la Newton Compton e ne è uscita la traduzione della Storia di Roma dalla fondazione[155] di Tito Livio: sono sei volumi di cui ho curato anche le introduzioni, gli indici analitici e le note. Poi ho tradotto i quattro libri e mezzo a noi giunti delle Storie[156] di Tacito e le sue tre opere minori cioè il Dialogus de Oratoribus, l’Agricola e La Germania.[157]
Ho avvertito un grande maestro di scrittura soprattutto in Tito Livio, un veneto, un padovano al quale i contemporanei, pur ammirandone la grandezza di scrittore, rimproveravano quello che io avverto come il suo maggior pregio stilistico, la patina di dialettalità, la patavinitas. In Livio sento una presenza forte sul territorio di confine, là dove due lingue si parlano e si alimentano l’una dell’altra (ma anche si fanno la guardia a vicenda), un aiuto poderoso ad usare una lingua asciutta e scabra. Ed anche a saper entrare col passo e col respiro giusto in una storia.
Livio rimanda a quello che è il suo più grande studioso italiano cioè Machiavelli. Se il più grande narratore che la cosiddetta cultura occidentale ha prodotto è Giovanni Boccaccio, il più grande maestro di scrittura della letteratura italiana è Machiavelli. Il suo stile, legato ad una struttura dilemmatica, è quanto di più moderno ed essenziale si possa immaginare. Niccolò usa la parola con la forza dirompente di una vanga e la delicatezza di un bulino. Taglia come spada, è abrasivo come carta vetrata: scolpisce immagini, delimita situazioni, delinea ritratti. Non penso, in primissima istanza, soltanto al Machiavelli de Il principe, de l’Arte della guerra, degli stessi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ma soprattutto al Machiavelli dell’Epistolario, che mi appare, per ricchezza e varietà di situazioni e per capacità di operare differenti scelte e adeguamenti di linguaggio, come uno fra i più grandi libri della letteratura italiana. È coinvolgente: Niccolò si pone davanti al lettore (lui sa bene che lo leggeranno anche i posteri, oltre che i destinatari delle singole lettere) e, di volta in volta, lo prende in giro, lo blandisce, ci scherza o lo commuove.
- Altri autori, altri libri che per te sono stati importanti? E perché quel richiamo forte a Boccaccio?
Un altro libro importante nella mia vita, soprattutto con riferimento alla vastità di impianto e alla rivelazione del mondo veneto, è stata la monumentale autobiografia di Casanova, che ritengo uno dei più grandi romanzi italiani. Non solo del Settecento.
Quanto a Boccaccio, è necessario chiedersi cosa sarebbe la cultura occidentale senza il Decameron che è il poema epico e, ad un tempo, il romanzo dell’umana intelligenza, la summa di tutti i modi in cui essa può manifestarsi. È un caleidoscopio di umanità che va dal punto più basso in cui essa si rivela, cioè dalla furbizia pelosa e scintillante insieme di Ciappelletto, per arrivare alla culminazione di Griselda, dove Boccaccio dimostra (con la forza di un teorema e con il grande impatto della cultura borghese che andava, anche grazie a lui, affermandosi) come i più alti atteggiamenti spirituali, la più raffinata sensibilità possano abitare nell’animo della figlia di un porcaio. Tuttavia identifico in Dante la figura ideale di intellettuale: disinteressato, incapace di piegarsi ai compromessi. Trovo che la Commedia sia un’affermazione di individualità ed anche un atto di fiducia nella storia, e sono convinto che la cantica più alta sia il Paradiso. Qui Dante evidenzia la straordinaria tensione morale della sua arte, secondo la nota definizione del Getto che ravvisa nel Paradiso il poema epico della grazia, intesa come forza morale e intellettuale. In un’epoca di eclissi della metafisica, in un secolo che ha proclamato e conclamato la morte di Dio (nella visione etica dello stato e nelle più dirette conseguenze di questa, cioè i lager e i gulag) è consolante pensare al Dante intellettuale laico, anticlericale, cittadino, guerriero, esule, che si fa carico dei suoi problemi e di quelli di tutta l’umanità portandoli verso l’alto.
- Quali furono le tue letture importanti di adolescente? E in seguito?
Già da bambino amavo Pinocchio con il suo mondo di simboli e metafore e odiavo il libro Cuore. L’ho sempre odiato, trovo che sia falso, improponibile e antieducativo. Di cartapesta. Penso che la chiamata a scrivere sia nata già allora in me, con la lettura di Salgari e Verne (il primo molto più del secondo). Salgari l’ho letto tutto, prosciugando le finanze di mio padre e obbligandolo a comprarmi tutti i suoi romanzi. Mio padre però si faceva poi mio complice e lo leggeva assieme a me, di sera, spiegandomi quello che non capivo. Non è un caso che gli abbia dedicato Gli ospiti notturni:[158] a suo modo era un grandissimo affabulatore e gli devo molte delle storie e dei climi che racconto. Di Salgari, ho sempre saputo, fin da ragazzino che tutto quello che scriveva e descriveva ad ogni latitudine non nasceva da un suo avventuroso viaggiare. No, Salgari rimaneva nella sua biblioteca leggendo i viaggi altrui; mi emozionava moltissimo questa capacità di farti sognare partendo dai suoi stessi sogni. Questa figura dello scrittore che costruisce il mondo reale (perché è questo che fa Salgari) nel chiuso e nella dimensione irreale di una biblioteca mi ha sempre affascinato; coincide anzi con la mia idea di scrittura. È lo scrittore che ricrea il mondo, lo riplasma con la sua capacità di affabulazione e di raccontare, sovvertire, costringere a ritorni infiniti la quarta dimensione, cioè la dimensione temporale. Questa profondità temporale, che può essere stravolta, intrappolata, liberata, esorcizzata, la può creare solo l’artista.
Il mio editore (lo scrittore Ferruccio Mazzariol) sostiene che “scrivere è collaborare all’opera creatrice di Dio, anzi è amplificazione di quell’opera”. Un po’ ne sono convinto anch’io e questa è l’affermazione che mi ripeto nei momenti di stanchezza o in cui mi trovo incagliato in una situazione difficile, in una pagina bianca che non accetta di popolarsi di parole e idee. Beh, tutto questo, in nuce, in modo inconsapevole, mi è entrato nel sangue grazie ad Emilio Salgari. Lo leggo anche ora, da adulto, con lo scrupolo del filologo che ricerca persino le storie che il grande veronese scriveva a puntate sui quotidiani sotto pseudonimo.
Poi devo dire che la mia formazione è venuta nel segno dei classici e dei bravi maestri che ho avuto al liceo. Da loro ho appreso la lingua di Omero e di Esiodo. E poi la grande lirica greca: Archiloco (soprattutto il mercenario Archiloco che beve il vino d’Ismaro appoggiato malinconicamente alla sua lancia), Saffo e Alceo mi hanno profondamente segnato. Poi i grandi scrittori di teatro: più che Plauto, Terenzio, un autore modernissimo, capace di raccontare sofferenze, salti generazionali, diversità ideologiche.
Tra i contemporanei sento esemplare la figura di Federigo Tozzi, forse la voce narrativa più alta del nostro Novecento: gli sono molto lontano come tipo di scrittura, ma in lui c’è una nostalgia di fondo, un umanesimo sconsolato e però teso al bello che me lo rende vicinissimo. Tozzi non potrebbe che scrivere del contado di Siena, e abbeverarsi dei racconti dell’osteria dei genitori. Oppure non potrebbe che esplorare il dramma di una inettitudine a vivere assoluta, eppure assetata di pace, come nella vicenda dei tre librai raccontata in Tre croci. Tozzi poi è molto più lirico e onirico di me, ma ugualmente lo sento vicinissimo perché anche lui ama le cose, gli strumenti di lavoro quotidiani. Se li fa passare davanti, li elenca, li oggettiva e poi li fa diventare il simbolo di qualche profondità dell’anima, un passaporto per i viaggi della memoria.
Uno scrittore che amo moltissimo e che sento maestro di scrittura è Cesare Pavese, soprattutto l’ultimo Pavese, quello de La luna e i falò, de La Casa in collina e il Pavese dei testi poetici come Lavorare stanca. E a proposito di testi poetici uno scrittore da cui ho imparato molto è Pasolini. Soprattutto una sua raccolta (Trasumanar e organizar) mi ha dato la dimensione della socialità dello scrivere, del ruolo dello scrittore e della posizione dialettica che deve assumere rispetto al milieu culturale in cui vive. È, in fondo, il problema perennemente nuovo e dunque perennemente irrisolto dell’interlocutore, del messaggio da recare a chi ti legge.
In questo senso lo scrittore è sempre alla ricerca di risposte, di ritorni rispetto a quello che dice. Una definizione importante della poesia (e che dall’ambito della poesia credo si possa e si debba estendere a quello della narrativa, di ogni forma di scrittura consapevole) me l’ha data un grande poeta contemporaneo che ho avuto la fortuna di conoscere ed intervistare, Nelo Risi. Quando gli ho chiesto: “Ha senso oggi scrivere, ha senso fare poesia?,” Risi mi ha risposto con una affermazione che non dimenticherò mai: “Sì, ha senso fare poesia, perché scrivere poesia è l’unico modo di raccontare la vita rispettandone il ritmo”. Scrivere ha senso se si rispetta il ritmo della vita: è una verità assoluta.
