SCRITTA DA MARCO BOSCOLO,
FILOSOFO, GIORNALISTA E VIAGGIATORE
Marco Boscolo (Montebelluna, 1979) è un filosofo e giornalista di grande talento. Ha viaggiato in Europa, Asia e Africa realizzando audiodocumentari, reportage e video. In questi mesi ha scritto una guida di Treviso, molto eccentrica (nel senso alto del termine, molto personale, molto inedita), curiosa, indagatrice. TREVISO / UNA GUIDA (Odos Editrice, collana Incentro, Udine). “Ho scritto, dice Boscolo, per provare a specchiarmi nelle acque di una città dove affondano le mie radici ma che non ho mai capito fino a quando non me ne sono allontanato”. Molto vero, affascinante. Libro da scoprire. Una narrazione più che una descrizione. L’autore ha voluto farsi carico anche di punti di vista diversi dai suoi e ha chiesto ad alcuni intellettuali di raccontare la “loro” Treviso. Cinque fotografie d’autore. Quelle che ho scattato io: TREVISO CRIMINALE (ho naturalmente raccontato il delitto della contessa Onigo, accaduto proprio in centro l’11 marzo 1903); TREVISO CITTÀ D’ACQUE / 1 (il Sile, la restera, le mie avventure infantili sul grande fiume); TREVISO MISTERIOSA (l’enigmatico cuore di Francesco di Sales che stilla ancora sangue a secoli dalla morte); TREVISO CITTÀ D’ACQUE / 2 (le risorgive del Botteniga e i Cagnani); TREVISO DEI CAMPI (il tesoro di un antico tempietto sperduto nella campagne di San Pelaio, anche se io preferisco il più terragno San Paè, e le acqueforti del grande Francesco Piazza).
TREVISO CRIMINALE
Giardinetti di sant’Andrea, cinque minuti da piazza dei Signori, dietro piazza Borsa. Digradano verso il Sile e prendono nome dalla sovrastante chiesa neoclassica (dipinti di Ludovico Pozzoserrato e della scuola del Guercino). Qui, attorno alle 16 dell’11 marzo 1903, il pisnente Pietro Bianchet uccise la sua padrona, la contessa Teodolinda Zenobia, estrema erede della dinastia degli Onigo che con la sua morte si estinse. Pisnente, in antica lingua trevisana, indica l’ultimo gradino della miseria contadina. Bianchet si trovava nei giardini della contessa che lì aveva palazzo (distrutto dai bombardamenti del 7 aprile 1944) per i lavori di manutenzione primaverile. Aveva saputo che sua moglie, nella natia Trevignano, sulla strada fra Treviso e Montebelluna, aveva partorito. E aveva chiesto di tornare. Aveva chiesto anche un sacco di grano per le prime necessità e i soldi per un qualche mezzo pubblico. Gli fu negata dall’avarissima, sordida padrona ogni cosa. E lui, in quel pomeriggio di marzo, la attese sotto una magnolia e con due colpi di accetta la decapitò. La testa volò a quattro, cinque passi dal corpo. Bianchet andò a costituirsi subito. Il processo fu celebrato esattamente un anno dopo. A Venezia e non a Treviso, perché si temeva che la pressione del favore popolare, tutto dalla parte del Bianchet, influenzasse giudici e giuria. Fu enorme errore di strategia perché la città lagunare divenne cassa di risonanza mondiale. E ne parlarono i giornali di tutta Europa e anche d’oltreoceano. In qualche modo ci si rese conto che si era ad una svolta della storia. Che nel gesto del pisnente Bianchet si erano condensati ira e odio di intere generazioni di servi della gleba, sfruttati e valutati meno delle bestie della stalla o del pollaio. Che un sistema, di fatto ancora feudale, era arrivato alla fine. A Bianchet furono comminati otto anni e nove mesi. Niente. Non li scontò nemmeno tutti. La parte civile ammise una disastrosa sconfitta. Quel feudalesimo arido e gretto sarebbe stato spazzato dal primo conflitto mondiale, ormai alle porte. Storia densa. Di sangue e odio. Ma come sempre dimenticata. O, forse, rimossa. Una storia di pellagra, di miseria. La malattia della polenta, della carenza di proteine nobili. Una sorta di condanna per un popolo intero. Storia amara. L’ho rievocata nel mio primo romanzo, Il delitto della contessa Onigo.
