Quante volte –fatti larva-
abbiamo atteso
il nostro simulacro
salire la curva del prato
oltre la verde casa e sberciata
come la foglia del pungitopo.
Forse qui tra gli ultimi ulissidi
il viaggio hai cercato
che recasse conforto
volto all’oriente dei sensi.
Hai narrato fuggevoli biografie
di amici sbiaditi dalle stagioni
oppure –pur rotti alle curve della vita-
schiacciati dalla guerra
per fame o bombe.
Al presente ogni brivido dei sensi
è superstite
quando i frassini e il gelso grande
scuotevano -ritmati ventagli-
il profilo
a creare il vento del tramonto.
Poi il sonno del mattino
a noi rovinava brusco
tra i balocchi e i progetti
del giorno non nato.
«Qui bevevano i cavalli
dolcemente ammusando;
qui buscammo un ladro
però affamato;
desolati dal fulmine
lì schiantammo
il melo che ancora sarebbe
giovane e maschio».
Il gesto anche
lento sussulta sotto le parole.
Pure il rito, padre,
è preghiera.
DALLA PREFAZIONE
Quella di Gian Domenico Mazzocato è una poesia dura, aspra, irta piena di impuntature e di ingorghi, come per una fatica della parola che, del resto, si denuncia fin dal primo testo: una meditazione sulla possibilità della parola, che poi non è altro che la dichiarazione di una fatica estrema a essere pronunciata, sia di fronte alle occasioni della vita, sia come estrinsecazione di una meditatività accanita e tormentata che, appunto, tanto dolora prima di arrivare a farsi linguaggio.
Ecco: tutta la poesia di Mazzocato è proprio questo sforzo di collaborare alla dominazione del mondo, insistendo su un piccolo angolo di esperienza e di vita, su un margine infinitamente secondario del tempo e dello spazio.
C’è, allora, il senso dell’esiguità dell’opera che viene compiuta, ma insieme la coscienza che, tuttavia, tutto intero il proprio dovere è attuato, fino in fondo, come nel rito dei gesti del padre nella sua terra, senza buttare via il grano nello scandalo del seme che muore senza rinascere, com’è nel mondo d’oggi.
Giorgio Bárberi Squarotti