Un altro scrittore molto importante per me è stato Fulvio Tomizza, per quanto molto più intimista di me ed espressione di un ambiente molto diverso dal mio. Tomizza dopo aver letto Il delitto della contessa Onigo[159] mi ha scritto una lunga lettera in cui mi indica come uno dei suoi epigoni. Di me ha scritto: “La narrativa di Mazzocato dà la sensazione di essere dentro i grandi romanzi siciliani. Al tempo stesso il mondo veneto ne risulta portato al massimo di estensione e di completezza”.[160]
Se poi devo dire chi non amo, allora dico Moravia che è stato autore sopravalutato e che già oggi è difficile proteggere da un giudizio di mediocrità. Di lui riesco a salvare solo i Racconti romani. Di recente ho dovuto rivedermi Gli indifferenti, opera scopertamente, smaccatamente ideologica. A leggere quel libro si capisce bene come l’ideologia che pretende di sovrastare e condizionare l’individuo, di essere categoria assoluta, sia un sottoprodotto del pensiero: l’ideologia non può mai sostituire l’idea, cioè i valori che tu hai, i tuoi punti di riferimento. Un altro che non mi piace è Cassola (in fondo autore di un solo libro leggibile) mentre amo moltissimo Bassani, le atmosfere che sa creare con poche parole. Leggo molto anche gli autori veneti, naturalmente.
- A proposito, cosa pensi di Giuseppe Berto e Carlo Sgorlon?
Giuseppe Berto è uno scrittore che mi ha fatto riflettere molto sul senso dello scrivere e sugli strumenti di scrittura. Il suo Male oscuro è stato una scoperta. Anche se io ho un modo di scrivere totalmente differente, di quel romanzo mi è piaciuta la prosa magmatica e coinvolgente, senza pause, tutta giocata su associazioni foniche e sull’accavallarsi delle ondate della memoria. Forse a rileggerla adesso, appare un po’ datata, ma conserva intatto il suo valore sperimentale e, devo aggiungere, un grandissimo fascino, frutto certamente di notevole e consapevole abilità tecnica ma anche di un rapporto con la scrittura esemplare. Scrittura come ragione di vita, come farmaco per continuare a vivere, per guarire dalle malattie profonde dell’animo…
Quanto a Carlo Sgorlon è uno scrittore che sento vicinissimo e che mi accompagna da sempre. Credo di aver letto tutto di lui compresa quella prosa lirica che è La notte del ragno mannaro. È un racconto surreale che fa un po’ il verso all’Ulisse di James Joyce.
Preferisco lo Sgorlon degli inizi, Il trono di legno, La regina di Saba. E poi La conchiglia di Anataj, così allusiva al grande tema della solitudine. Vorrei poi, di Sgorlon, ricordare una raccolta di racconti che costruiscono un’aura di un’inquietudine estrema, Il quarto re mago. Qui Sgorlon è riuscito a rendere splendidamente il senso dell’inappagatezza, dell’incompiuto, della soluzione cercata e mai trovata, magari per un sottilissimo accidente del caso. Vi leggo la dimensione dell’uomo che anche quando è vicino alla meta e quasi tocca l’oggetto della sua ricerca, se ne sente sempre irreparabilmente diviso. È il grande tema dell’inchiesta, l’eterna e inesauribile ricerca del Graal. Il primo dei racconti si intitola appunto Il quarto re mago: si sa che i re magi della tradizione e del presepio sono tre, ma qui protagonista è un quarto re, quello che arriva in ritardo e non vede Gesù. Segue la stella anche lui, brucia delle stesse ansie degli altri tre, ha la stessa voglia di conoscenza, ma gli eventi lo deludono. Qui è tutta la condizione dell’uomo che è sempre sull’orlo di una rilevazione mancata. Un altro bellissimo, forse il più alto, libro di Sgorlon è Gli dei torneranno: se lo leggi scoprirai l’importanza che ha avuto per me. Qui Sgorlon è aedo, è rapsodo e talora di una grandezza che lo assimila ad Omero, nella misura in cui si fa raccoglitore degli umori della sua razza furlana, delle sue storie, del senso profondo che queste hanno come punto di riferimento e contraddistinguono l’appartenenza ad un popolo fiero e antico.
- Scrivi i tuoi romanzi direttamente al computer?
Scrivere al computer ormai mi viene congeniale però si perdono tutte le varianti intermedie. Per questo ogni tanto mi faccio la copia di una redazione. Non l’ho fatto, e mi dispiace, per tutti e tre i romanzi. Di fatto ho cominciato con le opere teatrali e con il romanzo che ho finito da poco. È un meccanismo che mi si è rivelato in qualche modo opportuno, forse necessario: per Mato de guera[161] penso di aver proceduto ad una decina di redazioni diverse. Il motivo è semplice: un’opera teatrale…nasce in teatro. Si buttano giù le idee a tavolino, ma poi si aggiunge e si toglie, si stravolge, si evidenzia qualcosa che in un primo tempo era lasciata sullo sfondo. C’è da aggiungere che una scrittura per il teatro è perennemente in fieri, non c’è recita che non apra nuovi orizzonti, che non chiami sottolineature, che non esiga adattamenti. Fondamentale per me, è oggi il rapporto con Gigi Mardegan, l’attore che ha portato sulle scene i miei due lavori per il teatro. Allora devo piegare la scrittura al computer alla necessità di avere presenti tutti i passaggi. Quante volte ci siamo detti: “questa battuta, questo passaggio è da riscrivere” oppure, inversamente “era meglio prima”.
- Hai esordito con le raccolte di liriche per giungere solo successivamente al genere romanzo.
Il romanzo è stato un punto di arrivo ma io ho, in qualche modo, sempre raccontato. Anche quando non me ne rendevo conto, scrivevo poesie alla ricerca di un linguaggio, alla ricerca di un modulo narrativo. La mia è sempre una poesia che racconta, che ha una storia dentro, che isola delle immagini, che cerca gli archetipi da cui discendono i comportamenti quotidiani. È anche dunque una delineazione di categorie esistenziali e di moduli di comportamento. Ancora centrale è la figura di mio padre.
- Hai vinto un premio per il racconto La Merica[162] nel 1992. Le tre raccolte di liriche si situano prima di questo evento nella tua attività.
L’ultima raccolta di liriche che ho pubblicato è del 1980, poi non ho mai più avuto voglia di mettere insieme i miei versi.
- Anche se continui a scriverli?
Qualcosa continuo a produrre, ma per me scrivere versi è un distillare una sensazione, scarnificarla fino in fondo, isolarne l’essenza ultima. Cerco l’elisir, la pietra filosofale. Mi è capitato di scrivere qualche lirica per delle occasioni particolari, però dopo Straniarsi è qui[163] non ho avuto più voglia e pazienza di mettere assieme dei versi, di curare una raccolta minima.
- Come narratore hai esordito con il racconto lungo La Merica che ha vinto il premio nazionale di narrativa “Città di Monfalcone”. Questo riconoscimento è stato utile nell’indirizzare la tua creatività verso la forma romanzo o la tua prima opera Il delitto della contessa Onigo[164] faceva parte di un tuo progetto preesistente a La Merica[165]?
Fu Bruno Maier, il massimo studioso e critico dell’opera di Svevo, a premiarmi per La Merica. Eravamo nel 1992 e io stavo facendo tutt’altra cosa, dirigevo alcuni uffici stampa e… non rientrava certo tra i miei programmi immediati mettermi a fare lo scrittore. Quel giorno Maier mi trasse in disparte e mi disse “Dentro di lei c’è uno scrittore vero”… Poi aggiunse: “Questi che ha attorno sono dei buoni dilettanti ma lei è uno scrittore vero, ha talento, si coltivi”. Il suo giudizio è stato decisivo, mi ha aiutato a capire quale fosse la mia strada. Così dopo aver lasciato tutto in sospeso per un po’, ho iniziato a scrivere Il delitto della contessa Onigo[166] (che nella sua prima stesura aveva un altro titolo, Processo per pellagra, caduto subito sotto i colpi inesorabili dell’editing: un titolo così – che peraltro a me continua a piacere- non venderebbe una copia).
- Mi parli della genesi del Delitto?
Il delitto della contessa Onigo[167] ha origini lontane, una storia che avevo dentro dai tempi in cui per tutt’altro tipo di studi compivo ricerche presso alcuni archivi parrocchiali. Mi sono imbattuto in questa vicenda che ho trovato drammatica e grande, emblematica di un popolo e di un’epoca. Negli anni successivi, senza che io ne avessi chiara coscienza, Pietro e Teodolinda, i due protagonisti della storia, hanno continuato a muoversi nella mia anima, a chiedere con insistenza di essere raccontati. Mi è successo (ma mi accade sempre, per ogni personaggio) quello che è accaduto ai sei personaggi pirandelliani. Di questa vicenda vi era una conoscenza ormai velata dal tempo, a brandelli, a tessere scomposte. E, mi pare, c’era anche un assassino che aspettava giustizia, aspettava che gli fosse restituita una dignità cui aveva comunque diritto. Ho attraversato l’anima del carnefice e anche quella della sua vittima. Credo in coscienza di aver rivelato delle verità su di loro, ma così ho fatto arrabbiare sia gli eredi di Pietro Bianchet che di Teodolinda Onigo.
- Come ti spieghi il successo de Il delitto della contessa Onigo? [168]
Non è vero che “non esiste il lettore”, come si dice troppo spesso e troppo facilmente in un’epoca che cerca alibi per un sovrabbondare di produzione letteraria di livello spesso deludente, perché se il lettore lo vai a cercare con le storie giuste, con le storie che lo rendono giustamente inquieto, il lettore c’è, e popola le librerie per comperarti e viene a sentirti quando parli. Credo proprio di poterlo dire che il lettore esiste, ma, ripeto, bisogna raccontargli le storie giuste. Che non vuol dire blandirlo o proporgli trame e scrittura di facile approccio. Significa raccontargli qualcosa che appartiene alla sua storia, al suo patrimonio genetico, un mondo sentimentale ed emotivo in cui sia possibile riconoscersi. Per i miei libri poi funziona molto il passaparola: ho uno zoccolo duro di lettori che mi sto costruendo poco a poco. E i librai mi chiedono quando pubblico il prossimo romanzo. Ma nemmeno inflazionarsi è onesto.