TREVISO CITTÀ D’ACQUE / 1
Ho cominciato a comprendere le acque della mia città, ad amarle, a sentirle come un secondo sangue, quando ero ragazzino di forse sei, sette anni. Sono di stirpe contadina e la mia famiglia aveva terre dove oggi sorge l’ospedale. Ancora riconosco qualche punto di riferimento sulle spianate dei parcheggi. Le colonne di mattoni: segnavano l’inizio del lungo stradone che recava alla casa colonica. La stradina che si inerpica verso la ferrovia per Conegliano. Solo campi, mezzo secolo fa. E noi ragazzini andavamo a lavare i cavalli nei rami morti del Sile, cavalcandoli a pelo. Imperatore straccione, stretto alla criniera del mio Ciri, che mi amava come se fossi una parte del suo corpo. Una piuma adorante appoggiata alla sua schiena. Luminoso, inimitabile Far West della mia infanzia. Eravamo una cosa sola con il fiume e con le creature dagli occhi grandi, dolcemente ammusanti. Torno sempre, appena posso, al Sile. Percorro la restera che segue il fiume fino a Casier, a Lughignano, a Casale. Quasi fino al mare. Restera in italiano vale alzaia. Cioè il viottolo che costeggia il fiume ed era percorso dagli animali. Mediante una corda trascinavano i natanti e risalivano il fiume. Quella fune aveva un nome latino, restis. Ed ecco restera. Percorso bellissimo, tra anse e rami morti del fiume, tra piccoli approdi e porticcioli veri e propri. In quello di Casier si respira largo. Sul confine con Silea si cammina a fianco dei burci. Di ciò che ne resta, un vero e proprio cimitero, paradiso di folaghe, cigni, aironi, garzette. Anche cormorani e cicogne. E perfino specie aliene come le tartarughe e le nutrie. Ogni tanto si intravvede un esemplare di cigno nero, il black swan degli australiani, capitato chissà come da queste parti. Famoso per le sue tendenze omosessuali e anche per la teoria che reca il suo nome. Parla di eventi straordinari, di grande impatto. I burci fino a non molti anni fa portavano granaglie per gli impianti molitori della zona. Il fantasma della Chiari e Forti si erge ancora sulla riva sinistra. Tragico emblema di un abbandono colpevole, un moncherino di mattoni svuotato da un incendio che qualcuno vuole doloso. Appiccato per abbassarne il prezzo di mercato. Con la crisi dell’industria molitoria i burci sono diventati inutili. E adesso dormono (per quanto ancora?) in riva al fiume. Carene infilzate a fior d’acqua.
TREVISO MISTERIOSA
Cinque minuti a piedi da casa mia, sulla strada che passa per Ponzano e corre dritta al Montello. Sorge il monastero della Visitazione. Suore di clausura. Una sorta di enclave di silenzio, pace e preghiera in quella che una volta era periferia e ormai è città. Custodisce una reliquia preziosa, il cuore incorrotto (un miracolo, per chi vuole chiamarlo così) di san Francesco di Sales (1567, Château de Sales, Thorens-Glières – 1622, Lione). Santo famoso per le sue idee, avanzatissime per il tempo, in tema di comunicazione. Infatti è patrono dei giornalisti che proprio nella chiesa del convento si ritrovano ogni 24 gennaio, giorno assegnatogli dal martirologio. Il cuore ha alle spalle una storia lunga e drammatica. Ha viaggiato da Lione a Mantova. Poi da Mantova a Venezia e infine a Treviso. Ha attraversato la Rivoluzione francese e le intolleranze, in materia religiosa, di Napoleone. Oggi è custodito in una teca d’oro che si può osservare su un altare alla destra di chi entra. Ma la cosa che stupisce di più è che il cuore del santo stilla ancora sangue e intride le pezzuole che gli vengono accostate. Ho constatato di persona. San Gennaro è avvisato. Chi capita da queste parti (chiedere del monastero alle Corti, così lo conoscono i Trevisani) non può trascurare la straordinaria immagine aurea della Beata Vergine della Cintura, proveniente da Costantinopoli.
