Sono rimasto coinvolto dalla personalità di Tanaquil, energica first lady della Roma monarchica, non a causa del mio interesse per la storia romana e neanche, almeno in primissima istanza, dallo specifico interesse per la letteratura latina. Men che meno è mio desiderio sfruttare in qualche modo la sempre viva attenzione generale per la civiltà e la cultura etrusche, puntualmente ravvivate da grandi mostre che di volta in volta vengono dedicate ai cosiddetti Tirreni. Ricordo che oltre alla straordinaria mostra veneziana di palazzo Grassi, anche Bologna propone una rassegna di documenti di eccezionale valore con i suoi Principi etruschi, presso il museo archeologico.
No, a spingermi è stato un interesse esclusivamente narratologico, maturato sulle pagine liviane, fiorito attorno alla spessa anima simbolica che attraversa il racconto dello storico padovano, stimolato dal confronto con un’altra figura femminile su cui Livio si sofferma con particolare attenzione, Sofonisba (o Sofoniba, come sarebbe più esatto dire).
Ecco, subito, la piccola provocazione del titolo: la vicenda di Sofonisba, figlia di Asdrubale, moglie e vedova di Siface, tanto bella da devastare il cuore del vincitore Masinissa che decide di sposarla pochi istanti dopo averla conosciuta, ha alimentato una straordinaria fortuna letteraria, in ogni epoca e in ogni lingua: tragedie, melodrammi, romanzi cui va aggiunta la splendida e celeberrima novella di Matteo Bandello. Sofonisba resta nella mente del lettore come una donna bella e sensuale, spregiudicata e ambiziosa.
Ma appare sicuramente esangue (e perfino bolso sembra il suo discorsetto, abbracciata alle ginocchia di Masinissa) se messa a confronto con l’intelligenza e la femminilità di Tanaquil, con le parole che sa usare a tempo e luogo. E Tanaquil, incredibilmente, non ha goduto di alcuna fortuna letteraria, se si esclude un discutibile Die Sage von Tanaquil di J. Bachofen.
Ebbene, a rendermi pensoso è stato proprio questo silenzio letterario che appartiene senza dubbio all’area di quel sempre insondabile mistero che è l’evento dell’invenzione e della scrittura. Così mi si staglia davanti, aurorale e freschissimo, l’incedere di questa donna capace della più acuta e fredda analisi politica come della più assoluta dedizione al suo uomo e al progetto che ha concepito su di lui.
Eccola apparire, nel racconto liviano, proprio nel segno del progetto. Donna di nobile discendenza, e dunque abituata al potere e al benessere, si trova a fare i conti con una situazione dinastica ed anche ereditaria intricata e ben poco promettente per il futuro. La sua vicenda familiare si lega a quella di un fuoriuscito greco, Demarato, il quale, esule da Corinto per opera del tiranno Cipselo, era andato a stabilirsi nella città etrusca di Tarquinia dove si era sposato e dove gli erano nati due figli, Lucumone e Arunte. Dunque, nei modi della leggenda, Livio propone un accenno agli influssi della civiltà greca su quella etrusca. Sappiamo effettivamente di una migrazione di artigiani corinzi in Etruria.
Alla morte di Demarato, Lucumone eredita tutta la sostanza del padre perché suo fratello Arunte è morto pochi giorni prima dello stesso Demarato. Tuttavia Arunte ha lasciato una moglie incinta: costei partorirà un figlio postumo, Egerio, che l’etimo popolare connette al verbo egere, cioè alla condizione di bisogno e di povertà.
Dunque Lucumone è ricco, ma rimane pur sempre un mezzosangue, trattato con diffidenza, tenuto lontano dalle sale del potere. Quando, evidentemente per amore, sposa Tanaquil, è proprio la sua sposa a mettergli nel sangue questa smania di emergere. Racconta Livio: Lucumoni contra, omnium heredi bonorum, cum divitiae iam animos facerent, auxit ducta in matrimonium Tanaquil, summo loco nata, et quae haud facile iis in quibus nata erat humiliora sineret ea quo innupsisset. Spernentibus Etruscis Lucumonem exule advena ortum, ferre indignitatem non potuit, oblitaque ingenitae erga patriam caritatis, dummodo virum honoratum videret, consilium migrandi ab Tarquiniis cepit. Roma est ad id potissimum visa .