Poi bisogna dire che la storia di un successo ha sempre qualcosa di misterioso. Il mio editore (che ha fiuto, gusto e capacità enorme di captare le potenzialità di un libro) ci credeva sì, ma fino ad un certo punto. Ne ha stampato qualche migliaio di copie. La presentazione de Il delitto della contessa Onigo[169] è stata fatta a metà dicembre, evidentemente non uno dei momenti migliori per attirare l’attenzione del pubblico. Beh, tutte le copie bruciate in pochi giorni e pronta ristampa già durante le ferie natalizie.
Credo che ad emozionare il lettore, a coinvolgerlo ci sia il modo in cui ho deciso di raccontare la vicenda. Il romanzo altro non è che la narrazione dei dieci giorni di un processo. Un processo che di fatto era scontato: da una parte un assassino, reo confesso e autore di un delitto che aveva avuto decine di testimoni, un miserabile che non poteva certo movimentare un collegio di difesa all’altezza della parte lesa; dall’altra parte c’era la vittima, ultima erede di un casato illustre e dietro la quale spingeva, per una punizione esemplare, tutta una casta, un intero assetto sociale.
Eppure in quei dieci giorni avviene qualcosa di imprevedibile: prima in maniera impercettibile, poi in modo sempre più travolgente i ruoli si invertono. Il colpevole diventa sempre di più vittima, e la vittima assume i contorni di una persona gretta, avara, che si è costruita da sola le cause della morte. Bianchet diventa, nell’immaginario collettivo, addirittura il protagonista di una rivoluzione possibile. E la giuria che non sa più che fare: se giudicare l’assassino per il suo delitto, o tener conto delle terribili condizioni di sfruttamento, miseria e ignoranza in cui il delitto aveva messo radici. Qui è anche nata la scelta di raccontare su due registri, con la stessa vicenda vista dall’alto e dal basso, dai due opposti angoli di visuale dei miserabili e dei nobili.
- Ritornando alla domanda precedente, non c’era quindi stata pubblicità che creasse curiosità nel pubblico…
Niente… beh, devo dire che sono state pubblicate acute e belle recensioni. Ricordo poi con piacere lettere che mi sono giunte da tutta Italia, in particolare quella di un malato terminale calabrese che mi ha scritto una frase che per uno scrittore diventa molto importante: “Ho dimenticato per un pomeriggio la morte vicina, leggendo il suo libro”. Io sono molto attento, molto colpito da queste situazioni. Mi piace ricordare sempre come in Italia esistano due enti del libro parlato che curano la diffusione su cassetta dei libri per i non vedenti italiani di tutto il mondo. Questi due enti, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno registrato tutti i miei libri. Questo tipo di risposta mi fornisce un riscontro che equivale al piacere di un premio letterario. Per il resto io lavoro molto sul territorio. Vado dove mi chiamano a parlare delle mie storie e della mia scrittura. Preferisco incontrarli così i lettori, in tante piccole occasioni, costruendo un rapporto giorno dopo giorno, nelle piccole realtà locali come nelle grosse città.
- Nel romanzo la diversa realtà dei due protagonisti, grazie alla ricerca di informazioni e documenti negli archivi, ci viene presentata accuratamente attraverso una caratterizzazione storica oltreché psicologica. È interessante notare come tu sia riuscito a imprimere alla narrazione il giusto ritmo ed equilibrio tra le parti.
L’ho potuto fare giocando sull’equilibrio delle due voci narrative che si alternano nel romanzo. Il delitto della contessa[170] è stato pensato in questo modo, giocando su due diversi registri verbali, che rispecchiano due realtà sociali allo scontro. La rivelazione, per me scrittore, è consistita nella scoperta che tra questi due mondi ormai esisteva una barriera insormontabile di incomunicabilità. E solo un evento come un delitto poteva aprire un canale di comunicazione. Una rivelazione tragica e insieme fertile. Ho finto, rinnovando l’eterno stratagemma del manoscritto ritrovato, di aver scovato due scritti diversi (quello del maestro Bresolin e quello del conte Avogadro) e di aver lavorato per combinarli assieme, come due ruote dentate, per vedere se giravano assieme, soprattutto se si comunicavano movimento l’un l’altra.
È stato un lavoro non facile perché Linda ha lasciato una serie enorme di testimonianze, Bianchet non ha lasciato nulla. Di Linda ho ricostruito la vicenda e la storia attraverso le sue lettere, attraverso quello che gli altri hanno detto e scritto di lei, grazie alle pietre e agli affreschi dei suoi palazzi, sfruttando l’appartenenza della sua famiglia alla storia non solo della Marca ma anche del Risorgimento italiano.
Di Bianchet ho dovuto ricostruire il mondo. E questo ha comportato una conseguenza molto evidente: Bianchet è diventato un emblema, la sintesi di una condizione sociale, perfino una maschera, se vogliamo. Linda, nel farsi della ricerca e poi del romanzo, ha acquisito profondità psicologica, anima e carne (Bianchet è solo carne, trapassata da livore, odio, rancore).
E allora ho rappresentato Linda avara, ma dolente (per la sua condizione di illegittimità, di isolamento, di diversità anche religiosa). Bianchet è diventato un simulacro di rabbia, di ingiustizia patita oltre ogni possibilità di sopportazione.
- E la scelta del genere giallo, del poliziesco come è spiegabile?
Guarda che è una etichetta che mi hanno imposto gli altri, che mi ha appiccicato la critica la quale ha parlato di una possibile strada al legal-thriller all’italiana. Nel senso che conduco, pagina dopo pagina, i miei lettori a chiedersi cosa sarà del povero Bianchet, ad interrogarsi da che parte stare. E solo alla fine sciolgo l’enigma. Io trovo che la definizione mi vada stretta ma, ovviamente, accetto tutto. Sono stato (adesso non più tanto) un buon lettore di gialli, con spiccate predilezioni. Mi piacciono quegli autori che mettono davanti al loro lettore tutti gli elementi per consentirgli di arrivare alla giusta conclusione, non quelli che barano nascondendo qualcosa. Insomma Arthur Conan Doyle piuttosto che Agatha Christie. Ma al di là di ogni altra considerazione, nella mia adolescenza ho divorato tutti i grandi del genere nero, da cui il cosiddetto genere giallo discende, da Gaboriau a Stoker, da Mary Shelley a De Quincey, da Stevenson a Green. Con una predilezione su tutti per Edgard Allan Poe, per Matthew Gregory Lewis (Il Monaco, il suo capolavoro, è uno dei capostipiti del romanzo gotico) e soprattutto per Horace Walpole, probabilmente l’iniziatore assoluto del genere.
- Definiresti i tuoi romanzi di “recupero memoriale”?
Certamente. Ne Il bosco veneziano[171] (che ho steso in pochissimi giorni e già avendo in mente ben delineate la storia delle tre generazioni, addirittura i nomi dei personaggi) il recupero del Montello è prima che ogni altra cosa il recupero di un luogo dello spirito.
Anche perché nella storia della famiglia Barro, c’è la storia della mia famiglia (che pure è la storia di una famiglia di pianura, lontanissima geograficamente da quella dei Barro). E del resto pure ne Gli ospiti notturni[172] inseguo alcune vicende (raccontate o direttamente vissute) che appartengono alla storia della mia famiglia. In questi racconti recupero in qualche modo il rapporto con mia madre che ancor oggi, a dieci anni dalla morte, è un rapporto molto dialettico, aperto. Recupero soprattutto la figura di mio padre che è morto da poco, lasciando un vuoto, sul piano della parola e della comunicazione, che è incolmabile. E poi altri parenti: ad esempio in Zio Fabio (il racconto che suggella Gli ospiti notturni),[173] il protagonista nasce dalla sintesi tra una figura di zio (barba, come lo si chiamava noi) delle cui storie mi sono nutrito e la memoria di uno zio, a sua volta raccontato da altri.
La silloge inoltre reca il segno di un tentativo di rimozione di alcuni ricordi, di alcune memorie che ancor oggi mi opprimono. Ancor oggi sento l’angustia di alcune persone che, su me bambino, hanno consumato un vero e proprio tradimento, proponendomi come giusti e dovuti dei valori e degli atteggiamenti ipocriti. Il ragazzino sordo di cui si parla nel racconto La Teta, era effettivamente un mio compagno di scuola, poi diventato decoratore di piastrelle, proprio come nel racconto. La scena che io narro della maestra, nota per la sua pietà cristiana, che in piedi vicino alla classe dice “Tutti promossi tranne Giuseppe” mentre sua madre piange umiliata, è una scena vera. Ripeto, un evento che mi ha tradito come persona, mi ha confuso, perché nella mia ingenuità di bambino mi pareva giusto che essendo sordo dovesse restarsene isolato nel suo banco in fondo alla classe a disegnare. Ed era giustificato che, lui sordo, dovesse stare diviso da noi “normali”. Era così che pensavano gli adulti e noi bambini agivamo di riflesso. Certe memorie sono come un peccato di origine, è molto difficile lavarle vie.