TREVISO CITTÀ D’ACQUE / 2
I fiumi di risorgiva sono magici. Hanno qualcosa di ancestrale ed eterno. Mi trovo vicino ad una pozza di acqua affiorante, limpidissima. Alzo gli occhi e, pochi metri più in là, è già fiume ampio. Un coup de theatre di sua maestà Natura. È così alle sorgenti del Sile (una volta ho letto che con i suoi 91 chilometri è il più lungo al mondo tra i fiumi di risorgiva che arrivano al mare) tra Casacorba di Vedelago e Torreselle di Piombino Dese. Qui li chiamano fontanassi, con etimologia trasparente e con qualche connotazione spregiativa. Quante risorgive interrate in anni anche recenti, per strappare territorio al fiume. E il principale dei fontanassi del Sile è quello della Coa longa. Esco da casa mia, giro a destra. Pochi passi e mi trovo alle sorgenti verdi e ombrose del Botteniga. La polla e il fiume. Va dritto al cuore di Treviso. Si unisce al Pegorile che ha già ricevuto le acque dell’unico fiume che nasce dal Montello, la Giavera. Raccoglie le acque del canale Piavesella. E poi arriva alla cinta muraria nord di Treviso. Qui l’illuminata opera di un grande ingegnere idraulico, Giovanni da Verona detto Fra’ Giocondo (1433, Verona -1515, Roma), divide il Botteniga in vari rami (al ponte de pria, ponte di pietra) che attraversano la città e vanno a confluire nel Sile. Alcuni di questi rami sono i Cagnani. Su uno di essi, quello detto dei Buranelli, io sono nato. Lì ricordo un grande scrittore trevisano, Giovanni Comisso e indomabili zuffe, a capelli tirati e a pugni in faccia, tra comari del quartiere. Questioni di corna che in tal modo avevano consacrazione ufficiale alla luce del sole. Quelle zuffe erano un rito. E Treviso, nelle parole di Dante, sarà per sempre dove Sile e Cagnan s’accompagna (Paradiso, IX, 49). Vene e arterie di Treviso, la sua gioia, la sua perenne giovinezza.
TREVISO DEI CAMPI
Cammino e mi immergo nei campi, secoli fa ricoperti dalla foresta planiziale. Il pensiero si perde a immaginare: querce, olmi, aceri, frassini, pioppi, ontani, salici. E alcune radure delegate al ritrovarsi di popolo e al sacro. Oggi prati e vigneti. Nord di Treviso, località Roncole. Il mio quartiere, San Pelajo (ma io preferisco San Paè, più terragno). Qui sorge, nel verde, un tempietto, che risale agli anni attorno al Mille. Probabilmente l’edificio sacro più antico del territorio. È dedicati ai santi Gervasio e Protasio, martiri figli dei ravennati Vitale e Valeria. Un gioiello. Ben pochi ne conoscono l’esistenza. Lo sovrasta un piccolo campanile a vela, risalente all’Ottocento. Luogo dello spirito. Troppo a lungo dimenticato e trascurato. Possiede affreschi studiati dal grande restauratore Mario Botter, ma purtroppo in degrado. Ero con lo straordinario incisore Francesco Piazza quando, nel 1985, ritrasse questo luogo in una sua celebre acquaforte. Nell’immagine, alla parete sud sono addossate steli di pannocchia e pesa un’aura di abbandono. Piazza, che aveva studio lì vicino, in via dei Biscari, era solito corredare i suoi lavori di una didascalia. Qui leggo ti soccorrano gli uomini, reliquia di fedi lontane.