Tanaquil legge l’insoddisfazione del marito, la coniuga alla sua, è lei a prendere la grande decisione. Roma è davvero la città adatta: un popolo giovane, dove non è difficile diventare nobili purché si abbiano intelligenza e cuore saldo. Se aveva trovato cittadinanza un sabino come Tazio, se Numa era stato chiamato al trono addirittura da Curi, la città rivale e capitale dei Sabini, se lo stesso Anco era di madre sabina, quale traguardo poteva dirsi impossibile per un giovane ricco, ambizioso, forgiato nel crogiolo di una civiltà abituata a gestire il potere e a pensare in grande? Facile persuadet ut cupido honorum et cui Tarquinii materna patria tantum esset.
Ce li immaginiamo discendere da Tarquinia, affrettarsi sul ripido pendio verso valle e andare in direzione del litorale seguendo le acque del lago di Bolsena che la Marta convoglia rapida e irruenta verso il mare. Ce li immaginiamo seguire la costiera fino alle foci del Tevere e poi risalire il corso d’acqua fino al Gianicolo.
Il racconto liviano coglie Tanaquil e Lucumone proprio ai piedi del colle che solo di recente Anco Marzio aveva incluso nel tessuto urbano non inopia loci, sed ne quando ea arx hostium esset.
non certo perché mancasse spazio, ma per evitare che diventasse una roccaforte di qualche popolazione nemica. Che Livio voglia anticiparci quanto minaccioso sia l’avvicinarsi degli Etruschi? La domanda è legittimata dalla particolare solennità che assume l’episodio in qualche modo isolato dal contesto e tutto tramato su allusioni simboliche e mitiche. Un’aquila scende leviter su Lucumone, gli porta via il cappello, si alza nel cielo compiendo ampie evoluzioni e poi plana una seconda volta per riposare il pilleum sul capo all’etrusco. L’aquila sembra quasi compiere un rito, poi sublimis abiit. Tanaquil ne è felice. Lei, esperta di aruspicina, interpreta l’evento come un prodigio del tutto favorevole.
A sottolineare la centralità dell’episodio e della figura di Tanaquil, qui appunto chiamata ad un responso decisivo per il futuro, vale la pena di fermarsi un attimo per ricordare come, anche nei miti meno noti, l’aquila sia sempre associata a situazioni positive.
L’aquila è esecutrice degli ordini di Giove: reca i fulmini con cui il dio dovrà piegare la minaccia dei Giganti e su suo ordine va ogni giorno a sbranare il fegato di Prometeo. Inoltre quando deve rapire Ganimede, Giove stesso prende le fattezze di un’aquila.
Telamone capisce da un aquila inviata da Giove che il figlio che sta per nascergli sarà una grande eroe. Lo chiamerà Aiace, nome che si vuole connettere ad a„etÒj, aquila, appunto. Il babilonese Clini, protetto e prediletto da Apollo viene trasformato in aquila a conforto della punizione ricevuta per un sacrificio proibito. Merope, disperato per la morte della moglie, la ninfa Etemea, viene consolato da Era che lo trasforma in aquila e poi lo assume in cielo, tra gli astri. L’oracolo di Dodona dice a Telmisso e a Galeote, figlio di Apollo, che devono mettersi in viaggio e che capiranno di essere arrivati quando un’aquila sottrarrà loro la carne di un sacrificio. Apollo trasforma in aquila un altro suo prediletto, il mitico re attico Perifante, famoso per la sua giustizia e la sua devozione religiosa
È poi noto l’episodio di Rodopi, in cui si ravvisa l’archetipo della moderna favola di Cenerentola: un aquila ruba alla bellissima fanciulla egizia un sandalo e va a farlo cadere ai piedi del re Psammetico il quale mette sottosopra tutto il regno finché non trova la fanciulla a cui appartiene. Un’aquila salva il bambino destinato a strappare il regno al mitico re babilonese Sevécoro. Quel bambino altri non è che Gilgamesh il grande re babilonese ed eroe nazionale. Valeria Luperca, vergine di Faleria, salva i suoi concittadini dalla peste grazie ad un sacrificio le cui modalità le sono state suggerite da un’aquila. Infine la leggenda la quale vuole che i resti di Teseo siano trovati da Cimone nell’isola di Sciro, proprio dove un’aquila aveva preso a grattare il terreno con i suoi artigli.