- Non tutti i tuoi racconti aderiscono alla storia reale o pseudo reale; in alcuni il dato fantastico, trova spazio magari secondariamente, rispetto alla narrazione principale. In altri, penso ad esempio agli ospiti notturni che visitano nottetempo il pittore Lunardo Gironivola (nel racconto Gli ospiti notturni),[174] l’elemento visionario, onirico, è quello che domina.
Se ci penso, tuttavia, scopro che un personaggio surreale come Lunardo Gironivola è in realtà un personaggio umanissimo. Mi rendo conto oggi come Lunardo, assieme a Ghericuper, siano i personaggi in cui meglio mi racconto. La loro carne e la loro sensualità mi appartengono. Ghericuper rappresenta l’inquietudine, l’andare, il mai essere tranquilli, il non possedere in alcun luogo l’ubi consistam.
Sento di essere Ghericuper quando lui abbassa l’audio dei suoi film e li reinventa ogni volta. Perché lui rappresenta il ragazzino che ero io, il ragazzino che sognava di avere successo, di conquistare qualche ragazza giocando bene a calcio o realizzando qualche mirabile impresa. È la mia voglia di successo mista a un po’ di esibizionismo, però soffocata dalla timidezza che prendeva sempre il sopravvento e mi impediva di dire quello che volevo dire fino in fondo. Ghericuper è uno dei miei racconti più veri. E anche uno dei più sofferti e partecipati, se mai è possibile fare una graduatoria di partecipazione a ciò che uno scrive.
Quanto a Lunardo, lui rappresenta la voglia di purezza e di ingenuità, se vuoi il ritorno allo stato di natura. Con la paura che il fragile tempo della vita umana non basti a dire o a fare qualcosa che lasci il segno.
- In quasi ogni tuo scritto c’è la descrizione di un viaggio verso la morte. Spesso i protagonisti delle vicende narrate si trovano improvvisamente di fronte alla morte, altre volte se la preparano, magari inconsciamente, giorno dopo giorno. A questo proposito in Gli ospiti notturni si trova una frase emblematica: “Il fatto è che non si scrive mai per raccontare la propria vita, ma per progettare la propria morte”.[175]
Credo sia molto vera. Io sono ossessionato dall’idea della morte. Mi fa paura morire e soprattutto il pensiero che la vita è un lungo declinare, un lungo affievolirsi delle migliori risorse di parola e pensiero. Mi opprime l’idea di una malattia che non mi consenta di morire con dignità. Certo, racconto per esorcizzare la morte, un po’ come faceva Sherazade per rimandare di notte in notte la propria esecuzione. Mi fa anche paura il dopo, il pensiero del nulla.
- Prima però affermavi d’essere credente…
Sì, sono un credente, ma un credente in ricerca, dalla fede zoppicante, attraversata da mille dubbi, come puoi vedere.
- Non credi cioè che ci sia un aldilà?
Non lo so, è, per definizione un oggetto di fede. Io ho vissuto la mia vita scommettendo che ci sia, ma è una scommessa appunto, un insondabile mistero. Ho visto mio padre, un grande credente, un uomo dalla fede inattaccabile come il diamante, morire dicendo Gò paura de morir… . Ma devo dire che forse il problema non è nemmeno questo: io non riesco a spiegarmi il male, l’odio, la calunnia, il razzismo, l’intolleranza. Mi è difficile rintracciare il farsi di un disegno provvidenziale nella storia. Il Novecento sembra essere, come nessun altro, il secolo in cui tutto questo male si è condensato, coagulato. Ricordo quello che diceva Primo Levi in Se questo è un uomo, dal baratro del nulla che poi lo avrebbe portato al suicidio. “Se è esistito Auschwitz, non esiste Dio”. Il perché del male è centrale alla riflessione di ogni credente. Gli atei, gli agnostici non hanno gran bisogno di interrogarsi su questo, o forse hanno risposte meglio organizzate.
- I tuoi personaggi spesso muoiono ancora giovani o comunque vivono la morte delle persone care senza lasciarsi sopraffare dal dolore, trasformando il loro dramma in stimolo alla vita…
La vita va avanti, è una ruota. La Teta, ad esempio, accetta molto virilmente la morte del marito, con disperazione certo, ma conscia del fatto che bisogna reagire, che il suo uomo ha lasciato qualcosa che va continuato. E, al fondo, avverte anche che la morte del suo uomo è una svolta richiesta dagli eventi che sembravano avviati a sbattere contro un muro, senza una soluzione possibile. In qualche modo si rende conto della provvidenzialità del morire. Anche se tragica, dolorante, traumatica.
- Il teatro è sempre stato una tua passione?
Sì, sono sempre stato un grande fruitore di teatro. Ma ad essere sincero, quando per il teatro ho cominciato a scrivere, perché qualcuno mi ha coinvolto in quella splendida avventura che è l’andare in scena e rappresentare su un palcoscenico un dramma o comunque uno scampolo di vita, ho scoperto di avere cartucce bagnate. È stato un mestiere da reinventare, una scrittura da fare nuova. Bello, però, molto bello e ricco.
- Anche la fotografia e la pittura rientrano nelle tue passioni. Il cromatismo dei pittori della tradizione veneta (di fine ‘400 inizio ‘500) sembra essere presente nei paesaggi dei tuoi romanzi quando descrivi i diversi colori del bosco, il variare delle stagioni, i giochi della luce sull’acqua…
Già, i coloristi veneti Giorgione, Bellini, Tiziano e la luminosità del colore veneto sono ben presenti. La nostra gente li ha nell’anima, li cerca, li riconosce. Pensa solo a Sereno Rudatis, a Lunardo Gironivola. Nel racconto L’ultimo viaggio, che apre la silloge Crepuscoli[176], c’è l’allusione al ritratto che Tiziano ha fatto alla regina Cornaro. Ritratto enigmatico, pieno di fascino, attraversato dal mistero del dolore e della consapevolezza di una missione da compiere nonostante tutto. Se ho raccontato (sarebbe più esatto dire, se ho reinventato) gli ultimi giorni di Caterina, l’idea mi è venuta proprio dopo aver visto quel ritratto.
- Sia ne Il delitto della contessa Onigo[177] che in Gli ospiti notturni[178] compare la stessa figura di maestro chiamata nel primo romanzo col nome di Bresolin, e nel terzo col nome di Piovesan.
Ne Gli ospiti notturni è presente l’abbozzo, a livello di racconto, di quello che poi sarebbe diventato il personaggio del maestro Bresolin ne Il delitto della contessa Onigo. Ti faccio presente che Bresolin è il nome reale, quello consegnato alle cronache dal processo. Attorno a quel racconto, a quel bozzetto, si è ingrossato un romanzo.
- E’ stata tua la scelta, nel primo romanzo, di chiudere la narrazione con una postilla che informa il lettore della realtà dei fatti narrati?
Sì, anche se nelle mie intenzioni avrebbe dovuto essere molto più ampia (l’editore infatti ha voluto che la prosciugassi molto. Ha avuto ragione, naturalmente: le ultime parole di un romanzo devono essere una sorta di scultura, di dialogo scandito dalla brevità, quasi a lasciare una porta aperta ad una possibile continuazione). La postilla ha una funzione narratologica precisa cioè quella di dare delle spiegazioni dicendo, se mai ce n’era bisogno, che nel libro si parla di un processo vero, di cui esistono atti processuali e che ha avuto una notevole risonanza sociale. E una postilla chiude anche il mio secondo romanzo. Trovo che sia un modo giusto per congedarsi dal lettore, fornendogli magari anche qualche coordinata spaziotemporale che il romanzo non ha voluto dare.
- L’acqua ritorna spesso nei tuoi romanzi, ad esprimere, a condensare in se stessa un concetto… mi son chiesta se le attribuisci un particolare valore simbolico.
Sì, è vero, c’è sempre l’acqua. L’acqua fecondatrice, primigenia. Quando vado in montagna, mi piace fermare il camper ad Auronzo, sulle rive dell’Ansiei; qui la mia passeggiata preferita è discendere il corso del fiume fino al lago, girarci attorno e poi iniziare il ritorno. Mi piacerebbe guardare il mondo dalla parte dell’acqua, supino, con tutto il cielo e il mondo sopra.
Un’immagine che mi porto dietro è, inoltre, quella dei fiumi norvegesi: brevissimi, ma irruenti e ricchi di acque, terribilmente selvaggi, con mille macigni. Rivedo affluenti sfociare nel fiume principale con un ribollire di acque, per correre insieme verso il grande tutto (o il grande nulla) che è l’oceano: ci sento una forza originaria, primigenia, aurorale. Naturalmente il fiume è metafora della vita dell’uomo.
Il fiume è anche forza. Ricordi il maestro Bresolin che raccontava ai suoi alunni di Marco Polo? Non lo cito a caso. Noi siamo stati, dopo le avventure e le esplorazioni di Marco Polo, l’altro capolinea della via della seta. Un capolinea era in Cina, nella provincia dello Xian, l’altro capolinea era Venezia, appunto. Ma Venezia non poteva lavorare la seta perché le sue acque sono quasi immobili, prive di forza motrice: per questo mandava la seta nel trevigiano. Nel territorio di Treviso era possibile la lavorazione per la presenza di dislivelli e di cascate. Mulini ad acqua qui ce ne sono stati e ce ne sono ancora moltissimi.
E allora mi è sempre piaciuto condensare la mia realtà trevigiana nell’immagine di acque in movimento, di fiumi operosi e ben inseriti nel progetto dell’uomo. Anche se qualche volta si ribellano, straripano, invadono, ricordano e ammoniscono che è la natura la padrona ultima. Pensa al mio poemetto Alla ricerca dell’airone rosso:[179] anche qui parlo della discesa lungo un fiume, della ricerca della foce. In fondo uso, nella mia scrittura, simboli eterni ed inesauribili, perennemente fertili: l’acqua, il fiume, il bosco…
- Le vicende da te narrate, sono tratte da una cultura che ormai non esiste più, come non esiste più il paesaggio veneto da te descritto, o meglio, c’è ma completamente snaturato. Che senso ha per te questo recupero?
Ne parlo senza nessuna nostalgia, assolutamente fuori di una logica di riproposizione di quel mondo. Ci tengo molto a sottolinearlo: ne parlo all’interno di una logica molto diversa. Mi guardo attorno e vedo un mondo appiattito e banalizzato, soprattutto dal frastuono massmediatico; vedo un abbassarsi pericolosissimo del gusto; la gente non sa più apprezzare ciò che è bello e ciò che non lo è, distinguere un valore autentico da un disvalore. Oggi si esiste perché si è in televisione, altra visibilità non è contemplata nella liturgia della convivenza. Il messaggio che intendo comunicare è che questo di cui scrivo e parlo è il mondo da cui noi veniamo, e questa è la cultura che abbiamo il dovere di conoscere perché di essa siamo figli. Se interrompiamo il flusso ombelicale siamo perduti e la mia paura è che la coscienza della frattura arrivi quando è troppo tardi, quando il taglio ormai è diventato irreversibile.
Per fare un esempio pratico (e ho in mente le storie di emigrazione che narro ne Il bosco veneziano)[180]: il Veneto è oggi terra di immigrazione. Le nostre industrie hanno bisogno degli immigrati per poter continuare la produzione. E noi come li trattiamo? È terribile, a pensarci. E allora io desidero dire: se adesso noi offriamo lavoro è perché abbiamo costruito il benessere in una stagione in cui gli extracomunitari eravamo noi. Trattati in ogni parte del mondo come noi oggi trattiamo gli extracomunitari. Emarginati, guardati con alterigia, perseguitati, linciati, mandati sotto processo con accuse false come è successo a Sacco e Vanzetti. Dalla cultura statunitense non eravamo nemmeno considerati bianchi perché per essere tali bisognava essere W.A.S.P. (White, Anglo-Saxon e Protestant). Noi non eravamo bianchi, non eravamo anglosassoni e non eravamo protestanti. Dago, ci chiamavano, cioè uomini di coltello, con allusione alla nostra litigiosità da selvaggi. E in Brasile, quando per legge i cafeteros hanno dovuto liberare gli schiavi di colore, per rimpiazzarli hanno chiamato noi nelle loro piantagioni. Non per fare del razzismo alla rovescia, ma faremo bene a ricordarci di essere stati schiavi, sfruttati al limite della sopportazione umana e anche oltre. Impossibile non essere inquieti rispetto a questi problemi. Così cerco di esemplificarli, di raccontarli. Dunque ripeto e sottolineo che non è un’operazione della nostalgia, del rimpianto del passato.
La storia che ho narrato ne Il delitto della contessa Onigo[181] è una storia tragica da questo punto di vista, perché di fronte a gente che dice “ Nel passato c’erano più valori” rimpiangendo una misura morale che non è mai esistita, io rispondo che nel passato l’unico valore, se così si può dire, era cercare di non morire di fame. Non continuiamo a dire che nel passato c’era più solidarietà, più attenzione ai valori umani: adesso almeno viviamo decentemente tutti e nessuno muore più di fame qui da noi. E allora è utile ricordare che cento anni fa noi eravamo quelli che morivano di fame sotto il tallone di gente come la Onigo. Se le cose sono girate e abbiamo acquisito benessere, forse non è l’atteggiamento giusto quello di arroccarsi a difendere i privilegi. Per questo cerco di dare alla mia scrittura un registro antiretorico, antienfatico, il più possibile storicizzando. E dico sommessamente: ripercorriamo il senso della nostra storia, perché solo così è possibile uscire dalla banalità, dall’appiattimento e dalla volgarità che ci viene imposta dal rombare dei mass media.
- Quindi il tuo è un voler “ripartire da quei valori”?
Ripartire da quei valori e soprattutto riproporli ai giovani che ne hanno veramente bisogno. I giovani oggi sono disancorati, sradicati e, di valori, hanno una fame autentica. È, in generale, la lezione più vera che ho appreso dalla mia esperienza di insegnante e di educatore. I giovani hanno voglia di verità, di autenticità, di punti di riferimento. E so, oggi con certezza assoluta, che il valore di riferimento base, può venire dalla cultura, dallo studio dei classici, dalla lezione di spirito analitico e critico che da essi discende. Esiste, nell’animo dei giovani, uno spazio enorme di libertà da occupare. Non accorgersene, ignorarlo, o peggio, cercare di riempirlo di banalità risponde ad una strategia delittuosa tragicamente pianificata a tavolino da chi teme la coscienza critica delle nuove generazioni.
- Le tue storie contengono una geografia precisa e ricorrente che sembra voler dare attendibilità e fisicità alla narrazione. In che senso va interpretata la tua “mappazione geografica”? Che cosa c’è “dietro il paesaggio” dei tuoi racconti?
C’è questa terra che Comisso ha raccontato in un certo modo e di fatto non ha raccontato perché nel suo modo di vedere è una terra mitica. E anche Parise l’ha raccontato in tutt’altro modo. Io in questa geografia mi riconosco, è una geografia di fatica, di terra lavorata e modificata attraverso lo sfruttamento delle risorse di un popolo. Il Veneto è stato definito una sorta di patria artificiale, nel senso che, durante i secoli e i millenni, questa terra ha subito un processo di antropizzazione che ha modelli ed intensità propri e peculiari. Ecco, la storia di questa regione si può scrivere raccontando il rapporto tra elemento umano e territorio, il suo evolversi e modificarsi. È un modo mai praticato dalla narrativa veneta. Dicevo che Comisso racconta in chiave mitica: è il grande, fascinoso viaggiatore che vede questa terra molto spesso da fuori, da distante.
Io cerco di vederla da dentro. Per esempio del Montello mi ha affascinato il fatto che è una sorta di continente concluso, ha la sua vita, la sua autonomia mentale, ha i suoi abitanti che si chiamano “Montelliani”. Li riconosci dal loro esser ruspi, orgogliosi della loro montellianità, molto uniti tra di loro.
- Tra l’altro il Montello racchiude in sé un simbolo molto forte cioè quello degli ossari…
Questa degli ossari è l’idea portante della mia ultima pièce teatrale Mato de guera[182] che è ambientato alla metà degli anni Trenta. Proprio nel 1935 accade una cosa che provoca la perdita dell’equilibrio del protagonista, Ugo Vardanega. In quest’anno si cominciano a costruire gli ossari: nel ‘35, non nell’immediato dopoguerra, ma vent’anni dopo la conclusione del conflitto! Vardanega comprende, nella sua lucida follia, che la volontà politica non è certo quella di dare degna sepoltura ai militi morti eroicamente per un ideale che anche lui ha condiviso, ma per sostenere la propaganda interventista orchestrata dal fascimo che, di guerra, ne sta progettando un’altra. Ugo, che già è uscito scosso e con una situazione psichica in precario equilibrio dalla prima guerra mondiale, va definitivamente in crisi. La sua diventa una follia irreversibile nel momento in cui si rende conto con chiarezza che gli ossari (assieme a tutta l’enfasi connessa alla loro monumentalità) sono l’ultima strumentalizzazione, l’estrema speculazione consumata sulla pelle dei suoi commilitoni morti in trincea. A questo punto dice “non ci sto” e diventa folle, ma di una follia a suo modo lucida perché si rende conto, pirandellianamente, che essendo pazzo può urlare verità che altrimenti non potrebbe proclamare impunemente.
- E’ una finta pazzia la sua?
No, è pazzia autentica, ma, come ho detto, lucida. E lui gioca. Con gioia, con rabbia, dolore, percorrendo ogni possibile gamma sentimentale, passando da un estremo umorale all’altro. Si scava dentro, fa riemergere memoria, soprattutto urla la sua voglia di identità. Non è un caso che cominci citando una lista di compagni caduti e lasci la scena, alla fine, continuando quella lista.
- Ti piace Zanzotto?
Molto, soprattutto quando parla in dialetto. Anzi, meglio: quando esplora il territorio in cui le due lingue si toccano, si confrontano, si provocano Il suo capolavoro assoluto è per me il Galateo in bosco: offre proprio il senso del mistero e della storia, della profondità della storia, voglio dire. Nel Galateo tempo e spazio, memoria e analisi si legano con valenze inattese e talora stupefacenti. E per tornare al dialetto, penso a Mistieròi, che anche nel titolo lega, non solo per assonanza fonica, mistero e fatica quotidiana. Quello che mi impressiona di Zanzotto, e ne fa un grandissimo inarrivabile, è che le sue invenzioni linguistiche siano inesauribili, una sorta di sorgente perenne.
- Come mai il fantastico occupa una posizione marginale rispetto al resto della tua opera?
Non so, potrei iniziare dicendoti che io ho bisogno di recarmi sui posti che descrivo a vederli.
- Vuoi dirmi che tutti i posti che hai descritto sono reali?
Sì, e anche lì dove sembra che io faccia un’operazione di fantasia, in realtà descrivo un luogo fisico, un luogo che ho visto.
- Ad esempio nella silloge Crepuscoli,[183] il racconto Vito della poiana nelle prime righe offre al lettore indicazioni toponomastiche dettagliate.