Insomma, l’aquila è un segno che potremmo ascrivere all’insieme della conclusione. Naturalmente della conclusione felice, tanto che qualche volta è essa stessa il vero deus ex machina, autentica manifestazione della volontà del dio.
Si capisce bene come Livio, proprio a questo punto consacri Tanaquil come perita, ut vulgo Etrusci, caelestium prodigiorum mulier, fama che le resterà appiccicata nei secoli e nei millenni. Tanaquil spiega al marito: l’uccello è messaggero di Giove, manifestazione della sua volontà. È giunto proprio dalla parte migliore del cielo, gli ha portato via il berretto per avvicinarlo al dio, consacrarlo, restituirglielo divinizzato. Grazie alla moglie è un Lucumone rinfrancato quello che cerca casa in Roma. E in Roma Lucium Tarquinium Priscum edidere nomen. Romanis conspicuum eum novitas divitiaeque faciebant; et ipse fortunam benigno adloquio, comitate invitandi beneficiisque quos poteratsibi conciliando adiuvabat, donec in regiam quoque de eo fama perlata est.
Tanaquil, a questo punto, non si defila ma preferisce eclissarsi nell’ombra. Alla luce di quanto accade in seguito, siamo praticamente obbligati a pensare che sia però lei a dirigere, con consigli e suggerimenti, la carriera politica del marito. Lucumone, diventato Tarquinio, si distingue in ogni campo civile e militare, nel pubblico e nel privato, e alla fine il vecchio re Anco gli conferisce, nel testamento, il ruolo di tutor dei suoi figli.
Quando, dopo 24 anni di regno, Anco muore Tarquinio è abilissimo nel condurre la propria campagna elettorale, elencando ed enfatizzanado i propri meriti e la propria storia personale. Curiosamente Livio annota: isque primus et petisse ambitiose regnum et orationem dicitur habuisse ad conciliandos plebis animos compositam.
Io non riesco a non pensare Tanaquil, futura first lady, perennemente dietro le sue spalle, pronta ad imbeccarlo con l’argomento giusto, prodiga di sorrisi, tranquillizzante nei riguardi del suo uomo e anche nei riguardi dei Romani che devono pur sempre fare i conti con l’idea di scegliere un etrusco come re.
Tarquinio è re, ed è re di successo. Allarga la base del suo potere facendo entrare in Curia cento nuovi senatori. Le armate romane vincono ovunque e Roma, sotto di lui, si sprovincializza: corse di cavalli, pugilato, giochi stabili e celebrati ogni anno. Circo Massimo e Foro acquisiscono quella fisionomia brulicante di umanità che caratterizzerà l’Urbe nei secoli a venire. Con furba avvedutezza esalta, lui etrusco, lo spirito nazionale romano, delimitando sul Campidoglio l’area in cui sorgerà il tempio dedicato a Giove. Celebre l’episodio che vede il re contrapposto all’augure Atto Navio e alla sua arte divinatoria. Un odierno giornalista di cronaca mondana non mancherebbe di formulare l’ipotesi che evidentemente il re, su certi argomenti, si fida solo della moglie.
E infatti quando a corte si verifica un prodigio straordinario, ecco tornare in primo piano Tanaquil. A interpretare, a calmare l’eccitazione altrui, a fondare il futuro per sé, per la sua famiglia, per il nuovo popolo cui appartiene. Un fanciullo dalle origini oscure, qualcuno lo vuole addirittura figlio di una schiava, ha, mentre dorme, il capo circondato dalle fiamme. Tanaquil parla al marito: scire licet hunc lumen quondam rebus nostris dubiis futurum praesidiumque regiae adflictae; proinde materiam ingentis publice privatimque decoris omni indulgentia nostra nutriamus.
Si chiama Servio Tullio. In realtà non è figlio di una schiava, è figlio di una nobildonna proveniente dalla sconfitta città di Corniculo, diventata amica di Tanaquil. E la regina ha evidentemente intuito le doti del ragazzino. Tarquinio gli fa sposare una delle sue figlie. Ma la voce che sia figlio di una schiava fa il gioco dei figli del re Anco Marzio che mai hanno digerito di essere stati sopravanzati da Tarquinio. E sono loro ad organizzare il complotto che a Tarquinio costerà la vita. Due pastori, fingendo di voler parlare al re, riescono ad avvicinarlo e lo feriscono a morte a colpi di mannaia.