I nomi dei paesi sono reali, e lavoro con la carta geografica per ricordarmi i luoghi. In Vito della poiana il protagonista vede il mondo, come dicevo prima, dalla parte dell’acqua. Il suo mestiere, impastato di fatica e avventura, è quello dello zattiere e quindi le gole, i canyon, le acque che cadono dalle cascate laterali, le curve del fiume, le strette e gli slarghi li vede dalla prospettiva di chi trascorre la sua vita sul filo dell’acqua. A volte mi attardo per scoprire un dettaglio minimo, che so, un albero che può mettere radici nel luogo che sto descrivendo, e il colore delle foglie in una certa stagione.
Poi le persone che coinvolgo in questa mia ricerca… Ti ricordi, nel mio secondo romanzo, il cacciatore di Bugres? E’ un siciliano che reca nella sua memoria il peso dell’eccidio di Bronte in Sicilia. In questo caso, per descrivere la sua condizione, avevo bisogno di una parola siciliana forte (almeno tre sillabe e accentata sulla penultima), utile ad indicare una precisa categoria di persone: il corrispondente in siciliano di mezzadro o pisnente. Ho chiesto a tanti, talvolta con petulanza, ma alla fine ho trovato quello che cercavo: jurnataro, cioè “colui che va a giornata”. Questa cura per il particolare minuto, credo conferisca una densità particolare alla mia prosa, alla sua pastosità.
- Ritornando al “vedere il mondo dalla parte dell’acqua”: allora hai provato questo tipo di visione…
No. Però l’ho sempre cercata. Se posso risponderti con una battuta: ho fatto rafting, e anche discesa con il bob…
- Da quali fonti derivano le tradizioni, i riti, le leggende, che popolano il mondo dei tuoi personaggi?
Posso dire di disporre di un grosso fondo, che mi sono creato nel tempo. Ogni volta che sento una storia (e le occasioni sono innumerevoli, basta avere l’atteggiamento giusto di indagine, curiosità e ascolto) me la faccio raccontare per bene, la archivio, talvolta scopro che viene raccontata altrove con poche o tante varianti. Però invento anche molto (magari sulla base di un dato reale). Ad esempio in Vito della poiana la vicenda del mio zattiere si innesta sulla vicenda secolare di questo particolarissimo tipo di marinai di fiume, ma la sua avventura esistenziale è unicamente prodotto di invenzione. Se vuoi, anche la proiezione di un bisogno: quello di raccontare e anche quello di avere qualcuno che ti protegga, con occhi e sensibilità diversi dai tuoi.
- Cosa significa la parola “torototela” che oltre che essere il titolo di un tuo racconto presente in Crepuscoli,[184] è anche una figura che ritorna nei tuoi romanzi?
Non è una parola trevigiana, è una parola che viene dal padovano o forse dal vicentino. Il suo significato principale è quello di banderuola, vale a dire il segnavento che scorgiamo su tanti camini. L’etimo di “torototela” è chiaramente da collegarsi ad un’onomatopea che riproduce il suono della banderuola stessa, che cigola, urla, crocchia sul suo perno ai colpi di tramontana o maestrale. Dal concetto di banderuola, di ventarola, viene quello di “colui che segue la direzione del vento, che vive alla ventura”. E naturalmente produce suoni, magari monotoni, legati ad uno strumento musicale capace di dare poche note, ad esempio una guzle con le corde fatte di crini di cavallo intrecciati. È il cantastorie, insomma. Un nome bello, magico ed evocativo. Su questa figura ha raccontato molto lo scrittore vicentino Dino Coltro.
- In riferimento alla questione se esista o meno una linea veneta nella letteratura italiana del ‘900, lo scrittore Armando Balduino afferma che “non esiste un Veneto culturale unitario. Esistono scrittori che vanno alla ricerca di un loro Veneto perduto. Esistono piccole patrie”.[185] Ti riconosci in questa affermazione?
Sì, mi riconosco in questa affermazione, ma non vado alla ricerca di un Veneto unitario, perduto, che secondo me non esiste. Lo dico da trevigiano: Treviso rappresenta un unicum nella storia del Veneto. Dopo la battaglia di Agnadello del 1508, quando Venezia capì che non avrebbe più potuto espandersi nella terraferma, provò a costruire le opere di pace e conservazione, come disse Battista Nani, sulle terre che già possedeva. E fu proprio su Treviso che sperimentò sul territorio le tecniche di penetrazione, di urbanizzazione, di coltivazione che poi avrebbe provato con minor successo su Padova, Verona, Vicenza e su Bergamo. Ancor oggi i documenti più visibili e clamorosi sono le ville, la cui fioritura ha fatto parlare addirittura di una civiltà peculiare, di una cultura.
Nel territorio trevigiano si sono poi stratificate e parcellizzate tante e diverse piccole patrie. Collina, montagna, zone precollinari e premontane, pianura, fiumi di resorgiva e torrenti impetuosi: questa terra ha storie differenziate, ha racconti diversi e i pisnenti del Montello sono senz’altro diversi dai pisnenti di pianura. L’epopea montelliana da sola basta per raccontarlo. Nel 1471, il doge Nicolò Tron bandisce il Montello e solo nel 1892 i Montelliani vi possono far ritorno.
Quindi io mi sento davvero uno scrittore di piccola patria. Ma serve chiarire: ciò non può voler dire che io sia uno scrittore localistico perché il Montello vuole e cerca di essere metafora universale delle patrie perdute. Ti ricordo che ho raccontato la vicenda dei Barro nei giorni fervidi e coinvolgenti delle patrie perdute nei Balcani: io parlavo del Montello e pensavo al Kosovo o all’Albania, allo sradicamento di questi popoli.
E ne Il bosco veneziano,[186] le patrie perdute sono tante: oltre al Montello, la Sicilia del cacciatore di Bugres, il Cadore di Sereno Rudatis, lo stesso mato[187], di cui vengono espropriati gli Indios.
- Ed è una patria perduta anche quella del protagonista di La strada sotto il mare, uno dei racconti de Gli ospiti notturni…
Sì, è il dramma di Antonino Cannavò, che dopo la alienante esperienza di trincea sul Carso, non ha il coraggio di tornare nella sua Sicilia perché avverte che la guerra è una sorta di profanazione, di sacrilegio. E teme che perfino la sua terra lontana abbia subito una devastazione nella sua sacralità, nei suoi riti che sono il lavoro e la vita quotidiana. Sarà così acuto, questo senso di vuoto, che la soluzione non potrà che essere la più tragica.
Tornando per un attimo alla vicenda (narrata ne Il bosco veneziano)[188] dei Barro emigrati nel Rio Grande do Sul, a indicare come la vita sia una ruota, serve riflettere sulla storia di questi Montelliani: buttati fuori dalla loro collina, privati della loro sussistenza (che è la realtà arborea del Montello), costretti all’esilio, attraversano l’oceano e vanno a portar via a loro volta la terra, gli alberi e il bosco agli indigeni. Colui che subisce ingiustizia, accetta la tragica legge della sopravvivenza e diventa a sua volta autore, promotore di ingiustizia. Ecco come un racconto da piccola patria cerca di caricarsi di significati più ampi.
- Quando ne Il bosco veneziano[189] hai dovuto parlare dell’emigrazione dei Montelliani in Brasile, che fonti hai utilizzato per documentarti?
Quello sull’emigrazione è un argomento su cui si discute molto e si scrive tantissimo. Ho consultato libri sull’emigrazione (la bibliografia è, al proposito, sterminata), atti di convegni, lettere di migranti che forniscono le testimonianze più dirette e vive. Ho letto con grande attenzione Sull’Oceano di Edmondo de Amicis (che prima ho trattato male come autore del libro Cuore, ma che era anche un ottimo giornalista, autore di straordinari reportage). In Sull’Oceano De Amicis racconta una traversata oceanica che lui vive e osserva dal ponte di prima classe. Un’opera che mi è stata utile per conoscere come funzionava la vita a bordo, anche in particolari minimi. Però ho dovuto ribaltare le prospettive e raccontare la stessa vita di bordo dal basso, dai ponti di terza classe.
- Le figure di Enea ed Ulisse ricorrono con una certa frequenza nei tuoi romanzi.
Enea rappresenta un tipo nella tradizione culturale occidentale: è il pius, il portatore, il depositario di pietas nelle sue tre tradizionali accezioni (erga parentes, erga deos, erga patriam). Ma la pietas non genera, per sua stessa natura, certezze, sicurezze. Non scende a patti, non accetta compromessi e dunque lacera; tuttavia (o forse proprio per questo) costringe l’eroe alle oscillazioni, al dubbio. Enea è pieno di timori, di ripensamenti. Però io amo pensare che sia anche un po’ cialtrone e che qualche volta il senso del dovere indotto dalla pietas, sia una sorta di alibi. Quando lascia Didone, ad esempio…
Quanto ad Ulisse, il suo mito è immanente a tutta la cultura occidentale. Penso, tanto per non abusare delle solite citazioni, a come ha segnato la lirica italiana del Novecento. A lui e all’angoscia di viaggiare cercando il porto della tranquillità ha dedicato una bellissima (e nota) lirica Saba, ma anche Pavese ne ha fatto il protagonista di una lirica altrettanto suggestiva, Lavorare stanca.
L’Ulisse che ha destato in me maggiori echi è però il vecchio (scanzonato e disperato ad un tempo) navigatore dei Canti conviviali. È Il sonno di Odisseo: qui Pascoli (il neoclassicista più intriso di romanticismo della letteratura italiana) immagina un Ulisse vecchio, come già aveva fatto Dante. Però Dante recepisce la figura di Ulisse non da Omero (che non legge), ma da Orazio, Ovidio e un po’ anche da Virgilio. L’Odisseo dantesco è già vecchio, incanutito, ma non ha mai voluto tornare ad Itaca. Vive nelle case fatate e nell’alcova di Circe, fino al giorno in cui con i pochi compagni che gli sono rimasti, decide di andare a vedere cosa ci sia oltre le colonne piantate da Ercole. In Dante l’elemento dottrinario è sempre prevalente: questo è il folle volo, non il suo peccato, come bene dice il Fubini, che parla, per Ulisse, di una umanità vinta ma non umiliata. E comunque l’Ulisse dantesco è molto più intrigante di quanto si possa pensare, perché su queste pagine dantesche pesa un fatto di cronaca che ebbe enorme rilievo: il tentativo compiuto nel 1291 (dunque esattamente duecento anni prima di Colombo) dai fratelli genovesi Ugolino e Guido Vivaldi di raggiungere le Indie viaggiando verso ovest invece che verso est. Il loro fallimento proietta anche su Dante e sulla sua scrittura un’aura di mistero e paura per tutto ciò che si trovava oltre le Colonne.
Pascoli dimentica la cronaca, ignora la storia e autenticamente ricrea il mito di Odisseo. Lo coglie nel momento in cui tornato ad Itaca e vecchio, l’inquietudine mai sopita gli riaccende la smania di viaggiare. Compie a ritroso lo stesso percorso che aveva fatto in quei dieci anni in cui era andato vagabondo dopo la caduta di Troia. Quando giunge all’isola di Calipso, scopre che la dea è ancora bellissima, giovane, desiderosa di amplessi mentre lui è vecchio, stanco, uomo ormai declinato. Calipso nemmeno lo riconosce, nemmeno è sfiorata dal pensiero che quel vecchio sia il giovane eroe da lei un tempo tanto amato.
Un tempo è irreversibilmente trascorso. E il racconto pascoliano, diventa immagine di due dimensioni temporali diverse: la dimensione degli dei, che lucrezianamente vivono negli intermundia e godono del privilegio (ma davvero è tale?) di bloccare per l’eternità la condizione di giovinezza. Dall’altra parte c’è l’uomo col suo destino di fragilità, di caducità, soggetto allo scorrere del tempo. È la stessa categoria attiva, ad esempio, nel leopardiano Canto notturno, il cui protagonista, il pastore errante, è un miserabile Ulisse: il tempo immutabile ed eterno della luna e il tempo minimo del pastore che la interroga senza speranza. L’Ulisse di Pascoli è un uomo sconfitto: il tempo gli sfugge tra le mani come fosse sabbia. Quando ne Il delitto della contessa Onigo[190] il maestro Bresolin propone la figura di Ulisse ai suoi alunni, scrivo che il maestro aveva due modi diversi di raccontarlo, a seconda del suo umore: certe volte sembrava fossero gli ostacoli del mondo intero a impedire all’eroe di tornare nella sua Itaca, altre volte sembrava che fosse proprio lui a non voler tornare. Ecco, è questa duplicità, questa ambivalenza di Ulisse, che mi ha sempre affascinato e che ritorna sempre nei miei romanzi.
- Anche l’Ulisse di Dante però …
Sì, l’Ulisse di Dante muore con negli occhi l’immagine della sua ultima conquista. “Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguire virtute e canoscenza”, aveva detto ai suoi. L’Ulisse di Dante conosce e poi muore, ha la rivelazione. Forse davvero voleva morire così.
-Cosa è rimasto fuori da questa intervista?
Non saprei. Ecco: gli scrittori stranieri che più pratico e amo. Sono i francesi dell’Ottocento: Hugo, Zola, Flaubert, i Goncourt e, forse il più grande di tutti, Balzac. Con una predilezione assoluta per Henry Beyle, il grande Stendhal cioè.
BIBLIOGRAFIA
Opere di Gian Domenico Mazzocato
Romanzi e racconti
G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, Treviso, Santi Quaranta, 1997, 19984.
G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, Treviso, Santi Quaranta, 1999, 20002.
G. D. Mazzocato, La Merica, Treviso, La Vita del Popolo, 2000.
Alte Terre, a cura di G. D. Mazzocato, G. Busnardo, A. Piovesan, Treviso, Tintoretto, 2000.
G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, Treviso, Santi Quaranta, 2001.
Poesie
G. D. Mazzocato, Il fuoco vecchio, Treviso, Marton, 1976.
G. D. Mazzocato, Straniarsi è qui, Forlì, Forum, 1980.
G. D. Mazzocato, Diapason con variazioni, Treviso, Marton, 1981.
G. D. Mazzocato, Immagini del regno, Treviso, Canova, 1985.
Curatele e traduzioni
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[1] Cfr. intervista in appendice.
[2] Da una lettera inedita speditami da Mazzocato in data 3 luglio 2002.
[3] Cfr. intervista in appendice.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] G. D. Mazzocato, Il fuoco vecchio, Treviso, Marton, 1976.
[7] G. D. Mazzocato, Straniarsi è qui, Forlì, Forum, 1980.
[8] G. D. Mazzocato, Diapason con variazioni, Treviso, Marton, 1981.
[9] G. D. Mazzocato, Immagini del regno, Treviso, Canova, 1985.
[10] Cfr. intervista in appendice.
[11] Treviso, la prima volta, a cura di G. D. Mazzocato, A. Invernici, Treviso, Silea, Edimedia libri, 1991.
[12] Cfr. intervista in appendice.
[13] Tacito, Storie, a cura di G. D. Mazzocato, Roma, Newton Compton, 1995.
[14] Tacito, La Germania, Vita di Agricola, Dialogo degli Oratori, a cura di G. D. Mazzocato, Roma, Newton Compton, 1995.
[15] Tito Livio, Storia di Roma dalla Fondazione, a cura di G. D. Mazzocato, Vol. VI, Roma, Newton Compton, 1997.
[16] Cfr. intervista in appendice.
[17] Ivi.
[18] Ivi.
[19] G. D. Mazzocato, La Merica, Treviso, La Vita del Popolo, 2000.
[20] Ivi.
[21] Cfr. intervista in appendice.
[22] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, Treviso, Santi Quaranta, 1997, 19984.
[23] Ivi.
[24] Cfr. intervista in appendice.
[25] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[26] Cfr. intervista in appendice.
[27] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, Treviso, Santi Quaranta, 1999, 2000.2
[28] Cfr. intervista in appendice.
[29] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[30] G. Giolo, Le storie degli ultimi, in «La Domenica di Vicenza», 27 maggio 2000.
[31] Cfr. intervista in appendice.
[32] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[33] Mato, foresta, bosco. Cfr. A. V. Stawinski, (versione italiana di U. Bernardi, A. Toffoli), Dicionario Dizionario Veneto Portugues Italiano, Treviso, 1995.
[34] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[35] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[36] Cfr. intervista in appendice.
[37] G. D. Mazzocato, La Merica, Treviso, La Vita del Popolo, 2000.
[38] AlteTerre, a cura di G. D. Mazzocato, G. Busnardo, A. Piovesan, Treviso, Tintoretto, 2000.
[39] Opera inedita.
[40] Cfr. intervista in appendice.
[41] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, Treviso, Santi Quaranta, 2001.
[42] Cfr. intervista in appendice.
[43] Opera inedita.
[44] A. Vendrame, La guerra nei ricordi di un “mato”, in «Il Gazzettino», 14 febbraio 2002.
[45] Opera inedita.
[46] Da una lettera inedita speditami da Mazzocato in data 3 luglio 2002.
[47] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 72.
[48] Da una lettera inedita speditami da Mazzocato in data 3 Luglio 2002.
[49] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[50] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[51] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[52] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p.157.
[53] Ibidem.
[54] Ivi, p. 53.
[55] Ivi, p. 13.
[56] Ivi, p. 60.
[57] Ivi, p. 57.
[58] Ivi, p. 60.
[59] Ivi, p. 144.
[60] Ivi, p. 52.
[61] Ivi, p. 61.
[62] Ivi, p. 61.
[63] Ivi, p. 78.
[64] Ivi, p. 157.
[65] Ivi, p. 66.
[66] Ivi, p. 71-72.
[67] Ivi, p. 158.
[68] Ivi, p.45.
[69] G. D. Mazzocato, Pellagra, emblema di un popolo, in «Ca’Foncello», XLI, 2002, n. 1,
pp. 4 – 7.
[70] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 159-160.
[71] Ivi, p. 158-160.
[72] G. D. Mazzocato, Pellagra, emblema di un popolo, in «Ca’Foncello», XLI, 2002, n. 1,
pp. 4 – 7.
[73] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 30.
[74] G. Granziero, Uno scontro tra nobiltà e servi della gleba, in «Il Gazzettino», 24 dicembre 1997.
[75] Ivi, p. 18.
[76] Ivi, p. 24.
[77] G. D. Mazzocato, Pellagra, emblema di un popolo, art. cit., pp. 4 – 7.
[78] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 98.
[79] G. Facchin, Il delitto di Teodolinda, in «La vita del popolo», 30 novembre 1997.
[80] G. D. Mazzocato, Pellagra, emblema di un popolo, art. cit., pp. 4 – 7.
[81] G. Granziero, Uno scontro tra nobiltà e servi della gleba, art. cit.
[82] Dichiarazione proveniente da una lettera inedita inviata a Mazzocato dallo scrittore Fulvio Tomizza, da Materada di Umago in data 3 luglio 1998.
[83] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 66.
[84] G. Galetto, Storia di un delitto d’inizio secolo animata da “pietas”, in «Arena di Verona», 20 marzo, 1998, poi con la stessa data anche in «Giornale di Brescia», «Giornale di Vicenza».