Tanaquil capisce che la sua vita e la stessa situazione politica di Roma sono a una svolta. Per Tarquinio non c’è più nulla da fare, ma lei lo fa portare nella parte più protetta della reggia. E tranquillizza tutti. Il re sta bene, i medici stanno facendo il loro lavoro, la ferita è già stata pulita e per fortuna non sono stati resi organi vitali. Tarquinio, nelle parole di una Tanaquil straziata nel cuore e sorridente nel volto, apparirà tra poco di nuovo tra la gente. E intanto?
Interim Servio Tullio iubere populum dicto audientem esse; eum iura redditurum obiturumque alia regis munia esse. Servius cum trabea et lictoribus prodit ac sede regia sedens alia decernit, de aliis consulturum se regem esse dissimulat.
Servio sta dunque al gioco. Anche perché è proprio Tanaquil ad avere in mano la situazione. È lei che fronteggia il clamor impetusque multitudinis, dall’alto del palazzo che sorge vicino al tempio di Giove Statore e ha le finestre che guardano sulla Via Nuova.
La regina ha appena parlato a colui che sarebbe stato di lì a qualche ora, come annota Livio, il primo re a regnare iniussu populi voluntate patrum. Un discorso diretto, fortemente impegnativo, coraggiosamente contro i congiurati e ancor più coraggiosamente contro la successione dei suoi stessi figli, Arunte e Lucio: tuum est, Servi, si vir es, regnum, non eorum qui alienis manibus pessimum facinus fecere. Erige te, deosque duces sequere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circumfuso igni portenderunt. Nunc te illa caelestis excitet flamma, nunc esxpergiscere vere. Et nos peregrini regnavimus; qui sis, non unde natus sis reputa. Si tua re subita consilia torpent, at tu mea consilia sequere.
Il vero re è lei, padrona della situazione. Ma anche donna con le sue fragilità. Livio annota che prima di questo discorso, una vera e propria investitura, ha fatto appello alla necessità che un simile delitto non rimanga invendicato. E poi ne socrum inimicis ludibrio esse sinat, non lasci la suocera allo scherno dei nemici.
Tanaquil sparisce dalla scena. Dobbiamo pensare che essa rimane per qualche tempo alle spalle di Servio Tullio. E il suo fantasma torna a visitare Tullia, moglie di Tarquinio il Superbo la quale non sa darsi pace che una peregrina mulier, tantum moliri potuisset ut duo continua regna viro ac deinceps genero dedisset, che una donna straniera fosse riuscita a brigare tanto da procurare due regni, uno dopo l’altro, prima a suo marito, poi al genero.
Così non ci stupiamo della notizia che ci regala Plinio, riprendendo Varrone, secondo la quale nel tempio di Sanco si conservava la sua conocchia e nel tempio della dea Fortuna il manto da lei intessuto per Servio Tullio. Autentiche reliquie, venerati oggetti di culto. Tanaquil: donna e costruttrice di politica ad un tempo.
Tanaquil: donna e costruttrice di politica, ad un tempo.
Come dire? Forse, troppo donna. E dunque non ci stupisce più di tanto nemmeno il ricordo che di lei abbozza Giovenale, apostrofando Postumo, dedicatario della VI satira e colpevole di voler prendere moglie.
Nella lunga elencazione di delitti e manie muliebri, tutta tesa a distogliere l’amico dall’insano proposito, trova posto anche la donna superstiziosa, quella che non compie un solo passo se non ha consultato l’oroscopo. E l’astrologo, naturalmente, per risultare credibile, deve essere uno scampato alla forca o, almeno, un exergastolano. La moglie del povero Postumo, diventa, a questo punto, per antonomasia proprio Tanaquil, la quale rivolgendosi all’astrologo:
consulit ictericae lento de funere matris,
ante tamen de te, Tanaquil tua, quando sororem
efferat et patruos, an sit victurus adulter
post ipsam.
Chiede, la tua Tanaquil, quanto debba ancora aspettare la morte della madre itterica, ma, ancor prima la tua morte. E quando celebrerà il funerale della sorella e degli zii? E le sopravviverà, poi, per lungo tempo il suo amante?
Il passo di Giovenale, forse, ci aiuta a capire la mancata fortuna letteraria di Tanaquil: non ha destato tenerezze, resta nella memoria come una strega o quasi, si connota nel sentire comune come spregiudicata e interessata. Peccato, davvero peccato.