[85] C. Toscani, Un omicidio feudale per l’esordio di Mazzocato, in «Avvenire», 13 marzo 1998.
[86] G. Galetto, Storia di un delitto d’inizio secolo animata da “pietas”, art. cit.
[87] Ibidem.
[88] Da una lettera inedita speditami da Mazzocato, in data 29 luglio 2002.
[89] Dalla nota dell’editore Ferruccio Mazzariol, nel risvolto di copertina de Il delitto della contessa Onigo, cit.
[90] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 160.
[91] Ivi, p. 23.
[92] Ivi, p.150.
[93] Ivi, p. 24.
[94] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[95] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[96] c. toscani, Un omicidio feudale per l’esordio di Mazzocato, art. cit.
[97] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 102.
[98] Ivi, p. 79.
[99] Ivi, p. 119.
[100] Ibidem.
[101] Ivi, p. 118.
[102] c. toscani, Un omicidio feudale per l’esordio di Mazzocato, art. cit.
[103] G. Galetto, Storia di un delitto d’inizio secolo animata da “pietas”, art. cit.
[104] Dalla nota dell’editore Ferruccio Mazzariol nel risvolto di copertina de Il delitto della contessa Onigo, cit.
[105] G. Granziero, Uno scontro tra nobiltà e servi della gleba, art. cit.
[106] N. Menniti Ippolito, E Treviso applaudì il contadino omicida, in «La Tribuna di Treviso», 19 marzo 1998, poi con la stessa data anche in «La Nuova Venezia», «Il Mattino di Padova».
[107] G. Galetto, Storia di un delitto d’inizio secolo animata da “pietas”, art. cit.
[108] M.P. Bonanate, Il piatto di polenta finito in tribunale, in «Famiglia Cristiana», 11 marzo 1998.
[109] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, Treviso, Santi Quaranta, 1999, 2000.2
[110] M. Porzia, L’ottocentesca odissea di una famiglia veneta, in «L’Osservatore Romano»,
19 gennaio 2000.
Il primo capitolo del romanzo è a sé stante, in quanto riassume brevemente i temi narrati e funge da ideale raccordo con quello finale.
[111] Mato, foresta, bosco. Cfr. A. V. Stawinski, (versione italiana di U. Bernardi, A. Toffoli), Dicionario Dizionario Veneto Portugues Italiano, Treviso, 1995.
[112] Da una lettera inedita speditami da Mazzocato in data 3 ottobre, dove mi si spiega che la parola Bugres significa selvaggi. La fonte è indicata in I Veneti in Brasile, a cura di M. Sabbatini , E. Franzina, Vicenza, Edizioni dell’Accademia Olimpica, 1977.
[113] M. Bonanate, I sogni e le speranze svaniscono nel bosco, in «Famiglia Cristiana», 20 febbraio 2000.
[114] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[115] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit. pp. 170-171.
[116] Ivi, p. 73.
[117] Ivi, p. 76.
[118] Ivi, p. 77.
[119] Ivi, p. 35.
[120] Ivi, p. 70.
[121] Ivi, p. 35.
[122] Ivi, p. 36.
[123] Ivi, p. 37.
[124] Ivi, p. 80.
[125] Ivi, p. 82.
[126] Ivi, p. 82.
[127] Ivi, p. 88.
[128] Ivi, p. 110.
[129] Ivi, p. 112.
[130] Ivi, p. 117.
[131] Ivi, p. 119.
[132] Ivi, p. 136.
[133] Ivi, p. 137.
[134] Ivi, p. 125.
[135] Ivi, p. 125.
[136] Ivi, p. 129.
[137] Ivi, p. 141.
[138] La scelta di denominare Savoia e Garibaldi, le due imbarcazioni utilizzate da Toni per compiere il viaggio di andata e quello di ritorno, offre lo spunto per precisare la particolare attenzione che lo scrittore riserva alla cura del dettaglio. Infatti, secondo la testimonianza dello scrittore nella lettera inedita, speditami in data 27 settembre 2002, ne Il bosco veneziano, Savoia e Garibaldi sono da ascrivere al territorio dell’invenzione. La scelta di questi due nomi è funzionale a evocare nel lettore il contrasto tra retorica dell’ufficialità e realtà effettiva, contrasto che risalta quando alla memoria dei Savoia (facitori dell’unità d’Italia) e di Garibaldi (“l’eroe dei due mondi”), si accosta la visione di un’Italia in cui domina la povertà estrema.
[139] Ivi, p. 150.
[140] Ivi, p. 158.
[141] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
34 G. Giolo, Le storie degli ultimi, in «La domenica di Vicenza», 27 maggio 2000.
35 Cfr. intervista in appendice.
36 S. Serena, Con il “Bosco veneziano” storie di miseria nel Montello, in «Il Gazzettino»
2 novembre 1999.
37 S. Serena, Con il “Bosco veneziano” storie di miseria nel Montello, art. cit.
38 G. Granziero, Con gli uomini del Montello, simbolo di libertà, in «Il Gazzettino», 3 dicembre 1999.
39 Cfr. intervista in appendice.
40 G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit., p. 8.
41 Dalla nota dell’editore Ferruccio Mazzariol, nel risvolto di copertina de Il bosco veneziano, cit.
42 G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit., p. 127.
43 G. Giolo, Le storie degli ultimi, art. cit.
44 G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit., p. 15, p. 169.
45 C. Toscani, La nostalgia della terra nella saga veneziana di Mazzocato, in «Avvenire», 30 dicembre 1999.
46 S. Serena, Con il “Bosco veneziano” storie di miseria nel Montello, art. cit.
47 G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit., p. 110, p. 118, p. 152.
48 Ivi, p. 169.
49 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
50 G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[142] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[143] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[144] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[145] G. D. Mazzocato, La Merica, cit.
[146] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit., p.167.
6 Cfr. intervista in appendice.
7 P. Ruo, Storie da leggere accanto al focolare, in «Il Gazzettino», 21 novembre 2001.
8 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit. p. 144.
9 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit., p. 146.
10 Ivi, p. 148.
11 Ivi, p. 156-160.
12 Cfr. intervista in appendice.
13 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
14 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit., p.166.
15 Ivi.
16 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit. p. 121.
17 Cfr. intervista in appendice.
18 G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
19 Ivi.
20 D. Coltro, Leggende e racconti popolari del Veneto, Roma, Newton Compton, 1982, 20021, p. 13.
1 Cfr. E. Bellò, Dizionario del dialetto trevigiano, Treviso, Canova, 1991.
2 G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., pp. 48-50.
3 D. Coltro, Leggende e racconti popolari del Veneto, Roma, Newton Compton, 1982, 20021, pp. 31-32, 41-44.
Filò, veglia serale che i contadini facevano durante i mesi più freddi dell’anno.
4 C. toscani, La nostalgia della terra nella saga veneziana di Mazzocato, in «Avvenire», 30 dicembre 1999.
5 G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit., p. 72.
[147] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[148] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[149] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
9 R. Calimani, La polenta e la mercanzia, Rimini, Maggioli, 1984, p. 6.
[150] Treviso, la prima volta, a cura di G. D. Mazzocato, con introduzione di A. Invernici, Treviso, Silea, Edimedia libri, 1991.
[151] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, Treviso, Santi Quaranta, 2001.
[152] Ivi.
[153] Ivi.
[154] G. D. Mazzocato, La Merica, Treviso, La Vita del Popolo, 2000.
[155] Tito Livio, Storia di Roma dalla Fondazione, a cura di G. D. Mazzocato, Vol. VI, Roma, Newton Compton, 1997.
[156] Tacito, Storie, a cura di G. D. Mazzocato, Roma, Newton Compton, 1995.
[157] Tacito, La Germania, Vita di Agricola, Dialogo degli Oratori, a cura di G. D. Mazzocato, Roma, Newton Compton, 1995.
[158] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[159] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, Treviso, Santi Quaranta, 1997.
[160] Le frasi di Tomizza provengono da una lettera inedita scritta a Mazzocato in data 3 luglio 1998.
[161] Opera inedita.
[162] G. D. Mazzocato, La Merica, cit.
[163] G. D. Mazzocato, Straniarsi è qui, Forlì, Forum, 1980.
[164] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[165] G. D. Mazzocato, La Merica, cit.
[166] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[167] Ivi.
[168] Ivi.
[169] Ivi.
[170] Ivi.
[171] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, Treviso, Santi Quaranta, 1999.
[172] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[173] Ivi.
[174] Ivi.
[175] Ivi, p. 166.
[176] AlteTerre, a cura di G. D. Mazzocato, G. Busnardo, A. Piovesan, Treviso, Tintoretto, 2000.
[177] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[178] G. D. Mazzocato, Gli ospiti notturni, cit.
[179] Opera inedita.
[180] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[181] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.
[182] Opera inedita.
[183] AlteTerre, a cura di G. D. Mazzocato, G. Busnardo, A. Piovesan, cit.
[184] AlteTerre, a cura di G. D. Mazzocato, G. Busnardo, A. Piovesan, cit.
[185] L.Lepri, Vengono rinnegate le radici? No, è il Veneto che va stretto, in «La Nuova Venezia», 20 novembre 1991.
[186] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[187] Mato, foresta, bosco. Cfr. A. V. Stawinski, (versione italiana di U. Bernardi, A. Toffoli), Dicionario Dizionario Veneto Portugues Italiano, Treviso, 1995.
[188] G. D. Mazzocato, Il bosco veneziano, cit.
[189] Ivi.
[190] G. D. Mazzocato, Il delitto della contessa Onigo, cit.